La lingua di Carlo Magno

Noterelle in margine alla Vita Karoli di Eginardo

  1. Premessa: l’eredità classica
  2. Eginardo e la Vita Karoli
  3. Regnare senza saper né leggere né scrivere
  4. Le lingue di Carlo
    1. La lingua dei Franchi...
    2. … e le lingue degli altri
  5. Lettura e lettori
    1. I libri
    2. Lettura e devozione
    3. Dal libro alla parola
  6. La lingua del re e la lingua del regno
    1. Dalla parola al libro
    2. Un Impero della nazione franca?
  7. La fine del mondo franco

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Premessa: l’eredità classica

Il mondo classico ha esplorato vastisimi ampi del sapere, sia in quelle che oggi chiamiamo scienze umane, sia nelle scienze naturali e nelle scienze esatte.

C’è però una grossa lacuna, relativa alla linguistica.

Per i greci l’unico interesse di tipo linguistico era la grammatica e storia della lingua greca; per i romani, grammatica e storia della lingua latina. Non si sono mai occupati scientificamente e con sistematicità delle lingue dei “barbari”.

In quella che chiamiamo “età classica”, per noi la Grecia è il centro del mondo. Da un punto di vista storico più complessivo, la Grecia era la periferia dell’Impero Persiano. E gran parte delle informazioni che noi possediamo su quella grande civiltà ci vengono appunto dalle opere degli storici e dei geografi greci. Moltissimi Greci, nell’età classica, e poi nell’età ellenistica, avevano necessariamente una pratica quotidiana con le diverse lingue di quell’immenso mosaico di popoli. Ma il mondo greco non ci ha lasciato nessuna grammatica del fenicio, dell’aramaico, dell’egiziano.

Così, i Romani nel corso della storia hanno dovuto comunicare con popoli diversissimi, ma non ci hanno lasciato una grammatica della lingua dei Sanniti, o dei Galli.

Meno che mai, ovviamente, l’antichità classica ha riflettuto sulle somiglianze e le differenze fra le diverse lingue, se non per confronti episodici fra vocaboli dal suono simile.

Fa eccezione a quanto detto prima l’imperatore Claudio, che aveva studiato approfonditamente la cultura e (forse) la lingua degli Etruschi, e aveva condensato le sue ricerche in un libro dal titolo Thyrrenica. Purtroppo quest’opera non c’è arrivato nulla nulla; è forse scomparsa immediatamente dopo la morte dell’autore, quando, su impulso del saggio Seneca, le migliori menti dell’aristocrazia romana si esaltavano per l’illuminato regno del giovane Nerone, e gli studi eruditi del malmostoso Claudio venivano derisi come la bizzarria di un vecchio pazzo.

È anche importante, in età cristiana, l’opera dei missionari, per i quali l’incontro con lingue diverse doveva essere un tema di costante e profonda riflessione. Quando il vescovo Wulfila, lui stesso mezzo goto e mezzo greco, tradusse le Sacre Scritture dal greco nella lingua dei Goti, dovette per prima cosa escogitare un nuovo alfabeto, aggiungendo alle lettere greche segni necessari per esprimere i suoni di una lingua germanica; e questo deve aver richiesto lunghe riflessioni sulla fonologia delle due lingue. L’esigenza di tradurre il più possibile alla lettera il testo biblico imponeva di sviluppare l’embrione di un’analisi comparata della grammatica e della sintassi delle due lingue. Di queste riflessioni non sappiamo nulla, essendoci arrivato soltanto il risultato finale, cioè la traduzione; per di più, un testo che non sembra essere stato conosciuto al di fuori del gruppo etnico a cui era destinato.

Quando si arriva a quel gran rimescolamento etnico e linguistico che è l’Alto Medioevo, noi vorremmo essere informati su tante cose. Per esempio la struttura delle lingue germaniche, i loro caratteri comuni, le loro differenze, le loro reciproche influenze, la loro evoluzione. Vorremmo sapere qualcosa sull’origine delle lingue romanze, e sapere quando la lingua parlata comincia a differenziarsi dalla lingua scritta al punto tale che non si può più parlare di due varianti della stessa lingua, ma di due lingue diverse.

A domande di questo genere è molto difficile dare una risposta. Gli autori del tempo non avevano neanche gli strumenti culturali per formulare quella domanda. Essi conoscevano sicuramente, oltre al latino scritto che maneggiavano più o meno bene, almeno una, e spesso più di una, delle lingue parlate; e Romani e Germani dovevano pur comunicare fra di loro. Ma non avevano ricevuto dal passato le parole, i concetti per dare una descrizione di quelle lingue e dei rapporti fra di esse.

Per tutto il medioevo, la parola “grammatica” significa quel codice particolare che serve a comprendere la “lingua dei libri”. Il massimo di competenza linguistica che si poteva avere all’epoca era la conoscenza di Elio Donato. Non solo era inconcepibile l’idea di una grammatica di una lingua diversa, ma ancora Dante è convinto che la gramatica, cioè la lingua latina formalmente definita, sia una costruzione artificiale, nata esclusivamente per lo scritto, e che gli stessi Romani parlassero in realtà diverse forme di “volgare” non molto dissimili dalla lingua dei suoi tempi. Il valore normativo della “grammatica” consiste nel suo essere un codice che trascende le circostanze di tempo e di spazio, permettendo quindi la comunicazione in un ambito universale. Non è la descrizione di una lingua effettivamente usata in un certo contesto storico. (De Vulgari Eloquentia I, 1, 2 e I, 9, 11)

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1. Eginardo e la Vita Karoli

Eginardo (ca. 775-840) apparteneva all’alta aristocrazia franca. Era nato in una località non precisata del Maingau, la bassa valle del Meno, nel cuore di quello che di lì a poco avrebbe costituito il Ducato franco. Ancora giovinetto venne mandato a studiare nel monastero di Fulda, dove manifestò subito grandi doti intellettuali, tanto che dopo pochi anni, intorno al 792-794 l’abate Baugulfo lo mandò a perfezionarsi alla corte di Aquisgrana. Qui Alcuino di York lo prese sotto la sua custodia, e lo introdusse nel più avanzato ambiente intellettuale dell’epoca. Fu in stretta relazione con il sovrano, e poiché possedeva una copia di Vitruvio veniva considerato esperto di architettura, tanto che gli fu chiesto di occuparsi, non si sa in che veste, della costruzione e della decorazione del Palazzo di Aquisgrana e della Cappella Palatina. Dopo la morte di Carlo passò al servizio di Ludovico il Pio, ricevendone in cambio il governo di diverse abbazie, nonostante fosse un laico ed avesse una moglie di nome Emma. Si distaccò dalla corte imperiale nell’829, nel pieno dei conflitti fra i pretendenti alla successione. Passò gli ultimi anni nell’abbazia di Selingenstadt, dove aveva trasferito le reliquie dei martiri Marcellino e Pietro prelevandoli di persona dalle catacombe romane.

Scrisse la Vita Karoli intorno all’828~830 (tale datazione non è accettata da tutti gli studiosi).

Era un uomo di grande e raffinata cultura; giusto all’inizio della sua biografia colloca una citazione dalle Tusculane di Cicerone, tanto perché il lettore sappia con chi ha a che fare. La sua opera segue il modello delle biografie classiche, soprattutto la Vita di Augusto di Svetonio: prima la narrazione dei fatti, in seguito la descrizione del personaggio in tutti i suoi aspetti più rilevanti. Eppure si definisce barbarus, et in Romana locutione perparum exercitatus (“barbaro, e modestissimo conoscitore della lingua latina”) (Pref.). In queste parole c’è sicuramente affettazione di modestia; ma io sospetto anche la consapevolezza di una irriducibile diversità: non basta essere un raffinato latinista per diventare un Romano. E forse non ci teneva neppure.

Dal punto di vista strettamente storico, la narrazione è precisa, ma molto stringata: la prima parte si riduce ad un lungo elenco di guerre, seguite dall’immancabile vittoria, dovuta all’accortezza, all’energia, alla costanza e all’abilità strategica del sovrano. Anche la narrazione dell’incoronazione imperiale, evento per noi centrale, è estremamente succinta. Eginardo mette in risalto la sorpresa di Carlo, che non era stato preavvisato da papa Leone della cerimonia, e il suo disappunto per aver accettato un titolo che avrebbe potuto portargli seccature, soprattutto nei rapporti con l’Impero d’Oriente.

Molto più approfondita l’analisi del carattere, delle abitudini, degli interessi e dei disegni dell’Imperatore. Qui emergono i tratti di un vero progetto culturale, religioso e politico di grande coerenza e lungimiranza, anche se rimasto in gran parte incompiuto. Naturalmente è difficile stabilire quanto ciò appartenga effettivamente alla lucida volontà di Carlo, e quanto invece sia la proiezione di una visione dell’autore, che cerca forse di ottenere un riconoscimento postumo ad un progetto che vedeva non completato dal suo personaggio, e poi del tutto abbandonato dai successori.

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2. Regnare senza saper né leggere né scrivere

Nonostante la vastità degli interessi e dei progetti culturali che Eginardo attribuisce a Carlo, l’imperatore era quasi del tutto analfabeta. Pativa evidentemente di questa limitazione, e poiché soffriva di insonnia, teneva sotto il cuscino (secondo altri autori: accanto al letto) tabulas… et codicellos (“tavolette e fogli”) su cui si esercitava litteris effigiendis (“a tracciare le lettere”); con scarso successo, però, poiché si era messo in quest’impresa tardi, e la praticava senza sistematicità. (Cap. 25)

S’è voluto sostenere che Carlo, nonostante questa difficoltà, fosse capace di leggere. Ed effettivamente sono possibili condizioni di alfabetizzazione parziale, per cui un soggetto, in difficoltà con l’espressione scritta, riesce però a decifrare i segni tracciati da altri, ed a leggere alcune parole: come Renzo Tramaglino, che nella bottega dell’avvocato si sforza di seguire sulla carta le parole della grida declamate ad alta voce dal dottore. È molto difficile però che Carlo fosse in grado di leggere autonomamente un libro, né mai Eginardo ce lo mostra in quest’attività. Dirò più avanti qualcosa a proposito della “lettura” nell’Alto Medioevo, qui vorrei richiamare un altro passo. Carlo era molto devoto, partecipava più volte al giorno alle funzioni religiose, che erano qualcosa di molto diverso dalla Messa come la intendiamo oggi. L’“ufficio” consisteva nella lettura di lunghe preghiere in latino, e soprattutto del Salterio su un tono di canto (salmodia). Carlo curava l’arredo delle chiese, la ricchezza dei paramenti sacri ecc., e “si occupò anche moltissimo di correggere la maniera di leggere e di salmodiare. Era molto esperto in ambedue le cose, quantunque non leggesse in pubblico e non cantasse se non a bassa voce e in coro con gli altri”. (Legendi atque psallendi disciplinam diligentissime emendauit. Erat enim utriusque admodum eruditus, quamquam ipse nec publice legeret nec nisi submissim et in commune cantaret. (Cap. 26)

Un tale silenzio non derivava certo da timidezza, né da incertezza nella parola (Eginardo lo definisce scherzosamente dicaculus, “persin troppo pronto alla battuta”). Evidentemente si trattava di mancanza di famigliarità con la parola scritta. Il Re dei Franchi, così attento al fasto e al decoro della liturgia, si trovava all’atto pratico in una condizione non molto dissimile da quella dei poveri conversi, i quali, a parte qualche preghiera in latino imparata a memoria, e una lunga assuefazione a osservare e imitare gesti e parole dei chierici, durante l’ufficio potevano solo stare a capo chino, e biascicare qualche parola a bassa voce, sperando che nesuno si accorgesse dei loro strafalcioni.

La cultura di Carlo, pur essendo notevole, secondo gli standard dell’epoca, non solo a paragone della quasi totalità dei laici, ma anche di buona parte degli ecclesiastici, viveva ancora tutta nell’oralità, e interamente orale era la conversazione con i grandi intellettuali che frequentavano la sua corte.

A volte Eginardo usa anche il termine scripsit (“scrisse”) (Cap. 29) riferito a Carlo, ma il senso della frase non è molto dissimile da quando si dice che un certo sovrano “edificò” una chiesa, un castello, una città…

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3. La lingua di Carlo

3.1. La lingua dei Franchi…

Qui ci inoltriamo in un terreno minato. Non perché sia difficile stabilire quale fosse la lingua materna – anzi: il patrius sermo – del re, quanto perché si scontrano da mille anni opposti nazionalismi. Fin dall’età degli Ottoni i tedeschi dicono che Carlo era tedesco, i Francesi dicono che Carlo era francese – per non essere da meno, i Belgi dicono che Carlo era belga. Come spesso in questi casi, sbagliano tutti. Germania e Francia (e Belgio), intese come le nazioni che conosciamo oggi, al tempo di Carlo non esistevano ancora. Carlo era re dei Franchi, un popolo di stirpe germanica che dalla zona di più antica occupazione, la valle del Reno, si espandeva in tutte le direzioni: verso la Gallia di nord-ovest, dove Siagrio alla fine del V secolo aveva mantenuto in vita l’ultimo frammento di dominio romano non sotto controllo germanico; verso sud-ovest, i Pirenei baschi, e l’Aquitania visigotica; verso sud, la terra dei Burgundi, e subito dopo l’Italia longobarda e bizantina; verso l’est già civilizzato dei Bavari, degli Svevi, degli Alamanni, dei Turingi, e poi l’immenso mondo selvaggio dei barbari Sassoni; verso il nord dei Normanni. Lo sforzo di Carlo fu quello di unificare tutto quel mondo in un grande Regno, poi in un Impero emulo di quello di Costantinopoli. Questo sogno finì in un disastro; e la divisione del Regno franco in due grossi tronconi, Francia e Germania, è il segno più clamoroso di questo fallimento.

Oggi gli storici francesi traducono il termine Francia, riferito alla patria di Carlo, con “Francie”, per distinguerlo da “France” che è invece la nazione moderna.

Carlo era il re dei Franchi, ed il suo patrius sermo era ovviamente la lingua dei Franchi. (Cap. 25)

Certo, il franco era una lingua germanica, ma questo non significa che Carlo fosse un “tedesco”. Se per “lingua tedesca” e “lingua francese” intendiamo idiomi con una loro precisa identità ed omogeneità, che definiscono due grandi nazionalità europee, questo alla fine dell’VIII secolo è ancora un anacronismo.

Non abbiamo molti documenti della lingua dei Franchi di quell’epoca; sappiamo però che apparteneva al gruppo del “basso” tedesco (Plattdeutsch), mentre il tedesco moderno appartiene al gruppo “alto”, caratterizzato dalla seconda rotazione consonantica, per intenderci quella per cui all’inglese three corrisponde il tedesco drei, all’inglese dish il tedesco Tisch, e in italiano coesistono le due forme banca e panca originate da due diverse influenze germaniche.

Nei testi dell’epoca – ma non nella Vita di Eginardo – troviamo il termine theotiscus (da cui in seguito si ebbero sia “tedesco” sia “Deutsch”), che esprime la consapevolezza di una certa affinità fra diverse lingue; ma si tratta all’epoca di un insieme molto vario e molto variabile, senza confini certi. Non è una definizione “linguistica” nel senso in cui la intendiamo noi. È la definizione di un “ambito” etnico che si riconosce per la sua estraneità d’origine rispetto a quello “romano”, senza avere ancora raggiunto una propria identità precisa.

Eginardo usa invece i termini Germania e Germani, che non dimentichiamolo, erano nomi dati dai Romani, non termini che usavano i Germani per indicare sé stessi. Li usa quasi sempre in modo assai generico; a volte per indicare l’ambito etnico-geografico della Germania come la intendevano gli autori romani, il mondo ad est del Reno e a nord del Danubio; a volte però con una connnotazione di estraneità. Nel Cap. 7 usa il termine Germania in contrapposizione al mondo dei Franchi, per indicare l’area orientale abitata dai Sassoni, dove Carlo dovette penare a lungo per portare, col ferro, col fuoco e con le deportazioni di massa, quei selvaggi all’obbedienza della sua legge ed alla fede cristiana; ed è di nuovo la Germania, questa volta la Turingia, l’ambiente in cui matura la congiura di Hardrad per scalzare il re. (Cap. 20)

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3.2. … e le lingue degli altri

Carlo conosceva anche le lingue degli altri, dei peregrini, cioè degli “stranieri” – stranieri ovviamente rispetto al mondo franco
(Cap. 25)

Conosceva la lingua latina: naturalmente, poiché la sua era una cultura orale, conosceva il latino parlato, cioè la lingua parlata dai popoli di tradizione romana (o “gallo-romana”, come amano dire gli studiosi francesi).

Col senno del poi, noi diciamo che si trattava dell’embrione delle moderne lingue romanze. Forzando un po’ il testo, possiamo anche dire che si trattava dell’embrione della lingua francese; ma Eginardo non ce lo dice, dice solo che in quella lingua latina sapeva orare. Qui gli studiosi si sono scervellati per capire che cosa significa quest’orare, se significa “pregare”, oppure “pronunciare discorsi”, oppure banalmente “conversare”. Di una cosa siamo certi: non si tratta né di “leggere”, né di “scrivere”: poiché queste erano arti che Carlo non conosceva, in nessuna lingua. Eginardo si limita a dire che in questa lingua latina se la cavava tanto bene quanto in quella patria, cioè in quella lingua franca in cui era nato ed era stato educato.

Capiva qualcosa anche della lingua greca, anche se la parlava stentatamente.

Fino all’incoronazione imperiale di Carlo, almeno nominalmente Roma era inserita nell’Impero bizantino. Inoltre, anche se la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli erano per tanti versi ormai lontane, non si era ancora ufficialmente consumato il grande Scisma. Le due capitali erano in stretta relazione, e gli esponenti più di rilievo della gerarchia cattolica dovevano avere contatti più o meno costanti con i loro omologhi orientali. La tumultuosa espansione araba non aveva ancora del tutto cancellato l’importanza del greco nelle relazioni internazionali, in campo politico, come in quello religioso e commerciale. Naturalmente per il greco vale lo stesso di scorso del latino: alla lingua dei libri si affiancava ormai una lingua parlata, l’embrione di quella δημοτικὴ γλῶσσα (“lingua del popolo”) che non aveva ancora uno statuto ufficiale, anzi, formalmente non esisteva, poiché era considerata solo una modalità di espressione di quella stessa lingua che era alla base della vita dello Stato e della Chiesa d’Oriente; ma che sicuramente tutti parlavano, indipendentemente dalla loro maggiore o minore competenza nella lingua scritta. Anche nel mondo greco il ceto colto viveva ormai in una sostanziale diglossia, ove tutti parlavano più o meno allo stesso modo, e solo una minoranza colta usava, nello scritto, e in situazioni ufficiali forse anche nel parlato, la lingua antica.

In Francia ostentare una qualche conoscenza, anche di ripiego, della lingua di quell’altro Impero, per il ceto dominante era un obbligo sociale; e non se ne esime neppure Eginardo, il quale inserisce nella sua Vita una frasetta in greco, tanto per dimostrare di essere membro di quel club
(Cap. 16).

Invece Eginardo non ci dice assolutamente niente della competenza di Carlo nelle altre lingue germaniche. Qual era il livello di mutua comprensione fra i diversi gruppi etnici? In che lingua parlava con quella moglie longobarda di cui non sappiamo neppure il nome, e che il Manzoni chiama poeticamente Ermengarda? In che lingua parlava con i Visigoti (fino a che punto romanizzati?) d’Aquitania? Con i Normanni? Con i selvaggi Sassoni della Germania? Col Sassone – ma non Germano – Alcuino? Con quei Turingi franchizzati (ma fino a che punto?) che avevano cercato di scalzarlo?

Su queste cose possiamo solo formulare ipotesi a partire da una documentazione scarsissima. Le pochissime informazioni che ci dà Eginardo sono ugualmente preziosissime.

Nel Cap. 15 c’è un’indicazione molto generica sulle popolazioni barbaras ac feras (“barbare e selvagge”) che abitano la Germania inter Rhenum ac Visulam fluuios oceanumque ac Danubium (“fra il Reno, la Vistola, l’Oceano e il Danubio”) e che sono lingua quidem poene similes, moribus uero atque habitu ualde dissimiles “quasi simili per lingua, ma assai dissimili per costumi e modi di vita”). Ma quel “quasi simili” è un’indicazione che soddisfa poco le nostre curiosità.

Più che dal punto di vista linguistico, quest’indicazione è imporante da quello geografico. La somiglianza di lingua è l’unico elemento in comune che permette di distinguere queste popolazioni da quelle che vivono più ad est, Slavi ed altre etnie. Alla definizione dei Germania che era stata ereditata dall’età classica, un’area separata dal mondo romano lungo le valli del Reno e del Danubio, ora si può trovare un limite orientale, la Vistola. Carlo perdomuit, “sottomise” questa congerie di popoli, dando unità politica ad un raggruppamento linguistico che non rappresentava ancora un’identità etnica.

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4. Lettura e lettori

4.1. I libri

Per noi oggi leggere è un’operazione a cui siamo stati abituati fin da bambini, e che, con maggiore o minore competenza, esercitiamo quasi inconsapevolmente. Anche fuori dal mondo dei libri, ovunque giriamo lo sguardo ci troviamo di fronte ad una selva di parole scritte: etichette nel supermercato, cartelli stradali, firme di grandi sarti sulle mutande. Perfino il telefono, nato per trasmettere a distanza la voce, è diventato per i più uno strumento usato prevalentemente per comunicare mesaggi scritti.

Per noi leggere un libro in una lingua diversa dalla nostra, per esempio un libro in latino, presuppone la conoscenza della struttura e del lessico di quella lingua. Non è una cosa semplice, certo: quelli che hanno fatto un liceo si pavoneggiano come fossero dei grandi latinisti, anche se ben pochi di loro sono effettivamente capaci di comprendere un testo relativamente semplice. Ma una volta padroneggiata questa disciplina, si apre immediatamente un immenso campo di conoscenze.

Nell’alto medioevo le cose erano più complicate.

La scrittura era un fatto eccezionale. Il materiale su cui scrivere, carta o pergamena, era molto raro e costoso; per questo si cercavano dei sostituti più economici, per esempio le tavolette in legno già note nell’antichità. Un libro era un bene rarissimo, e quasi sempre difficilmente decifrabile.

I codici miniati che ammiriamo nelle vetrine dei musei, nei libri d’arte, erano come quadri di grandi autori, beni la cui rarità e il cui valore artistico era infinitamente superiore alla loro utilità come veicoli di parole. Si ricercavano quindi scritture più economiche, fatte su materiale spesso raccogliticcio: vediamo atti notarili o pubblici scritti su pezzi di pelle dalla forma irregolare, con lacerazioni a volte malamente ricucite. Era normale l’uso di raschiare pazientemente vecchie scritture per ottenere del materiale riutilizzabile. E su questo materiale così irregolare, si scriveva a mano, con grafie varie e spesso assai irregolari. Ai tempi di Carlo comincia a diffondersi l’uso di nuovi caratteri, noti come “minuscola carolina”, da cui derivano le scritture che usiamo oggi, sia nel “corsivo” sia nello “stampatello”. Ma la gran parte dei testi scritti doveva ancora mostrare quel guazzabuglio di zampe di gallina che oggi si chiama all’ingrosso “scrittura merovingia” o “merovingica”: una grafia intricata di legature e abbreviazioni, per di più assai diversa da una cancelleria all’altra, da uno scriptorium all’altro. Soprattutto, la punteggiatura era quasi sempre scarsa, largamente arbitraria; molto spesso del tutto assente.

La lettura di questi testi era molto difficile; occorreva riconoscere le singole lettere, separare le parole, sciogliere le abbreviazioni, ricomporre la struttura della frase e dare ad essa la giusta intonazione, per comprendere i legami sintattici. E l’unico modo per farlo era la lettura ad alta voce. Oggi leggere compitando poco per volta sillaba dopo sillaba, parola dopo parola, è il segno inequivocabile di quasi totale analfabetismo, o di grave dislessia. Allora era l’unica pratica conosciuta; anche nell’età classica e postclassica, in un ambiente culturale completamente diverso, la lettura silenziosa era un’abilità eccezionale, quasi miracolosa, che suscitava meraviglia.

Insomma, l’uso universale di una lingua già molto diversa dalla lingua parlata non era l’unico ostacolo, e forse neanche il più grosso.

Anche nell’ambiente ecclesiastico, solo una minoranza possedeva alcuni libri, o aveva accesso a qualche biblioteca. E l’apprendimento della lettura richiedeva grande applicazione e capacità, uno studio di anni.

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4.2. Lettura e devozione

Adesso a noi pare ovvio dire che gli ecclesiastici, almeno lo strato più colto, avessero famigliarità con la lettura. Ma dobbiamo porci in un clima culturale completamente diverso.

Per noi la lettura di un libro – che è sempre lettura silenziosa – ha come fine la conoscenza del contenuto di qusto libro; anche se si tratta di libro d’evasione, di un leggero romanzetto, è un’esperienza intellettuale che richiede un minimo di esame critico e giudizio analitico.

Nel mondo ecclesistico dell’Alto Medioevo la lettura è essenzialmente un atto di devozione, che si tratti di lettura delle Sacre Scritture, di vite dei santi, o materiale consimile.

Nella lectio divina, la lettura della Sacra Scrittura, la prima finalità non è comprendere il testo, ma lasciarsi compenetrare dalla Parola di Dio. La lettura è un’esperienza mistica, di totale abbandono. Come in molte altre religioni, la lettura richiede una particolare intonazione, detta salmodia, che trasforma la parola in puro suono. La lettura coinvolge l’intera persona del lettore, non solo la mente e la voce, ma tutti gli organi della respirazione e della fonazione, con uno sforzo fisico costante. Nella bocca del lettore, la parola viene ruminata, si diceva, per diventare vita e movimento dell’anima e di tutto il corpo. Questa pratica, esercitata per anni, portava ovviamente anche ad imparare a memoria vaste sezioni della Bibbia. La lettura quotidiana del Salterio era codificata da precise norme comprese nelle Regole, che prescrivevano quali Salmi leggere, a seconda delle ore del giorno e delle stagioni dell’anno; a questi molte congregazioni aggiungevano letture supplementari, “supererogatorie”, che portavano il tempo di lettura ad assorbire quasi del tutto le energie del monaco.

Nello stesso mondo ecclesiastico, “lettura e comprensione”, come si richiede da noi fin dall’apprendimento elementare, era un punto d’arrivo riservato a pochissimi grandi ingegni.

Di conseguenza, come in tutte le società antiche, la pratica della parola e della memoria aveva una diffusione, un’importanza e una potenza per noi impensabili. Importantissime questioni di ordine pratico, politico, giuridico, religioso, letterario ecc. venivano discusse fra esperti riuniti in un consesso, secondo rituali consolidati. Enormi quantità di nozioni, complicatissime narrazioni, lunghissime composizioni poetiche venivano ritenute a memoria, e trasmesse anche per secoli attraverso l’esposizione / narrazione / recitazione di fronte ad un pubblico attentissimo e pronto ad imparare tutto a memoria, parola per parola; ma anche a riprendere l’oratore / narratore / cantore, se commetteva il minimo sbaglio rispetto ad un contenuto che era già di dominio pubblico.

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4.3. Dal libro alla parola

Carlo seppe circondarsi di personaggi di grandissimo valore intellettuale, fra cui lo stesso Eginardo è uno dei più rappresentativi. Con la loro collaborazione riuscì a concepire un progetto politico e culturale di altissimo livello, forse troppo avanzato per l’epoca, tanto che dopo la sua morte fu in parte abbandonato, per essere ripreso secoli dopo, in altri modi e da altri soggetti.

Di questo pool di intellettuali però Eginardo cita solo due nomi: uno è Pietro da Pisa, l’altro il già ricordato Alcuino.
(Cap. 25)

Sicuramente Alcuino era il personaggio più prestigioso, quello a cui tutti guardavano come un maestro. Versato in quasi tutte le scienze, ebbe un ruolo decisivo nella “rinascenza carolingia”, nella riforma del clero e nell’alfabetizzazione dell’aristocrazia franca.

Il giovane Eginardo, arrivato alla corte regia quando aveva forse una ventina d’anni, ebbe subito con lui un rapporto quasi filiale. I membri della schola palatina si riconoscevano in uno pseudonimo un po’ scherzoso, che indicava una loro caratteristica specifica. Alcuino aveva scelto per sé quello di Flaccus, che è il terzo nome del poeta Orazio; scherzando sulla piccola statura di Eginardo, lo chiamava nardulus “fiorellino profumato”, e, con allusione alle sue competenze tecniche, Beseleel, dal nome dell’artigiano costruttore dell’Arca e di altri arredi del Tempio.

Pietro da Pisa, all’epoca già senex, “vecchio”, veniva considerato un grande grammatico; di lui ci sono rimaste diverse operette, fra cui Quaestiunculae in forma di domanda e di risposta su diversi argomenti grammaticali, e una Ars Petri che commenta Elio Donato e altri grammatici latini.

Quale può essere stato il rapporto fra questi personaggi e Carlo? A parte gli incarichi ufficiali, Eginardo parla di una frequentazione assidua, di un vero e proprio insegnamento impartito da questi e dagli altri grandi sapienti al sovrano, anche se, ovviamente, in modo non sistematico e formalizzato, ma durante lunghe libere conversazioni, a volte anche a pranzo, come aveva già anticipato nel
Cap. 24. In queste conversazioni Carlo riceve una vasta, anche se sicuramente non sistematica, istruzione nelle “arti liberali”: grammatica, retorica, dialettica, astronomia e matematica.

Ma come si fa ad insegnare queste discipline ad un analfabeta, per di più costantemente impegnato nei gravosi compiti di amministrazione del regno?

Carlo durante il pranzo amava udire qualche acroama o qualche lettore. Per quanto riguarda il primo termine, di origine greca e di significato quanto mai vario, forse non andiamo troppo distante dal vero parlando di una qualche forma di intrattenimento di pura evasione. Per quanto riguarda invece la lettura, invece, Eginardo ci dà informazioni più precise. Ci parla di storie degli antichi, campo invero assai ampio e vario, e qualche lettura decisamente più impegnativa, fra cui le opere di Sant’Agostino e soprattutto La città di Dio.

Quest’ultima informazione, data in modo netto e preciso, pone dei grossi problemi. Di sicuro non si trattava della lettura integrale del testo latino. Ed è anche difficile che si trattasse di una traduzione più o meno letterale. La città di Dio è un’opera di notevole mole, che contiene un’analisi molto puntuale, diciamo pure a volte minuziosamente pedantesca, di innumerevoli questioni relative alle letterature classiche, alla filosofia, soprattutto platonica e neoplatonica, alle Sacre Scritture. È un’opera che il lettore moderno non può affrontare senza una solida preparazione letteraria e filosofica, ed anche in questo caso necessiterà di un buon apparato di note. Difficile immaginare un’esposizione di questo genere a tavola, mentre il maestoso ascoltatore mangia con gusto grandi quantità di selvaggina arrostita.

Il “lettore” (non sappiamo quale dei saggi della Schola Palatina si assumesse questo gravoso compito) più che un semplice lettore, più che traduttore, ed anche più che commentatore, doveva essere un autentico “mediatore culturale”, capace di trasporre le categorie della cultura classica di cui Agostino era imbevuto, nel mondo, da questa lontanissimo, di Carlo.

Il compito di presentare le basi della grammatica a Carlo ricadeva soprattutto sulle spalle di Pietro da Pisa.

L’insegnamento della grammatica, ovviamente latina, presupponeva già una certa conoscenza della lingua; essa si basava fondamentalmente sull’opera degli autori antichi, fra cui soprattutto Elio Donato, la cui Ars Minor esponeva quella dottrina che tutti noi abbiamo conosciuto alla scuola dell’obbligo come “analisi grammaticale”: che cos’è il nome, il pronome, il verbo… L’utilità pratica di questo insegnamento, impartito ad un analfabeta, la cui lingua madre era il franco, e che se la cavava sì bene con il latino “parlato”, ma non era mai riuscito a raggiungere la capacità di praticare autonomamente la lettura e la scrittura, doveva essere modestissima. Poteva servire a stimolare la sua curiosità, a soddisfare il suo compiacimento per essere riuscito a far venire al proprio servizio uomini famosi nel mondo per cultura e saggezza, a comprendere un po’ meglio il senso delle lunghissime e ripetitive celebrazioni religiose, campo in cui abbiamo visto che non voleva mostrarsi impreparato. Gli forniva forse un po’ di terminologia “colta” da inserire con noncuranza nei contatti con gli ambasciatori stranieri, con i grandi ecclesiastici, con i principi e i re del mondo, per far vedere come anche un sovrano “barbaro” con capelli lunghi baffi e pantaloni poteva all’occorrenza tenere testa ai “romani” con la loro clamide, la loro faccia sbarbata e il loro parlare forbito. Poteva soprattutto fargli intravvedere, per quanto in modo molto sfocato, la prospettiva di un potere imperiale che un giorno si sarebbe imposto al mondo non solo con la forza delle armi, ma con il prestigio delle lettere e delle leggi.

Restiamo in ammirazione di fonte a questo gruppo di intellettuali che riescono a fare da ponte tra due mondi culturali ancora lontanissimi, sia dal punto di vista concettuale, sia soprattutto da quello delle modalità di comunicazione. Con un enorme sforzo da entrambe le parti, il più grande degli illetterati, e i più dotti fra i letterati, riescono ad incontrarsi, a intrecciare i codici, a stabilire un dialogo ricchissimo di frutti non solo per loro, ma per tutta l’Europa.

Naturalmente anche Carlo, come Renzo Tramaglino, volle che i figli almeno imparassero quella “birberia” del leggere e dello scrivere.

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5. La lingua del re e la lingua del regno

5.1. Dalla parola al libro

Informazioni interessantissime vengono dal Cap. 29, in modo apparentemente casuale e frammentario.

  • Carlo fece raccogliere e mettere per scritto le “leggi”, fino a quel tempo trasmesse solo oralmente, dei due gruppi principali che componevano il popolo dei Franchi (non vengono nominati, ma si tratta dei Salii e dei Ripuarii); e cercò di integrarle e completarle (queste integrazioni sono comprese nei Capitolari n. 39 e n. 41 raccolti nei Monumenta Germaniae Historica). Fece raccogliere anche le leggi degli altri popoli; raccolte che ci sono arrivate in diverse redazioni.
  • Fece raccogliere, mettere per iscritto, e lui stesso imparò a memoria, antiquissima carmina (“canti antichissimi”) delle vicende e delle guerre dei Franchi – di questi canti purtroppo non è rimasto nulla.
  • Inchoauit et grammaticam patrii sermonis (“cominciò anche una grammatica della lingua patria”); di quest’iniziativa non abbiamo nessun’altra notizia.
  • Tradusse nella propria lingua i nomi dei mesi e dei venti, cioè dei punti cardinali: così Ianuarius diventava wintarmanoth “mese d’inverno”, septentrio diventava nordroni “vento del nord” ecc.

Tutte queste iniziative hanno in comune il passaggio dalla cultura orale alla cultura scritta.

Per quanto riguarda la raccolta e la redazione delle leggi tradizionali, si tratta di un lavoro che era già iniziato parecchio tempo prima e durò secoli, in tutta l’area germanica: dal Codex Euricianus (“Codice di Eurico”) che intorno al 470 raccolse il diritto visigotico, fino al Sachsenspiegel (“Specchio Sassone”) del 1220~1230 ca., che a differenza dei precedenti è redatto in tedesco e non in latino. Anche le raccolte di Carlo sono in latino, con l’inserimento di vocaboli in lingua germanica per indicare istituzioni specifiche. Eginardo dice che Carlo si dedicò a quest’opera post susceptum imperiale nomen “dopo aver assunto il titolo imperiale”; questa non è un’indicazione cronologica precisa, piuttosto l’affermazione di uno stretto legame fra la ricerca del diritto tradizionale, la sua integrazione alla luce delle nuove esigenze di governo, e la costruzione di un nuovo Stato.

Non essendoci arrivato nulla degli antiquissima carmina, non sappiamo con certezza neanche in quale lingua fossero redatti, ma se dopo averli fatti scrivere (scripsit) Carlo li imparò a memoria (memoria mandavit) possiamo supporre che fossero riportati nella lingua originale, cioè nel patrius sermo del Re.

Saltiamo all’ultimo punto, i nomi dei mesi e dei venti. Lasciando l’interpretazione dei nomi ai germanisti, si può osservare che in tutte le epoche antiche il calendario è sempre stato di competenza della massima autorità religiosa. A Roma era il collegio dei pontefici che stabiliva volta per volta la durata dei mesi; Cesare introdusse la sua riforma avendo assunto la carica di pontifex maximus, e sempre come pontifex maximus Costantino sancì la definizione della data della Pasqua elaborata dal Concilio di Nicea; infine, il calendario che usiamo oggi prende il nome da papa Gregorio XIII. Tutti hanno fatto notare la curiosa analogia tra il calendario carolingio e quello rivoluzionario, adottato in Francia quasi mille anni dopo. A parte l’idea di dare nuovi nomi ai mesi, la grande innovazione del 1793 fu il primo calendario adottato su iniziativa di un potere civile; e quello di Carlo anticipa, in un certo qual modo, quest’innovazione.

Quanto alla rosa dei venti, Eginardo ci dice che fino a quel momento i Franchi avevano solo quattro punti cardinali; l’innovazione non riguarda solo la lingua, si cerca di adottare un’organizzazione dello spazio geografico ed astronomico su dodici direzioni diverse, secondo il modello consolidato della cultura classica.

Passiamo ora alla grammatica del patrius sermo, che è veramente l’iniziativa più sorprendente. Abbiamo visto che per tutta l’antichità e per tutto il medioevo, grammatica significa lingua latina (o greca). Il latino (il greco in Oriente) è l’unica lingua scritta nel mondo cristiano; e non si riesce a trovare altro uso di quella scienza specifica che è la grammatica che non sia la descrizione e la normazione della lingua scritta. Questi punti erano all’epoca talmente ovvi che non si sentiva neppure il bisogno di esplicitarli. L’idea di una grammatica
— di una lingua diversa dal latino;
— di una lingua esclusivamente parlata,
non era impossibile, era impensabile: come insegnare a un asino a volare. Questo progetto di una “grammatica” della lingua franca, era quindi di un’arditezza straordinaria; e non poteva preludere ad altro che ad un uso sistematico di quella lingua nella scrittura. Scrittura, tendenzialmente, in tutti i campi d’applicazione di questa, compresi quelli ufficiali che richiedono una lingua rigorosamente normata.

Si è sostenuto che il rimescolamento etnico dell’età altomedievale rendeva le varie genti germaniche costantemente in contatto fra di loro, e che le diverse lingue etniche avevano un elevato grado di reciproca comprensibilità; anzi, vi sono testi, come l’Hildebrandslied che mostrano l’evidenza di un forte pastiche linguistico, con forme franche, sassoni, alto-tedesche. Questo è sicuramente vero; ma mentre la raccolta di canti tradizionali può documentare questa variabilità linguistica (cosa che dipenderà anche dalla competenza e dagli usi linguistici dello scrivano), la redazione di una grammatica impone inevitabilmente un processo di selezione, non può essere la semplice raccolta del parlare comune in tutte le sue varietà. Una grammatica deve fare delle scelte, e presentare dei modelli che avranno inevitabilmente una funzione esemplare e normativa.

Si è anche detto che con questa grammatica Eginardo volesse essenzialmente indicare la costruzione di una norma ortografica capace di dare uniformità alla redazione di testi in lingua germanica. È molto probabile che sia così, ma questo conferma quanto detto sopra. L’ortografia non è solo quell’insieme di banali regolette a cui spesso pensiamo; la costruzione di un alfabeto adatto ad una lingua esclusivamente orale, come nel caso dell’alfabeto gotico di Wulfila, comporta una seria riflessione sulla fonologia di quella lingua, e sulla sua struttura grammaticale, perché come minimo si dovranno individuare i componenti del discorso, renderli riconoscibili anche quando ci si trova di fronte a processi di fusione o omofonie, eventualmente affrontare il tema di forme “deboli” o “ridotte”, rendere riconoscibili in modo inequivocabile i marcatori morfologici ecc. Se si affrontano questi problemi “sul campo”, nell’analisi concreta della lingua viva, si può arrivare a riflessioni grammaticali veramente approfondite. Se invece si fosse preso alla lettera il termine “grammatica”, se l’esperimento fosse stato quello di adattare Elio Donato ad una lingua germanica, il risultato sarebbe stato inevitabilmente fallimentare.

Da un punto di vista culturale e politico, l’operazione descritta da Eginardo rappresenta lo sforzo di promuovere l’identità nazionale franca dalla cultura orale alla scrittura; e per far questo salto non bastava trascrivere su carta le parole della lingua quotidiana e della tradizione orale, occorreva arrivare ad una sistematizzazione e normazione di quella cultura e di quella lingua.

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5.2. Un Impero della nazione franca?

A parte la raccolta delle leggi, gli altri punti indicati precedentemente sono documentati esclusivamente dal principale storico di Carlo Magno, un uomo di grande cultura che aveva avuto il privilegio di condividere per lunghi anni le assidue frequentazioni fra l’imperatore e il gruppo di intellettuali riunito nella sede palatina di Aquisgrana. Non posssiamo dubitare che Eginardo riporti fedelmente un progetto in cui probabilmente lui stesso era direttamente coinvolto. Il fatto che non abbiamo traccia da nessun altra parte di queste iniziative, fa però pensare che questo progetto culturale, appena abbozzato, sia stato messo in atto solo in minima parte, e presto dimenticato.

Possiamo solo tentare di immaginare quale sarebbe il risultato se questo progetto fosse stato portato coerentemente a termine. Il predominio politico dell’aristocrazia franca sarebbe stato accompagnato da una forte caratterizzazione in senso etnico-linguistico dell’Impero. Franche sarebbero state le leggi, sia pure armonizzate con quelle degli altri popoli dell’Impero, e aggiornate secondo le esigenze di uno Stato che vuole porsi come continuatore dello Stato di Costantino e di Giustiniano. Franca la poesia, l’epica, e su di essa si sarebbe formato il “mito” di una grande nazione, di un grande Regno e di un grande Re, capace di portare la pace fra nazioni così diverse e ostili fra di loro; e franca sarebbe la lingua, la lingua dell’Imperatore, quindi la lingua di tutto l’Impero. Una lingua che non si confondere con il coacervo dei popoli dominati, siano essi “Germani” o “Romani”; ma è in grado di dominarli tutti, così come avevano fatto gli antichi imperatori con la lingua latina.

Rimane il fatto che questo progetto, se mai è esistito, è fallito, anzi, non è mai uscito dallo stadio degli studi preliminari. L’Impero ha preso tutta un’altra strada. L’elemento unificatore dell’Europa medievale è stata la religione cristiana, e quindi la lingua della Chiesa: il latino. E al di sotto di questo grande ombrello sovranazionale, si è formata la molteplicità delle lingue dell’Europa moderna.

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6. La fine del mondo franco

Oggi Aquisgrana, la capitale dell’Impero di Carlo, è una città di frontiera. È la città più occidentale della Repubblica Federale Tedesca, e si trova esattamente all’incrocio dei confini di tre nazioni: la Germania, l’Olanda, e il Belgio francofono.

Ai tempi di Carlo non era così. Aquisgrana era il centro dell’Austrasia, dove si era formato il regno dei Merovingi, che Clodoveo aveva ricevuto in eredità dai suoi antenati, e da cui era partito per l’espansione in Gallia e Germania. L’idea che Aquisgrana potesse diventare il centro irradiatore della supremazia culturale dei Franchi su tutta l’Europa cristiana poteva sembrare realistica.

Col senno del poi, sappiamo che non era così. Ancora vivente Carlo, nell’813 il Concilio di Tours aveva raccomandato di utilizzare nelle omelie rusticam Romanam linguam aut Theodiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur (“la lingua romana rustica o la ‘teodisca’, affiché tutti possano comprendere più facilmente quel che si dice”). Come ho già avvertito, la traduzione di theodiscus (theotiscus) con “tedesco” è, all’epoca, ancora un anacronismo; ma non abbiamo una traduzione alternativa. In quella frase, l’accento non è sul carattere etnico della lingua, ma sul suo status di lingua parlata, popolare, rustica. Ma proprio nella sua genericità, tale dichiarazione sembra negare una specificità della lingua franca. Anche quella, nel calderone del theodiscus

Dopo i primi, rari, incerti documenti scritti, alcuni risalenti all’età carolingia, come il cosiddetto Abrogans, una sorta di vocabolario latino-tedesco, dal X secolo comincia ad emergere in modo sempre più chiaro una letteratura in lingua tedesca. Ma questo tedesco non è la lingua di Aquisgrana, che è ancora oggi inserita nell’area del Ripuarisch, una forma di “basso” tedesco (Platt); quello che prevale è il tedesco “alto”, della Germania meridionale. La lingua dei franchi, nonostante gli sforzi di Carlo e dei suoi collaboratori, perde il treno della propria formalizzazione come lingua scritta, e quindi l’occasione di diventare la base della koiné germanica.

Anche il centro del potere politico si sposta decisamente verso est e verso sud: la dinastia ottoniana, espressione di quella Sassonia che Carlo aveva sottomesso con feroce energia, nella seconda metà del X secolo si lancia in un ardito programma di rinascita dell’istituzione imperiale attraverso il recupero del mito romano, e quell’alleanza tra impero e papato che Carlo, pur avendo ereditato dai suoi antenati e promosso con grande determinazione, viveva con un certo fastidio, come una limitazione della sua autorità.

L’antica Austrasia franca, la regione renana di Carlo ed Eginardo, si trova ora marginalizzata politicamente, mentre ad occidente sotto il predominio dell’aristocrazia germanica riemerge poco per volta il substrato romano. Le masse subcontinentali d’Europa si separano lungo una linea di faglia che diventa il confine franco-tedesco, così critico per tutta la storia d’Europa. L’identità dell’Austrasia franca viene cancellata, Aquisgrana si trova proiettata sulla punta di un promontorio, di fronte ad una Francia che non è più la “terra dei Franchi”, ma dei Francesi. E ad oriente di quel confine la lingua dei Franchi si frammenta lungo un gradiente nord-sud, dando origine ad una serie di dialetti tedeschi occidentali segnati dalla maggiore o minore penetrazione della “seconda rotazione consonantica”.

Eginardo era consapevole di questa trasformazione? Quando abbandona la corte di Ludovico, e comincia (secondo la ricostruzione della maggior parte degli studiosi) a scrivere la sua biografia di Carlo, avendo da una parte la Vita svetoniana di Augusto, dall’altra gli Annali del Regno franco, riusciva a percepire la lenta erosione che avrebbe portato alla fine del suo mondo?

Se questa ricostruzione ha un senso, Eginardo, che in questo progetto credeva, che ne fosse consapevole o no, è il grande perdente. Per questo ne ha scritto la storia, come fanno di solito i vinti. I vincitori, la storia la fanno, non la scrivono.

Maurizio Pistone

Castelnuovo don Bosco, 12 febbraio 2019.
Compleanno di Abraham Lincoln e di Charles Darwin.

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