Eduardo, Hitler, Putin: “O isso, o io!”

O Isso O Io!

1. Nel Sindaco del Rione Sanità di Edoardo de Filippo, il vecchio camorrista Don Antonio ricorda un episodio di gioventù. Era un povero pastorello, e le capre che aveva in custodia avevano sconfinato in una tenuta privata. Il custode di quella tenuta se ne accorse, e prese crudelmente a botte il ragazzino. Questi, tornato malconcio a casa, più che dalle ferite era tormentato da un’idea fissa: “O isso, o io! O isso, o io!” L’offesa ricevuta era diventata una questione esistenziale. Alla fine si decise. Prese un’arma, andò, e uccise il suo nemico.

Di qui cominciò una carriera criminale che lo portò ad essere, nel suo quartiere, un uomo a cui nessuno poteva dire di no.

2. Nel gennaio del 1933 Adolf Hitler divenne Cancelliere del Reich. Sono molti i fattori che avevano portato l’ex caporale al vertice del potere. Fra questi sicuramente l’appoggio delle Sturmabteilungen, i “reparti d’assalto”, che da anni terrorizzavano la Germania, ed erano arrivate a contare centinaia di migliaia di militanti violenti e fanatici, riconoscibili per le loro “camicie brune”. All’inizio dell’anno successivo, cominciarono ad esserci attriti tra la dirigenza del partito nazista e questa forza irregolare, animata da un’ideologia populista e “antisistema” che sognava una “rivoluzione”. Non vi furono mai veri atti di ribellione, ma nel giugno del 1934 Hitler risolse la questione eliminando fisicamente i capi delle SA, a partire dal potentissimo Ernst Röhm, fino a quel momento l’unico che avesse goduto del privilegio di dare del “tu” al Führer.

Questa specie di “putsch” interno comportava sicuramente dei rischi, ma si risolse in un successo senza ombre. Hitler aveva scelto da solo, e perfettamente, l’obiettivo, il tempo, il modo, e colpì senza esitazione. Non ci fu nessuna opposizione, nessun accenno di protesta. La strage cementò il suo legame con la forza spietata delle SS, che erano legate a lui da un giuramento di fedeltà senza riserve. Hitler in quel momento era in ascesa, e l’operazione lo confermò il capo assoluto della Germania nazista, una specie di Giove tonante che lancia fulmini e sentenze senza appello. Anche grazie a questo colpo di mano, si garantì fino alla fine, quando ormai la Germania era ridotta a un deserto di macerie, e l’Armata Rossa era ormai a poche centinaia di metri dal suo bunker, il privilegio d’essere l’unico giudice di sé stesso.

3. Una decina d’anni fa Vladimir Putin si accorda con un personaggio dalla vita torbida, Evgenij Prigožin, un imprenditore di non grandissimo risalto, fondatore di una compagnia militare privata, per assegnargli alcune operazioni sporche in cui le forze armate della Federazione Russa non dovevano ufficialmente comparire. Il Gruppo Wagner diviene in seguito sempre più importante, largamente sostenuto e finanziato dal governo russo, ed opera in diversi settori, dalla Siria all’Africa centrale all’Ukraina.

Putin compie l’errore capitale di dare sempre più spazio a questi brutali combattenti (spesso reclutati nelle carceri) e al loro esuberante capo. Costui occupa una posizione sempre più importante non solo nelle operazioni militari, ma anche nell’immaginario delle forze nazionaliste e revansciste del mondo politico e dell’opinione pubblica russa, convinte di poter rovesciare il corso della storia e ridare alla Russia quel ruolo imperiale perso irrimediabilmente con la dissoluzione dell’URSS.

Quando la campagna in Ukraina comincia ad accumulare un insuccesso dopo l’altro, e si riduce ad una costosissima e interminabile guerra di logoramento lungo una fascia di territorio larga poco più di 200 km lungo il confine, la presenza di Prigožin diventa sempre più ingombrante. Il capo mercenario avanza richieste sempre più pressanti di rifornimenti, e soprattutto di libertà d’azione, arrivando addirittura a chiedere la sostituzione dei capi politici e militari della guerra in corso. Putin tenta di riprendere in mano la situazione, chiedendo ai Wagner di accettare l’arruolamento nelle forze armate regolari: richiesta, prevedibilmente, respinta. A questo punto le vicende prendono un corso confuso, a volte francamente comico. Mentre Prigožin si rende sempre più spesso irreperibile, una colonna corazzata di Wagner occupa la città di Rostov e imbocca l’autostrada che conduce a Mosca. Alcuni militari dell’esercito regolare compiono l’errore di fare il proprio dovere, e vengono falciati. Ma poi questo strano golpe si interrompe, i blindati arretrano, Prigožin scompare.

I giorni succesivi alla “mezza marcia su Mosca” sono confusi, incomprensibili. Prigožin viene ufficialmente accusato di tradimento e di insurrezione armata, ma non risulta che vengano presi provvedimenti contro di lui. Interviene, non si sa a che titolo, il presidente bioelorusso Lukashenko, che si presenta come “mediatore” e “pacificatore”. Promette ai Wagner e al loro capo asilo in Bielorussia. Per accogliere i miliziani fa allestire in quattro e quattr’otto un campo militare, destinato a restare deserto. Prigožin, sempre inafferrabile, lancia messaggi sempre più aggreessivi dai suoi rifugi segreti, dall’Africa, da non si sa dove.

Alla fine, sembra che si sia stato un incontro segreto fra i due rivali. Poco dopo, un aereo in volo da Mosca a San Pietroburgo precipita in fiamme. Le autorità del Cremlino permettono che i media diano ampio risalto all’evento, addirittura che circolino apertamente voci su un’azione della contraerea russa e un diretto coinvolgimento di Putin: voci che solo dopo un paio di giorni vengono smentite con freddezza burocratica dal Cremlino.

Il bilancio di tutto questo? Be’, è risaputo che Putin da sempre ama eliminare i suoi nemici “alla scordatina”. Veleno, suicidio, incidente, chissà. Ma qui la situazione si era spinta troppo oltre. Il gruppo Wagner era ormai un elemento impazzito del sistema. Putin per anni aveva favorito e foraggiato un mostro da cui alla fine ha rischiato di venire travolto. Ha dovuto agire in modo clamoroso, poiché era ormai evidente di fronte al mondo intero che non aveva più il controllo della situazione. Non ha scelto né l’obiettivo, né il modo, né soprattutto il tempo, dell’azione. La sua forza, è stata chiaramente la forza della disperazione.

Si è svolta in questi giorni a Città del Capo la riunione dei BRICS. Riunione a cui Putin ha partecipato in videoconferenza, poiché se fosse andato di persona, il governo sudafricano avrebbe dovuto mettergli le manette.

Nel corso della riunione, è stato annunciato che il gruppo Wagner, a cui da anni la Federazione Russa aveva delegato la sua politica estera verso diversi paesi africani, non esiste più.

Gorbačëv, ieri e oggi

La morte di Gorbačëv ci spinge ad alcune considerazioni, ed a confronti con il presente. Considerazioni, spero che sia chiaro, ispirate al più rigoroso materialismo.

Gorbačëv e Putin

Attribuire a Gorbačëv la responsabilità della fine dell’Unione Sovietica, è puerile. Le grandi trasformazioni storiche non sono il prodotto della politica, sono eventi che hanno cause profonde e complesse. Il compito della politica è governare queste trasformazioni, e indirizzarle verso una soluzione.

Il grande merito di Gorbačëv è stato quello di dare alla fine di quel sistema economico e sociale il carattere di una trasformazione pacifica. Considerando l’enorme potenziale militare dell’URSS, gli eventi avrebbero potuto prendere una piega ben diversa, con conseguenze catastrofiche difficilmente immaginabili. In Romania, dove l’influenza sovietica era da tempo debole, e quindi la capacità direzionale di Gorbačëv non poteva arrivare, il crollo ebbe l’aspetto di una guerra civile – violenta, ma fortunatamente breve. Ma pensiamo cosa sarebbe successo se a Mosca in quegli anni ci fosse stato, al posto di Gorbačëv, un uomo come Ceauşescu.

Il crollo del sistema partì dalla periferia, dove la crisi del sistema assunse caratteri peculiari. In Polonia riacutizzò l’antichissima contrapposizione etnico-religiosa fra l’antica nazione cattolica e la Russia ortodossa… ehm, scusate, socialista. Nella Repubblica Democratica Tedesca emerse soprattutto l’aspirazione ad uno stile di vita diverso, anche dal punto di vista dei consumi, aspirazione acutizzata dalla “vetrina” di Berlino Ovest.

Al centro, l’elemento scatenante fu la consapevolezza di quanto l’apparato militare sovietico che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale fosse ormai diventato obsoleto: la sconfitta nella competizione missilistica con gli USA, e il fallimento della guerra in Afghanistan.

Le conseguenze, alla periferia e nel centro, sono state di tipo opposto. I paesi dell’ex Patto di Varsavia hanno avuto un atterraggio morbido nelle grandi istituzioni internazionali confinanti: l’UE e la NATO. È stato un evento inevitabile, e fondamentalmente positivo, poiché ha permesso una rapida stabilizzazione della crisi. La storia non si ferma mai, ed oggi quei paesi devono affrontare i problemi tipici di tutte le moderne società industriali. Ma questa è un’altra storia.

Molti attribuiscono la svolta nella collocazione internazionale di questi paesi, e la conseguente tensione con la Russia post-sovietica, alla volontà espansiva dei centri di potere occidentali. Purtroppo, il marasma culturale in cui è caduta la nostra sinistra, con la perdita dei suoi principali punti di riferimento, ha creato un vuoto, che progressivamente si è riempito, e continua a riempirsi, con i miti caratteristici del pensiero della destra, a partire dal più tossico di tutti, il cospirazionismo: l’idea che i destini del mondo siano determinati dalle oscure trame di perfidi burattinai. Per non parlare della mitica eterna contrapposizione tra le due grandi entità metafisiche dell’“Occidente” e dell’“Oriente”.

In Russia, le conseguenze sono state purtroppo, e forse inevitabilmente, più pesanti. La fine del Patto di Varsavia ha portato alla fine della centralità internazionale della Russia: un evento paragonabile solo alla fine dell’Impero Austro-ungarico e del Reich guglielmino; e sappiamo quali frustrazioni ciò abbia prodotto in un’intera generazione di tedeschi, e con quali conseguenze. Il collasso del sistema industriale, gestito male, in nome di una pura e semplice “efficienza”, ha portato ad un radicale mutamento del tenore di vita, con la perdita di tutte le sicurezze esistenziali che il socialismo “dalla culla alla tomba” sapeva garantire. È un fenomeno simile alla deindustrializzazione dell’Inghilterra in età thatcheriana, ma con conseguenze umane ancora più devastanti. La Russia si scopre oggi un paese poverissimo: un deserto punteggiato di pozzi per l’estrazione di idrocarburi.

Il senso di frustrazione dei russi è pienamente comprensibile. Per loro, e per nostra, sfortuna, la Russia ha trovato l’uomo capace di incarnare questa frustrazione. Così in Germania e in Austria negli anni ’20 e ’30 con Hitler, Putin è riuscito a convogliare tutto il malessere sociale verso l’esterno. Il mito di una Russia “pugnalata alle spalle” e circondata dall’”abbaiare” della NATO, è talmente forte da aver contagiato perfino l’inquilino di un Colle piuttosto alto.

Oggi quello che rimane della gloriosa Armata Rossa si sta suicidando nelle immense pianure a nord del Mar Nero. Per ironia della sorte, non molto distante da quelle pianure che videro la catastrofe di quell’altra armata, ottant’anni fa. Speriamo, con conseguenze meno devastanti.

Visto che si parla di diplomazia

Papale papale

La guerra si fa con i fatti. Nessuno si aspetta che George Smith Patton usi un linguaggio forbito.

La diplomazia si fa parlando. Quindi le parole sono la sostanza, non un accessorio.

Chi fa diplomazia, parla usando un linguaggio che è funzionale al risultato diplomatico che vuole ottenere.

Quando Biden ha definito “macellaio” Putin, sapeva benissimo di mandare un messaggio di non disponibilità al dialogo. Mandava questo messaggio a Putin stesso, alle diplomazie degli altri paesi del mondo, all’opinione pubblica del suo paese, all’opinione pubblica del mondo. Di sicuro non ha detto “macellaio” perché in quel momento era la prima parola che gli è venuta in mente. Avrà fatto bene, avrà fatto male, si può discutere, ma sicuramente era un messaggio meditato. E chi l’ha pronunciato se ne assume interamente la responsabilità.

Il Papa non è uno come noi, che a tempo perso cazzeggiamo sui social. Il Papa è un Capo di Stato, sia pure dello Stato più piccolo al mondo. È anche Capo di una Chiesa che riunisce centinaia di milioni di fedeli nel mondo. Ogni sua parola ha grandissima risonanza in tutto il mondo.

Il Papa ha deciso di usare una metafora animalesca per qualificare un’organizzazione internazionale che riunisce 30 Stati. Cani che “abbaiano”. Papale papale.

Tra l’altro, tra questi cani che “abbaiano”, vi sono paesi a maggioranza cattolica, e paesi che sentono questo conflitto molto vicino. Mi chiedo per esempio come l’abbiano presa in Polonia, paese ultracattolico, dove la terra trema ogni volta che un missile colpisce la città ex-polacca di Leopoli. Anche loro, cani che “abbaiano”? Aspettiamo una precisazione dalla diplomazia vaticana.

Inoltre, con questa metafora molto espressiva, il Papa ha mostrato di aver per lo meno una certa comprensione per le motivazioni addotte dal Governo russo a sostegno della sua invasione dell’Ukraina. La Russia è “circondata” dalla NATO, ed è entrata in guerra, pardon, in “operazione militare speciale”, come reazione a quest’assedio.

Tornando al punto iniziale, con quest’affermazione il Papa ha avvicinato, oppure no, una soluzione diplomatica del conflitto?

Il Papa si è presentato come possibile mediatore nel conflitto?

Vedremo presto.

Ci sarà una guerra nucleare?

Non lo so.

guerra nucleare

Io posso solo cercare di ripercorrere la storia di questi ultimi 77 anni.

L’arma nucleare è stata usata una volta sola, contro due città giapponesi.

È stato l’evento che ha messo fine alla guerra più sanguinosa di tutta la storia umana; una guerra che rischiava ancora di durare un tempo indefinito, con un numero non prevedibile, ma sicuramente ancora altissimo di vittime.

Sei anni di distruzioni immani avevano completamente alterato il senso morale, e la distruzione di intere città era stata per tutto questo tempo prassi abituale in tutti i teatri di guerra. L’arma atomica sembrava solo uno strumento più potente, ma non più disastroso di un bombardamento a tappeto con armi convenzionali.

All’inizio della guerra fredda, vi erano due grandi potenze che avevano armi nucleari, gli Stati Uniti e, dal 1949, l’Unione Sovietica.

In seguito si sono affiancati altri paesi (particolarmente preoccupante l’armamento nucleare di Pakistan e India), e si faceva strada nell’opinione pubblica la possibilità che una nuova guerra generalizzata portasse alla totale distruzione dell’umanità.

Che io ricordi, l’unica occasione in cui fu minacciato esplicitamente il ricorso all’arma nucleare fu nel 1956, in occasione della crisi di Suez. I destinatari di questa minaccia si ritirarono subito, quindi nessuno sa quanto questa minaccia lanciata da Chruščëv fosse seria. Ma un aspetto importante è che all’epoca URSS e USA si trovavano dalla stessa parte, quindi non c’era – per lo meno non nell’immediato – la minaccia di un conflitto nucleare generalizzato.

La guerra fredda vide una continua spinta allo sviluppo di armi nucleari, ma non si arrivò mai veramente al rischio concreto di un conflitto.

Gli USA e l’URSS erano rispettivamente la prima e la seconda potenza politica, economica e militare del mondo. L’armamento nucleare bilanciato rappresentava potenzialmente una minaccia di catastrofe globale, ma d’altra parte era, per entrambi, una garanzia di stabilità. Ognuna delle due potenze sapeva che un attacco, da qualunque parte venisse, avrebbe comportato una risposta equivalente. All’ombra di questa minaccia reciproca, le due potenze potevano sviluppare la loro politica interna ed estera nell’ambito della loro sfera di influenza nel mondo. C’era soprattutto una grandissima attenzione ad evitare che i conflitti locali coinvolgessero in modo diretto entrambe le superpotenze nello stesso momento, nella stessa area.

La cosa è cambiata radicalmente con la fine della guerra fredda.

L’Unione Sovietica aveva un imponente apparato industriale, che però manifestava gravi e crescenti inefficienze. Con la dissoluzione di quell’enorme complesso politico ed economico, tutti i settori industriali inefficienti furono liquidati. Di fatto, l’unico settore che rimase attivo fu quello primario, con un’agricoltura estensiva, e l’estrazione di materie prime e combustibili fossili.

Oggi la Russia è, economicamente parlando, un deserto punteggiato di pozzi di petrolio e di gas naturale. È scivolata piuttosto giù nella graduatoria delle società industriali, distante un buon ordine di grandezza dagli USA, dall’Unione Europea e dalla Cina, al di sotto di diversi singoli Stati europei, compresa l’Italia.

Questo cambia completamente il quadro. È forte la tentazione di usare il parco nucleare ereditato dall’URSS non come mezzo per mantenere gli equilibri mondiali, ma al contrario per modificarli radicalmente. Questo, in una società che è regredita ad una situazione di gravissime disuguaglianze sociali, ed è dominata da un’ideologia rozza e antiquata, che si esalta nella nostalgia dell’antica grandezza.

Quello che fa paura, nella Russia di Putin, non è la sua forza, ma la sua debolezza.

La situazione è ora quanto mai incerta e imprevedibile. C’è un uomo (naturalmente uso una semplificazione retorica, si tratta di tutto il gruppo dirigente russo, con i suoi problemi di equilibri interni), che possiede un fucile di enorme potenza, ma che può sparare un solo colpo. È chiaro che se ci sarà un attacco nucleare, chi l’ha lanciato non potrà ripetere l’impresa. Ma la minaccia di per sé ha grande efficacia. Senza il ricatto nucleare, questa guerra sarebbe impensabile.

Se la guerra in Ukraina porterà all’uso dell’arma nucleare, potrebbe essere l’ultima guerra combattuta su questo pianeta. Ma se non ci sarà l’uso dell’arma nucleare, la situazione di minaccia potrebbe diventare permanente. Quel potente fucile ad un solo colpo continuerà a pesare sul futuro dell’intera umanità.

In entrambi i casi, l’esito della vicenda è imprevedibile.

Nonostante tutto, auguri Presidente!

Presidente Sergio Mattarella

Non posso unirmi al giubilo per la rielezione di Sergio Mattarella, per due motivi:

1. La democrazia vive nell’equilibrio dei poteri. La rielezione di un Presidente della Repubblica, per quanto non esplicitamente esclusa dalla Costituzione, altera sensibilmente quest’equilibrio.

2. La manifesta incapacità dimostrata dal Parlamento a trovare una personalità diversa ma altrettanto adeguata a quell’alta carica, è un’ulteriore scivolata nel degrado del sistema dei partiti. Quegli stessi partiti che considerano i cittadini incapaci di scegliersi i loro rappresentanti, e quindi ci obbligano a votare liste precostituite, quando si trovano a dover fare loro una scelta importantissima, non sanno altro che balbettare “Sergio salvaci tu!”

In ogni caso, poteva andare peggio.

Si poteva eleggere con motivazioni ancora più sordide e metodo ancora più discutibile un Presidente peggiore.

Se pensiamo alla lista delle candidature a cui abbiamo dovuto assistere — una lista che comincia con Silvio Berlusconi, un farabutto incallito, e termina con Pierferdinando Casini, una diafana nullità, possiamo dirci fortunati.

Quindi, nonostante tutto, auguri Presidente!

Lo strano primato di Donald Trump

Il sistema elettorale degli Stati Uniti d’America è molto complicato, e quasi del tutto incomprensibile all’estero.

Più o meno tutti sappiamo che il Presidente non viene scelto direttamente dai cittadini, i quali, con una votazione Stato per Stato, eleggono 538 “grandi elettori”. Poiché la rappresentanza dei singoli Stati non è proporzionale alla popolazione, e in genere tutti i “grandi elettori” di ogni singolo Stato votano il candidato che è risultato vincente in quello Stato, indipendentemente dalle proporzioni dei voti ricevuti dai diversi candidati, la composizione del “collegio elettorale” nazionale non riflette direttamente il risultato elettorale. Può capitale addirittura che un candidato che ha preso una minoranza di voti popolari si trovi ad avere la maggioranza dei voti dei “grandi elettori”. Così è capitato nel 2016, quando Trump ha avuto 304 grandi elettori, contro i 227 della Clinton, pur con uno scarto a favore di quest’ultima di quasi tre milioni di voti popolari.

Un caso del genere è piuttosto raro, l’ultima volta si era verificato nel 2000, quando Al Gore, con circa mezzo milione di voti popolari in più, era stato superato da George Bush: furono decisivi i 25 “grandi elettori” della Florida, dove lo scarto fra i due era di poche centinaia di voti, e il conteggio fu a dir poco tempestoso. Altri casi del genere si sono verificati nel 1824, 1876, 1888, ma mai con uno scarto in favore del perdente così forte come in quest’ultimo caso.

Solitamente, il Presidente uscente, se si ripresenta, ha buone probabilità di essere rieletto. È capitato solo sette volte (nel 1800, 1840, 1888, 1892, 1912, 1932, 1992), che un presidente in carica, presentatosi candidato per un secondo mandato, sia stato battuto.

Non è quindi mai capitato finora che un presidente abbia riunito nella sua persona queste due assai poco invidiabili caratteristiche: di vincere un’elezione con una minoranza di voti (con circa 3 milioni di voti in meno), e di essere battuto nelle successive elezioni (con oltre 7 milioni di voti in meno).

In una parola: Donald Trump è stato il Presidente meno votato di tutta la storia degli Stati Uniti d’America.

Il covid e l’art. 32

“Patriotic Cloth Face Covering. Eagle motif. Bird. Beak. America, USA…”

Art. 32.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Quelli che citano a sproposito la Costituzione dovrebbero ogni tanto leggerla.

La salute è un diritto fondamentale: dell’individuo e della collettività.

Non è una mia pretesa stravagante essere tutelato contro i danni e i pericoli per la mia salute: è un mio diritto. Io non chiedo, io pretendo di essere tutelato.

Ed è un interesse collettivo: la salute delle persone e la salute della società sono strettamente collegate. Non ci possono essere cittadini sani, senza una società sana, né una società sana, senza cittadini sani.

Non è una scelta opinabile dei pubblici poteri tutelare questo diritto: è un obbligo.

Lo Stato deve tutelarmi da fattori patogeni esterni, come l’amianto o un virus. E deve tutelarmi da comportamenti irresponsabili di singoli o gruppi che possono mettere a pericolo la salute individuale o collettiva: sia quelli che inquinano le falde acquifere, sia quelli che creano le condizioni favorevoli alla diffusione di un’infezione.


È un dato evidente che in questo la sinistra sia molto più sensibile della destra. In primo luogo perché la sinistra è più sensibile ai principi fondamentali della Costituzione democratica, mentre la destra tende ad usarla per finalità politiche contingenti. Ma soprattutto perché la tutela della salute è una vecchia battaglia della sinistra, sia politica, sia soprattutto sindacale.

Le battaglie per la tutela della salute sono una vecchia bandiera del movimento operaio – almeno fino a quando è esistito un movimento operaio organizzato capace di incidere sulla vita sociale. E ad un certo punto è emersa una parola d’ordine: La salute non è monetizzabile. Non è accettabile lo scambio salute contro denaro, non si può chiedere ai cittadini e ai lavoratori di accettare un danno o un pericolo sanitario in cambio di vantaggi economici.


Le Costituzioni non sono tutte uguali. Mentre da noi la tutela della salute è un obbligo costituzionale, non lo è per esempio nella Costituzione degli Stati Uniti d’America. La Costituzione americana non cita il diritto alla salute. Proclama invece il diritto dei cittadini al possesso di armi.

Da mesi negli USA ci sono circa mille morti di Covid al giorno. La cosa, dal loro punto di vista costituzionale, non è rilevante. L’importante è che sia tutelato il diritto dei cittadini americani a morire con la pistola in tasca.

Vive la France

Negli anni ‘70 e ‘80 i vignerons francesi assalivano le autobotti che trasportavano vino italiano e le rovesciavano nei fossi.

Vi fu un evento clamoroso nel 1975, quando l’assalto fu portato nel porto di Sète.

Ora quei coraggiosi combattenti occitani hanno una vittoria postuma. Il sindaco di Lione ha dato loro ragione: la TAV Torino – Lione non serve ai francesi.

I francesi non hanno bisogno delle importazioni dall’italia.

Siamo noi che abbiamo bisogno delle esportazioni verso l’Europa.

I francesi, anche quando sono verdi, sono nazionalisti.

Noi, anche quando siamo verdi, siamo coglioni.

Il piccolissimo Principe

Uno di luoghi comuni più stucchevoli della politica è “contano i programmi, non le poltrone”.
È la frase che ognuno dice dell’altro: “voi pensate solo ai nomi, alle poltrone, noi invece…”
E si rimane lì, a pensare ai programmi – come se i programmi non fossero cose che possono camminare solo con le gambe degli uomini.
Eppure cinquecento anni fa Machiavelli ci ha spiegato molto bene che l’arte della politica si compendia in questo: l’abilità di mettere la persona giusta al posto giusto.
Il resto, sono chiacchiere.