Ed ora qualcosa di poco serio

Lezione di misure in elettrotecnica:

ROMA:
a regazzì, pijate er filo rosso, ataccatelo ar testere, pijate l’artro filo
nero (sti milanisti der cazzo, ma perchè nu l’anno fatto giallo er filo der
negativo, mortacci loro) e attaccatelo a l’artro lato der testere, e
scriveteve sur fojo a lettura.
AHÒ statte bono co quelle palline de carta, che te sdereno!

NAPOLI:
wagliù, pigliat o’stument, attaccat chillu fil russ ngopp a resistenz a na
part ro strument e po’ o nir a chell’ata part ro strument.
at fatt?
va bbuò, scrivit chell ca liggit ngopp o strument.
pascà, chi t’è mmuort, iamm bellcu chelli pall’e cart, ca t sfonn

“carmine” su it.istruzione.scuola

Tentativo di dire qualcosa di serio sui dialetti e la scuola

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[La solita proposta strampalata di una parlamentare padagnola ha suscitato, nei gruppi di discussione sulla scuola e la lingua italiana, una polemica un po’ sconclusionata sui dialetti e le culture locali. Poiché si tratta di argomenti a me molto cari, mi dispiace, come sempre, che tutto finisca in vacca perché il tema viene proposto da chi cerca solo la rissa con provocazioni razziste.
Ho cercato quindi di affrontare la questione in modo un po’ più serio.
]

Nella sua ultima opera, Il linguaggio d’Italia, Giacomo Devoto ha dato la sintesi della sua straordinaria carriera di ricercatore nel campo della storia linguistica italiana. È un libro di grandissima densità e quindi non sempre di agevole lettura, ma ricchissimo di informazioni e affascinante per il rigore dell’argomentazione.

La storia della lingua italiana del ‘900 è condensata in un succinto capitoletto, all’interno del quale (in meno di due paginette) si trovano alcune sorprendenti osservazioni sull’influenza del sistema scolastico sull’evoluzione linguistica.

Il Devoto parte dalla riforma Gentile del 1923 (che l’autore non qualifica mai come "fascista"). La cosa più significativa in questa riforma è l’importanza data ai dialetti nella scuola elementare, con l’intento di "allontanarsi in modo drastico dalla visione autoritaria". Ne sono testimonianza quei libretti, di cui io ho trovato alcuni esemplari sulle bancarelle, di "esercizi di traduzione dal piemontese all’italiano"; libretti che il Devoto chiama "libri di lettura che facessero da ponte fra il parlare genuino e lo scritto".

Ma si noti. I dialetti non sono visti dal Devoto come uno strumento di collegamento tra il mondo in cui vive il bambino e il mondo della scuola – il dialetto come prima lingua veicolare – ma come strumento di educazione del gusto e della "creatività". Ed effettivamente, quei libretti contengono non conversazioni quotidiane, riferimenti a termini di uso comune, ma testi con una qualche pretesa di dignità letteraria: pagine d’autore, poesie e canzoni popolari selezionate in base ad una certa validità di gusto. È l’educazione al bel parlare ed al bello scrivere che si matura attraverso il modello di una cultura tradizionale – che come ogni tipo di cultura tende all’equilibrio e alla dignità delle forme.

Questa riforma gentiliana durò pochissimo. Dopo un paio d’anni il regime fascista "deviato verso una organizzazione dello stato in senso rigorosamente accentratore" mise al bando i dialetti.

Le conseguenze, per il Devoto, furono nefaste. La creatività, non avendo più "il modello o il termine di confronto dei dialetti" rimase senza guida; la successiva imponente espansione del sistema scolastico rese drammatica la mancanza di un legame tra un insegnamento grammaticale-normativo, mai assimilato veramente da nessuno scolaro, e lo spontaneismo anarchico.

La conclusione è ottimistica – ma notate, il testo è del ’74, il processo di degenerazione da allora è spaventosamente avanzato.

Di fronte a questa lingua letteraria, fondata su modelli temperati e aperti, il dialetto non è destinato ad essere né un marchio di inferiorità, né un simbolo romantico di gentili età scomparse, né un malinteso simbolo di degenerazioni autonomistiche o separatistiche. Esso rimane valido come legittimo termine di confronto, permanente, antidogmatico nei confronti della lingua letteraria. È una alternativa, liberatrice, alla spersonalizzazione e banalizzazione irradiante dalla lingua letteraria, generalizzata nell’uso.

Considerazioni aritmetiche sull’esame di Stato

Il voto d’esame deriva dalla somma di tre fattori:

il credito (in venticinquesimi)
le prove scritte (in quarantacinquesimi)
il colloquio (in trentesimi)

Il sistema è combinato in modo che la somma dei minimi valori sufficienti

credito 10
prove scritte 30
colloquio 20

dia 60/100; e che la somma dei valori massimi

credito 25
prove scritte 45
colloquio 30

dia 100/100.

Detta così, si può pensare che ci sia una corrispondenza perfetta con la valutazione in decimi: 6/10 = 60/100.

In realtà la formazione del valore finale è un po’ più complessa.

Mentre la valutazione in decimi (usando i numeri interi) comprende cinque valori per l’insufficienza (1-5) e cinque valori per la sufficienza (6-10), è noto che la formazione del voto d’esame è fatta in modo completamente diverso.


Il credito

Il credito non è la diretta trasformazione della media in decimi in un valore in venticinquesimi, ma l’applicazione di alcune tabelle di corrispondenza. La scelta del valore da usare per il calcolo del credito è affidata all’ampia discrezione dei CdC.

Per semplicità facciamo l’ipotesi di una media finale che si ripete per tre anni.

Media del 6 pulito:
può essere 3 + 3 + 4 = 10/25 (quindi 6/10 = 40% del credito massimo)
oppure 4 + 4 + 5 = 13/25 (quindi 6/10 = 52%)

Media del 6,5:
4 + 4 + 5 = 13/25 (quindi: 6,5/10 = 52%)
oppure 5 + 5 + 6 = 16/25 (quindi: 6,5/10 = 64%)

Media del 7,5:
16/25 (64%) oppure 19/25 (76%)

Media dell’8,5:
19/25 (76%) oppure 25/25 (100%)

Quindi nel calcolo del credito le differenze di media sono fortemente amplificate, lasciando al Consiglio di Classe un ampio margine di discrezionalità.

Aggiungiamo due piccole considerazioni.

1. Maria Stella Gelmini ha deciso di inserire il voto di condotta nel calcolo della media. Non so quanti ragazzi si trovino alla fine dell’anno con 6 in tutte le materie, e 6 in condotta. Credo molto pochi. Nel mondo reale, non nel mondo delle Marie Stelle, questo significa che la media del 6 pulito è evento quasi impossibile. Quindi, di fatto, il valore minimo di credito è 13. Il calcoletto che avevo messo all’inizio, tre valori sufficienti che danno come somma 60/100, ormai è una pura ipotesi accademica. Una media “sufficiente” nel corso di tre anni, più prove d’esame “sufficienti”, danno per risultato almeno 63.

2. Maria Svampitella Gelmini ha altresì deciso che dall’anno prossimo per essere ammessi all’esame si dovrà avere 6 in tutte le materie. Poiché nel mondo reale, non nel fantastico mondo delle Marie Stelline, non esiste un Consiglio di Classe che escluda dall’esame un ragazzo con un paio di insufficienze, anche gravi, questo significa che un bel po’ di spazzatura verrà nascosta sotto il tappeto, e le medie dell’ultimo anno verranno abbondantemente rivalutate.


Prove d’Esame

Fin dal primo anno del Nuovo Esame di Stato le Commissioni hanno dovuto digerire queste strane scale di valutazione asimmetriche. Le prove scritte sono valutate in quindicesimi, con 9 valori insufficienti e 6 valori sufficienti (io do per scontato che la valutazione minima sia 1, non 0; ma cambia poco alla sostanza delle cose). Il colloquio era valutato in 35esimi (21 valori insufficienti contro 14 sufficienti), ora in 30esimi (19 contro 11).

Prendiamo il sistema attuale, fiorongelminiano. È vero che ci sono fino a 25 punti di credito, 45 di scritto, 30 di orale; ma questo non significa che nella valutazione complessiva le tre componenti valgano come il 25%, il 45%, il 30%. Se prendiamo la banda di oscillazione tra la stretta sufficenza e il massimo, abbiamo:

16 valori per il credito (da 10 a 25)
16 valori per le prove scritte (da 30 a 45)
11 valori per il colloquio (da 20 a 30).

Nella vita reale delle Commissioni, in cui non si fanno somme a partire da 1, ma si danno valori in più o in meno della sufficienza, questo significa che il colloquio d’esame, evento iniziatico su cui si appuntano ansie e speranze di studenti, insegnanti, genitori, ha ormai ben poco valore.

L’economia della scuola. Capitolo primo.

Ragionare per metafore può essere efficace dal punto di vista espositivo, ma dal punto di vista logico è quasi sempre capzioso.

In ogni caso, anche le metafore possono essere più o meno efficaci.

Una delle metafore più sciocche è quella della "scuola azienda".

Ci sono tantissimi motivi per cui ragionamenti di tipo aziendale non possono essere applicati alla scuola, provo ad enunciarvene uno.

Nella scuola non si possono fare economie di scala. Si possono fare economie di scala nell’edilizia scolastica, ed in alcuni altri aspetti marginali, ma nella didattica no. Anzi, dal punto di vista dell’insegnamento vero e proprio, è più probabile che si verifichino delle diseconomie di scala.

In altri termini, nella scuola si possono ragionevolmente perseguire tre obiettivi:

  1. il miglioramento della qualità dell’istruzione
  2. l’allargamento del sistema scolastico, e quindi l’aumento del numero dei diplomati
  3. la riduzione dei costi.

Ma non si possono perseguire questi tre obiettivi insieme. Si deve fare una scelta. Si decide quale deve essere l’obiettivo prioritario, ed in conseguenza di questa scelta almeno un altro obiettivo deve essere completamente abbandonato, e anche il raggiungimento del terzo può incontrare delle difficoltà.

Com’è noto, quasi cinquant’anni fa la società italiana si avviò verso la scolarizzazione di massa. Il primo atto fu la riforma della scuola media. Seguirono altre trasformazioni, con una loro storia particolare, che però nel complesso corrispondevano ad un’evoluzione comune a tutti i paesi avanzati.

Com’è evidente, questa scelta comportò un aumento dei costi. Forse anche un peggioramento della qualità dell’istruzione, anche se in questo caso sicuramente bisogna fare la tara dell’effetto ottico per cui tutto quello che c’era una volta era meglio ecc.

Oggi la scelta è la riduzione dei costi. Certo, ognuno ha la sua lista personale di sprechi che si potrebbero eliminare nella scuola, come in ogni struttura organizzata, soprattutto se è molto grande. Ma la riduzione dei costi che ci viene proposta va ben al di là di una semplice razionalizzazione della spesa.

È possibile che una società decida un’operazione di questo genere, purché sappia a cosa va incontro. Ridurre i costi, significa rinunciare o alla qualità dell’istruzione, o all’aumento del numero dei diplomati, o a entrambe le cose insieme.

Chi dice che si può avere un maggior numero di diplomati, meglio preparati, ad un costo minore, è un millantatore.

Il latino? Inutile

Il latino? Inutile (*).

Ci voleva un’indagine approfondita di una grande organizzazione come TreeLLLe per arrivare a questa ardita ed innovativa tesi, che di sicuro aprirà un appassionato dibattito nel mondo della cultura.

“Latino e greco: il 75% degli intervistati li vorrebbe solo al classico”. Anche questa è una grande novità: siamo in attesa che il Prof. Gasperoni ci riveli in quali altre scuole (“… della terra, s’intende”), oltre appunto al liceo classico, si studia il greco antico.

Ma la cosa più sconfortante è che la musica, “compresa la sua pratica” (anche questa è un’acuta osservazione, non c’è che dire!) risulta essere di gran lunga la materia più “inutile”.

Non ho modo di verificare se le graduatorie stilate dai ricercatori della TreeLLLe siano attendibili. Ma il solo fatto che, in Italia, si discuta di musica e del suo insegnamento in termini di “utilità/inutilità”, è segno non solo di superficiale dilettantismo, ma diciamo pure, di penoso provincialismo.


 (*) Il Corriere della Sera, Mercoledì 13 Maggio 2009, p. 9

http://tinyurl.com/treellle

Fa media!

Alla fine dopo mesi di mal di pancia, il 7 maggio 2009 si è arrivati alla conclusione

Con riferimento all’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione, si conferma, pertanto, che il voto di comportamento, per l’anno scolastico corrente (art. 2, comma 1 dell’O.M. 8 aprile 2009, n.40), concorre alla determinazione della media dei voti ai fini sia dell’ammissione all’esame stesso sia della definizione del credito scolastico. Rimane, ovviamente, l’esclusione dall’esame finale di Stato degli studenti con un voto di comportamento inferiore a 6 decimi.
(Prot. AOODGOS/R.U./UN. 4777 Circolare n. 46)

Liceo scientifico: 5 di italiano, 5 di matematica, 5 di fisica, 6 in tutte le altre materie, 8 di condotta, media 6!

Complimenti Ministro Gelmini!

Scuola e povertà

Stando ad un corrispondente di it.cultura.sinistra, Franceschini a Ballarò avrebbe detto che “in Italia ci sono pochissimi laureati perchè il modello berlusconiano è di un successo fatto di soldi e tv e potere.”

Io ho risposto che quella frase mi sembrava una cagata – chi ha visto quella trasmissione mi farà sapere se Franceschini l’ha davvero pronunciata.

Richiesto di dare un mio parere sulla questione, prima ho detto che non me la sentivo di rispondere con una frase di due righe – i famosi cinque secondi televisivi. Poi ci ho pensato un po’ su, e in un paio di giorni ho messo insieme questa lunga sbrodolatura.

Non sono sicuro di saper dare una risposta esauriente. Ma tanto per cominciare metterei il fenomeno con relazione con il processo di impoverimento della società italiana, e l’esaurimento della classe media colta; processo di discesa sociale che dura ormai da quasi una generazione, e che secondo la Banca d’Italia ha avuto il punto più basso nel ’93, per poi stagnare fino ad oggi.

(L’indicazione di quella data, da parte della Banca d’Italia, è stata comprensibilmente suggerita dal desiderio di non entrare in una imbarazzante polemica; ma è vero che si tratta di una degenerazione sociale di cui il berlusconismo è molto più una conseguenza che una causa.)

La crisi del ceto medio e del lavoro dipendente qualificato, e l’emergere di quella che pomposamente si chiama Piccola Impresa, ma più propriamente sarebbe da indicare come Italia bottegaia, ha spostato le prospettive di ascesa sociale dei poveri dalla carriera nelle professioni verso le arti dell’arrangiarsi: l’evasione fiscale, contributiva ecc. Il lavoro dipendente è comunemente connotato come la banale ricerca del posto fisso, traguardo da raggiungersi più con relazioni di tipo familare-clientelare che con le capacità e le competenze: insomma, una roba da femmine e bamboccioni. La campagna terroristica contro i sindacati (responsabili di tutti i mali), i dipendenti pubblici – tra cui gli insegnanti (fannulloni!), i salariati garantiti in genere (scaldasedie, mentre l’Italia che lavora si alza alle quattro del mattino) è solo la manifestazione folkloristica di una società che nei bassi livelli vede una feroce selezione darwiniana, mentre nei livelli medio-alti è ultragarantita da solide relazioni paramafiose.

La scuola è strapazzata da questa situazione, e nella visione comune è stretta fra la vecchia illusione del “pezzo di carta” e la cinica consapevolezza che poi, alla fine, quello che conta veramente è la raccomandazione. Se a questo aggiungiamo il furibondo odio bottegaio verso il culturame e gli intellettuali (questo sì, abbondantemente alimentato dai modelli televisivi) il cerchio si chiude.


La crisi della scuola è in una relazione sinergica con questa degenerazione sociale. I tentativi di riforma, che si sono succeduti attraverso i governi – tentativi sempre più “epocali”, risolutivi, ma con una sempre più marcata impostazione ideologica e dilettantesca, fino all’ultimo deprimente pasticcio gelminiano – sono falliti perché hanno toccato solo la superficie del problema (si può  essere contemporaneamente “epocali” e superficiali: la storia d’Italia è piena di insignificanti “svolte storiche”).

Ho già raccontato più volte che mio padre era un chimico, ed aveva passato la vita a escogitare mescole di gomma. Quando venne a sapere che avevo avuto una cattedra in un (allora) noto ITIS per chimici industriali di Torino, mi disse con ammirazione: “Quella è una scuola da dove escono dei periti che in certe cose ne sanno più di un laureato”.

L’ascesa economica dell’Italia nel dopoguerra poggiava sulle solide basi di una Scuola superiore di forte contenuto culturale e professionale – non il Liceo gentiliano di cui alcuni continuano a ruminare. Periti, ragionieri, geometri, erano figure forti, prodotte da una scuola altamente selettiva, ma che almeno in parte rispondeva al dettato costituzionale dei “capaci e meritevoli”. A quell’epoca non circolava ancora la leggenda che la scuola è irreparabilmente indietro, indietro, rispetto al “mondo del lavoro”, e le aziende si rivolgevano agli Istituti Tecnici per avere non solo bravi diplomati da assumere immediatamente, ma trovare competenze professionali e dotazioni tecniche di cui non disponevano in proprio.

Questa scuola fu solo marginalmente sfiorata dal ’68 (che paradossalmente non ha mai elaborato una riforma della scuola). Ciò che ha scosso, non allora, ma nei decenni successivi, le fondamenta della scuola superiore, è stata, in primo luogo, la deindustrializzazione (a che serve una scuola per Periti Chimici se in Italia l’industria chimica è il cimitero degli elefanti?). In secondo luogo l’attacco alle professioni in quanto tali. Quella che sugli schermi televisivi è la demolizione dei magistrati, dei medici, degli insegnanti, dei “tecnocrati” e degli “intellettuali” ecc., nella dura realtà è il dissanguamento del ruolo dei tecnici intermedi, sempre più sospinti verso un sottoproletariato divorato dalla precarietà.

In Italia le cose sono quasi sempre fatte per burla, e se si fa qualcosa, si fa il contrario di quel che si dice. Questa è una rara eccezione. Trent’anni fa si è cominciato a dire con sempre maggiore insistenza che in Italia salari e stipendi sono troppo alti, e i lavoratori dipendenti sono troppo tutelati. Nei decenni seguenti s’è attuato un attacco sistematico, brutale, coerente e continuativo contro salari e diritti. A quest’attacco non poteva non seguire una progressiva squalificazione e dequalificazione della scuola. Quando sui giornali cominciò a prendere vita il mito del Nord-Est, cominciò anche a circolare la battuta: se vuoi comprarti una Ferrari a venticinque anni, devi lasciare la scuola a quindici. L’idea di costruirsi un futuro a scuola, con lo studio, divenne oggetto di derisione. E si capisce. Se assumi un tecnico capace, c’è poco da fare, devi pagarlo da tecnico. Se assumi uno stronzo qualunque, poi dargli una paga di merda.

La scuola e la politica hanno contrastato molto debolmente questo processo. Le uniche vere riforme della scuola superiore che si sono realizzate nel dopoguerra (i Programmi Brocca per i Licei e i tecnici, il Progetto 92 per i professionali), pur con i loro lati indubbiamente positivi, nascevano da una visione troppo ottimistica della realtà sociale e scolastica: l’utopia di coniugare sapere e saper fare, cultura e lavoro, scienza e umanesimo, era una grande idea, ma viaggiava un po’ come una mongolfiera su un panorama sociale sempre più degradato. La riforma universitaria del 3+2 (riforma “europea”, pensate un po’!) ha avuto un effetto opposto a quello desiderato. Invece di “democraticizzare” un’Università ancora troppo d’élite, ha svuotato di contenuti la Scuola superiore, ridotta ad un lunghissimo prolungamento della scuola media; e con le stolide chiacchiere della scuola vicino al mondo del lavoro, della competizione che è il sale della vita ecc. ha portato le Università a dotarsi di corsi di studio sempre più frammentati, parcellizzati, improbabili.


Insomma, ecco la famosa risposta in cinque secondi: In Italia la scuola è a pezzi per via dei bassi salari!

L’insufficienza in storia

“fm****” ha scritto su it.istruzione.storia:

Il prof chiedeva le date (ho sempre odiato ricordare i numeri; solo più tardi ho capito come si poteva inquadrarli automaticamente in un certo discorso logico), i nomi delle tre caravelle, i nomi dei re…

ho verificato che, quasi sempre, questo è il ricordo che l’insegnamento della storia lascia negli allievi che non amano quella disciplina.
Può darsi che ci siano insegnanti di storia incapaci che insegnano e pretendono solo date e liste di nomi. Allo stesso modo può darsi che ci siano insegnanti di latino che si limitano a recitare liste di eccezioni, ed insegnanti di italiano che vogliono sapere nome e cognome e numero di scarpe dei quattro capponi di Renzo, e per il resto non fanno nulla.
Ma la mia esperienza è che l’allievo che non ha interesse per la storia, che non ha nessuna comprensione per le sue problematiche, che rifiuta categoricamente di imparare il metodo e il linguaggio specifico della disciplina, quando alla fine deve affrontare l’interrogazione che mi permetta di mettergli un ipocrita cinquemmezzo piùpiù quasi sei per licenziarlo, si presenta avendo studiato a memoria un paio di paragrafi, a caso, del manuale.
Se poi gli dirò che aver studiato a memoria quei due paragrafi non mi basta, mi fisserà con odio, e mi chiederà sibilando fra i denti quali altri paragrafi avrebbe dovuto studiare a memoria per avere la sufficienza. Se gli dirò che l’importante non è ecc. ma ecc., lui se ne andrà mugugnando al posto, brontolando che ce l’ho con lui, che ha studiato tutta la sera per l’interrogazione ma chissà perché a me non basta, che l’ho fatto apposta per dargli l’insufficienza, e si preparerà a raccontare per tutto il resto della vita di aver avuto un professore di storia sadico che pretendeva di fargli imparare chissà quale vicenda ripugnante di gente morta da secoli.
Alla fine, mi prenderà per stanchezza, lo ascolterò disgustato recitare qualche frase strampalata di cui non ha capito assolutamente niente, quattro nomi storpiati e tre date senza significato, mi tapperò il naso e le orecchie e gli metterò cinquassei.
L’apprendimento a memoria, te lo potrà confermare qualunque insegnante, è il salvagente degli sfaticati. È il momento in cui l’insegnante sente sopra le spalle e il cuore il peso del fallimento del proprio mestiere.


Mamma: “Ah, hai l’insufficienza di storia? Ma vedi che sei proprio uno sfaticato, in storia non c’è niente da capire, è solo da studiare!”



fm**** ha risposto:

Veramente, il mio prof non spiegava: “per la prossima volta, studiate da pag x a pag y”!

sai la tragedia quando, per esempio, cambia l’edizione del libro di testo (cambiano spessissimo, il contenuto è lo stesso, ma serve ad obbligare i ragazzi a comprare libri nuovi) e io permetto ai ragazzi che ce l’hanno già di usare la vecchia edizione?

“Professore, a che pagina è… fino a pagina…?”
“Da pagina… a pagina…”
“Da pagina…?”
“No, tu hai l’altra edizione, guarda a pagina…”
“Professore…”


Non ditemi, per favore, che dovrei rispondere “guarda l’indice, leggi il titolo del capitolo”.
No, non ditemelo, per favore.

Graduatoria delle scuole piemontesi

“Dani” è stato il primo a segnalare su it.istruzione.scuola la ricerca della Fondazione Agnelli con una graduatoria degli Istituti Superiori Piemontesi:

tinyurl.com/af77tx

Per comodità dei lettori, ho trasferito i dati del PDF in una piccola tabella di Excel

www.mauriziopistone.it/materiali/RankPiemonte.xls

Ho aggiunto due colonne: in una c’è il valore assoluto della differenza fra le due graduatorie; nell’altra la media fra le due graduatorie.

Adesso non rimpiangete Fioroni?

Questo è un momento di un trèd su it.istruzione.scuola, non iniziato da me, che prende spunto dalle ultime disposizioni relative all’attribuzione dell’insufficienza (cinque) come voto di condotta.

In particolare, il DM 5 del 16 Gennaio 2009, facendo esplicito riferimento alle disposizioni emanate dal ministro Fioroni, dice che un voto di condotta inferiore a 6/10, quindi tale da comportare la non promozione allo scrutinio finale, può essere assegnato solo ad allievi che nel corso dell’anno abbiano riportato sanzioni disciplinari consistenti nell’esclusione dalle lezioni per un periodo superiore a quindici giorni.

Qualcuno ha sostenuto che a questo punto le nuove disposizioni non aggiungono in pratica nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto dalla precedente Amministrazione. Di qui la domanda del titolo.

In proposito “Michele” ha scritto:

Io non lo rimpiango, Fioroni ha fatto solo chiacchiere inutili e non è riuscito a risolvere un solo problema

Io gli ho risposto che Fioroni

  1. ha ristabilito le commissioni esterne all’esame di Stato.
  2. Ha cancellato il trascinamento pluriennale dei debiti.
  3. Ha dato la possibilità di irrogare sanzioni disciplinari forti, fino alla sospensione per tutto l’anno e la bocciatura o l’esclusione dall’esame di Stato per motivi disciplinari (DPR 21 Novembre 2007, n. 235)

Forse sono cose che non ti piacciono, ma dire che sono “chiacchiere inutili” è solo una meschina ripicca.

 


  Riguardo al 3° punto, la Gelmini non ha fatto che riprendere alla lettera le disposizioni di Fioroni, solo pasticciandole con la questione del “voto di condotta”, che era uno slogan elettorale in cui è rimasta invischiata. Comprendendo la condotta fra gli elementi che fanno media per il credito d’esame, ha creato un grosso motivo di incertezza nella valutazione (il “sette” di condotta è un bel voto o un brutto voto?)

Queste sì che sono “chiacchiere inutili”.