Pirenne: Maometto e Carlo Magno

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1. Pirenne sostiene una tesi radicale, e la sostiene in modo radicale.

La divisione dell’Impero d’Occidente in una serie di regni con sovrani germanici, non è assolutamente una svolta. Questi sovrani, a partire da Teodorico, hanno avuto tutti chi più chi meno un’educazione di tipo bizantino, si considerano delegati del potere imperiale, e governano una macchina statale che è ancora quella romana. L’unica differenza è che adesso l’esercito è formato interamente da germani, mentre i romani sono esentati dal servizio militare.

Anche dal punto di vista economico, sociale, culturale, non è cambiato nulla. Pirenne dedica molte pagine a dimostrare che non c’è stato nessun passaggio dall’economia monetaria all’economia naturale. Continua a circolare la moneta, e in grande abbondanza; e quando i sovrani barbarici se ne fanno una, solitamente la coniano con l’effige dell’imperatore in carica. I commerci sono ancora vivaci, sia sul piano locale, sia da una sponda all’altra del Mediterraneo. I sovrani sono così ben inseriti nella compagine imperiale, che la loro prima preoccupazione è quella di difendere i confini da nuove invasioni barbariche.

La frequenza delle guerre fa sì che ci sia una ripresa della schiavitù, e del commercio di schiavi, che in precedenza era fortemente calato. Le città sono ancora in piedi, l’attività edilizia fiorente, lo stile di vita delle classi dirigenti è caratterizzato dal lusso sfarzoso e dal consumo di merci orientali. Tutti, compresi i monaci, consumano enormi quantità di spezie e di altri prodotti orientali. Ma non si tratta solo di consumi: la disponibilità di grandi quantità di moneta non può essere spiegata altrimenti che con il permanere di un’economia commerciale (immagino voglia dire che si continua ad esportare, ma non ho capito bene che cosa). La cultura e l’arte sono fiorenti, anche se non seguono più i canoni classici. Ma questa è un’evoluzione naturale della cultura romana, sotto questo punto di vista l’influenza germanica è stata nulla.

Soprattutto Pirenne si sforza di sostenere che i germani non manifestano mai una propria coscienza nazionale. Anche in occasione della riconquista giustinianea, le resistenze sono dettate da semplici motivi di interesse, la paura da parte della casta militare di perdere i propri privilegi. Dopo la morte di Giustiniano, l’Impero è esausto, e non riesce ad opporre resistenza all’invasione longobarda; ma anche il regno longobardo si inserisce nella continuità amministrativa e culturale dell’età imperiale. (Per il lettore italiano, questo è il punto più duro da accettare.)


2. Nel VI e VII secolo dunque i commerci sono ancora ancora vivi, e lo scambio di merci tra Oriente ed Occidente è normale.

Il commercio riguarda principalmente beni di lusso: gioielli, tessuti ed abiti, spezie. Ma continua il commercio, anche su lunga distanza, di beni di consumo corrente, compreso il grano.

Il commercio marittimo è controllato da operatori di origine orientale, “Siri ed Ebrei” (poi Pirenne accenna anche ad alcuni “Africani”, e più avanti “Greci”), che spesso si stabiliscono nelle città dell’Occidente, accanto ai mercanti locali. Si tratta quindi della permanenza della società cosmopolita tipica dell’Impero bizantino, in un mondo che non ha ancora perso la prosperità dell’età romana.

Ma “gli Ebrei non sono amati”, e già in quell’epoca vi sono persecuzioni, diffuse anche se non sistematiche: stragi, accuse di veneficio e altre pratiche odiose, espulsioni, conversioni forzate, distruzioni di sinagoghe. Le autorità civili e religiose non sono in grado di contenere il fenomeno, che non sembra avere cause di tipo economico-sociale, in quanto non tocca le altre categorie di mercanti.


3. Improvvisamente arrivano gli arabi. Ed è una valanga, violenta ed inattesa. Pirenne, che ha sostenuto finora la sua tesi con argomenti prevalentemente economici (o economicistici), ora non sa darsi altra spiegazione che un generico richiamo ai caratteri peculiari della religione islamica. Il primo a cadere è l’impero persiano, poi è la volta del Vicino Oriente. I mussulmani dilagano in Africa, assediano a più riprese Bisanzio, invadono la Spagna. I bizantini oppongono una disperata ma non sempre efficace resistenza a sud, a nord chi fa barriera è il regno franco.

La battaglia di Poitiers merita un richiamo in nota, che è tipico dello stile pirenniano: “Questa battaglia non ha l’importanza che le si attribuisce, e non si può paragonare alla vittoria riportata su Attila. Essa segna la fine di una incursione, ma non arresta nulla in realtà. Se Carlo fosse stato vinto, non ne sarebbe risultato che un saccheggio più considerevole del paese.” Non una parola di più, non una parola di meno.

Alla fine Carlo Magno riesce a prendere Barcellona, e costituisce la Marca ispanica; ma sostanzialmente rimane sulla difensiva.

La conquista mussulmana rende il Mediterraneo impraticabile per i cristiani. Ogni commercio cessa, a parte quel poco che riescono ancora a fare i Bizantini. Marsiglia, la principale porta di comunicazione tra oriente e occidente, è devastata. Per un breve periodo dei siri continuano ad arrivare in Occidente, ma non sono più mercanti, sono intellettuali, accolti con grande favore per la loro conoscenza della lingua greca e delle arti.

Un segno clamoroso della fine del commercio è l’improvvisa scomparsa del papiro, sostituito dall’assai più costosa pergamena. Delle spezie, sopravvivono solo quelle che possono essere coltivate in Europa.

L’oro comincia a scarseggiare, segno inequivocabile della cessazione dei commerci (ma continuo a non capire quali esportazioni lo rendevano abbondante nel periodo precedente) e in età carolingia la moneta è solo d’argento.

Con la scomparsa del commercio, scompare ovviamente anche la classe dei commercianti (e qui ci siamo) e del prestito ad interesse (e questa l’ho capita meno). La classe degli uomini che sanno leggere e scrivere si rarefà, ed anche questo è in relazione alla scomparsa del commercio (non ho capito qual è la causa e qual è l’effetto).

I mercanti mussulmani non si recano mai in terre cristiane, se non nell’Italia meridionale. Ormai gli unici che commerciano sono gli ebrei. Ma quest’ultimo punto rimane affidato alla pirenniana apodittica stringatezza. Mentre per il periodo precedente aveva elencato per pagine e pagine dati relativi alla presenza di mercanti siri, ebrei (e africani, e greci…) nelle città dell’occidente, qui la questione si sbriga in nove righe di testo, senza un nome di persona o di città, senza un riferimento.

L’impero bizantino è sopravvissuto, ed è ancora una potenza marittima, ma la sua influenza ad ovest si limita alle coste dell’Italia meridionale. A nord invece nasce Venezia, che si avvia ad avere un ruolo decisivo. Carlo cerca di tirare la città sotto il suo controllo, ma deve cedere, e riconoscere la supremazia bizantina. Venezia è ora l’unica potenza cristiana che commercia anche con i mussulmani. Un ruolo simile hanno anche alcune città dell’Italia meridionale, Bari, Napoli, Salerno, Amalfi, che poco per volta diventano autonome da Bisanzio, ed hanno con i mussulmani un rapporto complesso che alterna la guerra agli scambi commerciali.

(Insomma, qui si vede che quando Pirenne sostiene che dopo l’espansione araba l’asse della civiltà si sposta dal sud al nord, ha una prospettiva totalmente francocentrica, ed è ossessionato dalla perdita di centralità di Marsiglia e della costa provenzale.)


4. E con questo si dovrebbe spiegare la povertà dell’Europa. Che arriva tanto improvvisa e radicale, quanto era forte e consolidata la ricchezza dell’età precedente.

Ma questo è il punto più debole di tutta la costruzione. Pirenne, come capita a molti, sembra quasi sempre ridurre l’economia alle questioni monetarie. Ma anche così, la cosa non convince. Se mancano le merci orientali, perché non le si può sostituire? Non ci sono più le sete, le spezie, e va bene, ma possibile che senza spezie e sete si cada nella più nera miseria? Pirenne aveva sostenuto che il commercio dell’età dell’oro non riguardava solo prodotti orientali e di lusso, ma anche beni di largo consumo di produzione europea (è vero che su questo tema non aveva approfondito molto). Possibile che con la perdita dei vini di Siria e dell’olio d’Africa sia irrimediabile, e non diventi invece uno stimolo per la produzione locale? Nei secoli della rinascita, e in quelli successivi, fiorentini e milanesi, e poi fiamminghi e inglesi, creano imperi commerciali sui panni di lana. Possibile che nell’Alto Medioevo non ci fossero pecore?

Ma soprattutto, noi sappiamo che la crisi dell’alto medioevo è in primo luogo una spaventosa crisi agricola e demografica. Su questo il Pirenne preferisce sorvolare, con tutto quell’oro luccicante in giro; ma se l’Europa si copre di foreste, se le città si spopolano, e sciami di affamante larve umane si riversano nei boschi che ovunque hanno sostituito i campi coltivati a contendere ghiande e castagne ai cinghiali, sarà colpa della pirateria saracena?


5. A questo punto Pirenne si concentra sulla storia francese. Torna all’origine del regno merovingio, una monarchia assoluta, secondo il modello imperiale, forte e prospera, che ha per obiettivo principale l’espansione a sud. Combatte contro visigoti e longobardi e si assicura il possesso della Provenza. Riesce a contenere l’espansione islamica, anche se Pirenne stranamente continua a sottovalutare quest’aspetto.

A metà del VII secolo già comincia la crisi, un po’ per motivi strettamente dinastici, un po’ per motivi economici. I sovrani merovingi avevano sempre dato scarso peso ai proventi della loro proprietà fondiaria, che amministravano in modo un po’ sconsiderato, e usavano più che altro per beneficare amici ed ecclesiastici. Il più delle loro entrate veniva dall’imposta fondiaria, dalle dogane e dai pedaggi (tutte eredità romane), e da versamenti in oro da parte dell’impero, quando si trattava di aiutare Bisanzio contro i suoi nemici. Ma la crescente influenza di proprietari terrieri e monasteri rende sempre più difficile la riscossione dell’imposta; e la crisi dei commerci abbatte drasticamente le tasse sulle merci in transito. Il sud commerciale decade, e il centro di gravità del regno si sposta verso il nord agricolo.

La chiesa stessa subisce questa trasformazione. La crisi delle città del sud diventa addirittura crisi dell’episcopato, e in molte diocesi dopo la metà del VII secolo, a volte fino al successivo, a volte fino al IX o al X, non si conserva neppure il nome dei vescovi. Invece al Nord fioriscono i monasteri, sostenuti dai sovrani.

È in questa circostanza che emerge la famiglia dei Carolingi, una stirpe che aveva conservato spiccati caratteri germanici delle tribù del nord. Il colpo di stato a danno dei merovingi è la vittoria della germanicità sulla romanità, oltre che la vittoria della grande aristocrazia contro la sovranità assoluta.

Anche la chiesa si adegua. Il papa, stretto tra l’impero iconoclasta, i longobardi invadenti ed aggressivi, e gli islamici, cambia bandiera, portandosi dietro anche l’esarcato e gli altri possedimenti bizantini della penisola. Roma era sempre stata una città dell’impero, anche nei momenti di massimo conflitto religioso; adesso si volge a occidente, benedice il colpo di stato di Pipino, inscena l’incoronazione di Carlo. Si rompe definitivamente l’unità mediterranea. Comincia veramente il Medioevo.


6. Così come l’età merovingia era né più né meno che la continuazione dell’età romana, l’età carolingia è tutto il contrario. È una società puramente agricola, le città sono devastate, i mercanti dispersi, i commerci annicchiliti, quel po’ d’oro che non si è vaporizzato (ma che fine ha fatto?) viene tenuto nascosto. La riforma monetaria di Carlo segna la fine della circolazione aurea. Il potere è nelle mani di una grande aristocrazia terriera, rozza e analfabeta.

E qui ritroviamo gli ebrei. Alcuni sono venditori ambulanti, che girano per i mercati rurali, vendendo poche mercanzie a basso prezzo. Altri sono mercanti internazionali, che riforniscono il palazzo, l’unico sbocco rimasto per il commercio a lunga distanza, dopo la quasi totale estinzione della popolazione urbana. Ma Pirenne avverte continuamente che si tratta di attività residuali, destinate a estinguersi già agli inizi del X secolo. Non esiste un vero ceto commerciale, sono personaggi isolati, ricordati con enfasi nei documenti forse proprio per la loro eccezionalità. Citando le notizie sui traffici di un ebreo, Pirenne avverte ironicamente: “Sembra di sentire un antisemita che parla dei «baroni» ebrei” (credo che alluda a Édouard Drumont, esponente del radicalismo “antidreyfusardo”). Accanto agli ebrei, vi sono pochi veneziani, e soprattutto frisoni, essendo il mare del Nord l’unica area dove il commercio è ancora fiorente, anche se al di fuori da ogni comunicazione col Mediterraneo. Ma l’economia agricola chiusa non produce per la vendita, quindi non compra nulla. I grandi monasteri soddisfano le esigenze di beni artigianali con i propri servitori specializzati; gli altri, ne fanno semplicemente a meno.


7. Cambia completamente la forma dello Stato. Niente denaro, quindi niente finanze. Il sovrano è il più grande proprietario terriero, ma dato che non ha più soldi, deve pagare l’esercito con le terre. Il sovrano è tale per diritto divino, cioè è unto dal papa, invece il papa non è eletto dal sovrano. Quindi il sovrano ha obblighi vero la chiesa, non il contrario. L’autorità dello stato è subordinata all’autorità religiosa. E poiché non esistono più laici colti, l’amministrazione dello stato si regge sui chierici. Carlo Magno ha un potere apparentemente immenso, ma i suoi discendenti sono nelle mani dei vassalli e dei chierici.

Con la scomparsa della cultura scritta, scompare il latino come lingua parlata, sostituito dai volgari, che però non vengono scritti. Il risveglio intellettuale viene dalle isole britanniche, dove i monaci missionari avevano introdotto il latino come una lingua sacra, incomprensibile al popolo, ma dotata di straordinario prestigio. Furono i monaci britannici a evangelizzare i germani del Nord, e fu un britannico, Alcuino, a promuovere la scuola palatina di Carlo, e a ricollegarsi direttamente alla tradizione classica, saltando a piè pari il latino parlato in età merovingia. Allora veramente nasce una cultura romano-germanica, che vive però solo nella chiesa.

È questa la cultura che caratterizza tutto il Medioevo, anche quello italiano.


8. In conclusione, che cosa ha lasciato Pirenne alla nostra visione del medioevo?

Un’intuizione geniale: che la rottura dell’unità mediterranea in conseguenza dell’espansione islamica è una delle vicende chiave di tutta la storia – per lo meno della storia del nostro mondo. Ad un certo punto, dice che per importanza quest’evento è pari alle guerre puniche. Polibio aveva spiegato che l’importanza delle guerre puniche era stata quella di aver creato l’unità mediterranea. La storia dell’Occidente e la storia dell’Oriente, che fino a quel momento erano state due storie diverse, ora si fondono in una storia unica. Quest’unità dura quasi nove secoli; poi Maometto chiude il ciclo aperto da Scipione.

Quindi, senza esagerazioni, Pirenne come Polibio.

Per il resto, ottant’anni di storiografia hanno sufficientemente indicato i punti deboli della sua costruzione. La tendenza alle spericolate generalizzazioni. L’uso disinvolto delle fonti. La continua ricerca di spiegazioni monocausali – quasi sempre, esogene.

Per me, Pirenne cade soprattutto sull’analisi economica. È paradossale che questo si debba dire di uno studioso che ha tentato una grande sintesi storica proprio a partire dai fatti economici. Ma la sua visione dell’economica è troppo limitativa – direi: troppo poco economica. Il fatto è che Pirenne quando parla di economia parla di commercio, quando parla di commercio parla di grande commercio internazionale, quando parla di grande commercio internazionale parla di moneta, e quando parla di moneta parla di moneta d’oro.

Qualcuno ha detto che Pirenne costruisce una sua visione economicista e materialista della storia senza aver mai letto una riga di Marx. Ed in verità, nessun marxista potrebbe cadere in una simile illusione monetarista, rimanere così affascinato dal luccichio abbagliante dell’oro.

La lettura di Maometto e Carlomagno ci permette di valutare l’enorme progresso compiuto dalle scienze storiche nel corso del XX secolo. Due generazioni di studiosi hanno meticolosamente studiato la storia rurale dell’Europa, in particolare della Francia. Pirenne scrive immediatamente alla vigilia di questa rivoluzione scientifica; ma la sua opera sembra venire da un altro mondo.


9. Maometto e Carlomagno, pubblicato postumo nel 1937 era stato preceduto dalla serie di lezioni pubblicate dieci anni prima nel volume Le città del Medioevo.

Quest’opera presenta un quadro generale di cui il libro successivo è un approfondimento parziale. La tesi sulla rottura dell’unità mediterranea come vero motore della trasformazione medievale vi è già pienamente sviluppata.

Anche questo libro presenta una tesi radicale. Esiste un unico tipo di città: la città mercantile, abitata da una borghesia, dotata di una forma più o meno sviluppata di autogoverno municipale. Tutto ciò che non rientra in questo schema, non è una vera città. Anche qui c’è un po’ di puzza di ragionamento circolare, ma non è il caso di approfondire.

Saltando tutta la prima parte, che espone la tesi già vista, la prima conseguenza è che nell’età carolingia non esistono vere città. Non ci sono commerci, quindi non c’è una vera borghesia. Poiché non c’è borghesia, non può esserci autogoverno borghese. La città potrebbe tranquillamente scomparire. Se rimane, è solo perché in età romana la chiesa aveva costruito la sua rete amministrativa sul modello dell’amministrazione statale, e le città erano diventate sedi di episcopati. L’amministrazione vescovile è l’unica struttura sopravvissuta della città romana. Il vescovo è non solo la massima autorità religiosa, ma anche la massima autorità civile, giudice, amministratore, a volte capo militare. Roma, che da città dei Cesari diventa città dei Papi, è il modello di questa evoluzione.

Anche la città vescovile ha un mercato, ma questo serve solo all’approv­­­vigiona­mento alimentare, e la vendita dei prodotti dei contadini dei dintorni è l’unico tramite che mette in relazione la campagna con la città.

Ci avviciniamo all’anno mille. Ricomincia la crescita demografica. Con pirenniana disinvoltura, non ci chiediamo perché la popolazione torna a salire; basta un discreto accenno alla fecondità di questi buoni popoli.

La crescita demografica comincia a rimettere in moto tutta la società. In primo luogo, aumenta la superficie coltivata, che fino a quel momento “non era aumentata rispetto all’età romana”. (Dobbiamo supporre che non sia neanche diminuita, ma la cosa rimane nel vago).

Però non bastava questa crescita per spiegare la rinascita dei commerci e del ceto mercantile. Occorre una nuova causa esogena, e qui Pirenne ha una risposta trionfale: Venezia! La laguna è geograficamente europea, ma Venezia è totalmente inserita nell’orbita bizantina, ed ora può fare da tramite per riportare la corrente dei commerci in Occidente.

Ma i veneziani, a differenza di ebrei, siri ecc. dell’età precedente, non si stabiliscono nelle città dell’Occidente. Nasce un nuovo ceto borghese, che però è totalmente autoctono. Servi fuggiaschi, pezzenti e vagabondi di ogni genere sono attirati dalle città, si aggirano per i mercati e le fiere, alla ricerca di qualche espediente per vivere, di qualche facchinaggio pagato con una misera mancia. Prima o poi da questa miserabile umanità emergono gli elementi più attivi e capaci, che offrono i loro servizi con maggiore abilità, che capiscono che comprare merci dove costano poco e rivenderle dove costano più care permette un buon guadagno; e che questo guadagno è tanto più grande quanto maggiore è la distanza percorsa. Si mettono in cammino, con i loro piedi polverosi, instancabili e impavidi per strade infestate di briganti, e poco per volta riescono ad accumulare fortune. Soli in mezzo ad un mondo pericoloso ed ostile, formano gilde e corporazioni per trovare forza nel numero, e montare insieme la guardia alle loro merci.

I signori feudali guardano con disprezzo e diffidenza questi nuovi venuti, ma alla fine capiscono che non solo non è possibile opporsi alla marea montante, ma è il caso di trovare un qualche accordo favorevole ad entrambi. I commerci offrono nuovi introiti a dazi e pedaggi, anche le esangui finanze statali sono rinvigorite. La ricchezza dei mercati e la possibilità di nuovi investimenti dà finalmente anche ai proprietari terrieri lo stimolo ad incrementare le rendite fondiarie, con la messa a coltura di boschi, paludi e brughiere. Tutta la società si rimette in cammino. I nuovi borghesi (qui taglio senza pietà e vado direttamente alla conclusione) diventano un nuovo Ordine accanto ai due tradizionali, la nobiltà ed il clero.

Ma la borghesia è un ceto anche intellettualmente inquieto, insieme “mistico e laico”, e si prepara il terreno per l’età moderna, annunciata dal Rinascimento e dalla Riforma.


10. E gli ebrei? Ci siamo dimenticati degli ebrei.

Dunque, tornando indietro. In età merovingia (quella che oggi si chiama “tarda antichità”) ebrei, siri, greci, africani, insieme con altra gente che viene da tutte le altre regioni, si trovano insieme in quel vasto mondo mercantile, cosmopolita e dinamico, che caratterizza il Mediterraneo romano. Non sembra esserci una specializzazione particolare degli ebrei. Anche loro, come tutti gli altri (come faranno cinquecento anni dopo anche i Veneziani) commerciano in schiavi, ma questo è normale, essendo gli schiavi una merce come tutte le altre. Ogni tanto emerge l’accusa di “vendere bambini cristiani”, ma questo è un argomento topico di ogni razzismo, lo vediamo ai giorni nostri applicato ai rom. Vi sono frequenti persecuzioni, ma poiché toccano solo gli ebrei, e non le altre categorie di mercanti, non sembrano motivate da cause economiche “razionali”.

In età carolingia, non esiste una borghesia ebraica, per il semplice motivo che non esiste una borghesia. Non esiste un vero commercio, non esistono vere città. Quegli ambulanti che vagano fra i mercatini rurali, quei pochi fornitori della Real Casa che sono citati nelle cronache, sono gli ultimi sopravvissuti di un mondo ormai scomparso, e verso la fine del IX secolo si estinguono anche loro.

Con la rinascita dei commerci dopo l’anno 1000 (argomento che occupa due terzi abbondanti del volume Le città del medioevo) gli ebrei semplicemente non esistono. Sembrano essersi dileguati all’orizzonte della città medievale pirenniana.

Può darsi che l’“antisemitismo eliminazionista e razionale” sia nato per cause economiche, per l’ostilità del mondo feudale verso la borghesia delle città. Ma di questa tesi non c’è traccia in Pirenne, che anzi sostiene due tesi assolutamente contrarie:

  1. la borghesia dell’età feudale (dopo il 1000) è totalmente autoctona, nasce dai disadattati, ribelli, fuggiaschi del mondo rurale; ed è anche intimamente cristiana;
  2. non c’è alcuna ostilità del mondo feudale verso il mondo urbano, anzi, i due mondi dopo un po’ di attrito trovano una convivenza basata su convenienza reciproca che dura fino alla fine dell’Ancien Régime.

E gli ebrei dei ghetti? L’usuraio dal naso adunco, il commerciante che piange miseria e nasconde immensi tesori, il ladro di bambini, il corruttore di vergini, il cabalista che medita il dominio del mondo? E le persecuzioni, le espulsioni, i saccheggi, le torture, le stragi al grido di “Dio lo vuole”? Pirenne non si è minimamente occupato di questi temi – per lo meno, non in questi due libri.

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