Guerra a Gaza: e poi?

Gaza

A un mese dall’inizio di questa guerra, la situazione non sembra presentare possibilità di esito positivo.
Il doppio compito che si è assunto Israele: liberare tutti gli ostaggi, eliminare tutti i terroristi, è chiaramente irraggiungibile. Il costo da pagare, sia in termini di vittime, sia di deterioramento dei rapporti interni ed internazionali, è altissimo.
Dal punto di vista di Hamas, sul momento è una vittoria completa. Nella logica del terrorismo, che non è la logica degli Stati, le vittime, anche le vittime civili, anche le vittime del proprio stesso popolo, sono punti a favore. Nella logica degli Stati, sono tutti elementi a sfavore. Questa è la grande asimmetria alla base di questo conflitto.
Al di là di questa situazione di vantaggio, non è chiaro però quale potesse essere l’obiettivo di Hamas. Poiché si è trattato di un attacco accuratamente pianificato, con l’impiego di grandi mezzi, vasto personale, determinanti appoggi esterni, scelta molto precisa del momento migliore, capacità di sfruttare i punti deboli del nemico ecc. è evidente che doveva esserci un progetto strategico di vasta portata, con la prospettiva di imporre una svolta radicale al conflitto.
Non è possibile sapere esattamente quale fosse questo obiettivo. Ma SE l’obiettivo era l’allargamento del conflitto, creare il punto di rottura per una guerra generale, quest’obiettivo non è stato raggiunto. Per lo meno, non ancora.
L’ultima guerra fra Stati nella regione è finita cinquant’anni fa (le due “guerre libanesi” del 1982 e del 2006 hanno coinvolto prevalentemente formazioni “fluide” come Hezbollah, solo in modo marginale l’esercito statale libanese). Da mezzo secolo la scelta strategica di tutti gli Stati “alleati” dei Palestinesi è stata “armiamoci e partite”. Trecento milioni di Arabi, due miliardi di Musulmani non hanno mai mosso un dito, non hanno mai dato un centesimo, per migliorare le condizioni di vita dei Palestinesi. Li hanno sempre solo spinti alla guerra, al grido di “la vostra lotta è la nostra lotta”. In questo mezzo secolo i Palestinesi sono stati le vittime sacrificali di un’enorme macchina di consenso interno in altri paesi; quella che ancora in questi giorni riempie di folle furibonde le piazze di tre continenti.
Erano in molti ad aver bisogno di questa ventata di unanimismo. La maggior parte degli Stati intervenuti come “facilitatori” esterni, a partire dall’Iran, hanno enormi problemi di coesione interna. Anche un attore che non appartiene all’area arabo-islamica, la Russia, deve far fronte ad una crisi che per ora non si manifesta apertamente, ma prima o poi esploderà, in modo tanto più violento quanto più se ne rimanda la maturazione. Altri attori importantissimi, non coinvolti direttamente, l’India e la Cina, per ora stanno a guardare senza intervenire: non hanno niente da guadagnare da questa guerra, e fanno ben attenzione a non correre rischi inutili.
Nessuno, per il momento, sembra avere la minima intenzione di mettere i piedi direttamente sul terreno di questo scontro. E i più decisi a starne fuori sono gli Egiziani, il cui ruolo è sempre sicuramente decisivo. L’Egitto è l’unico paese, oltre a Israele, a confinare con Gaza, e da vent’anni la sua posizione è sempre stata fermissima: evitare in ogni modo un collegamento operativo tra Hamas e i Fratelli Musulmani. Anche a costo di chiudere Gaza in un blocco anche più rigido di quello imposto da Israele. Ultimamente l’Egitto ha permesso l’uscita di ottanta (80!) Palesinesi gravemente feriti, e di circa duecento con doppio passaporto; poi il varco si è chiuso con inesorabile fermezza.
L’azione di Hamas, sul piano tattico, è stata un’iniziativa esemplare per efficacia e tempestività. Sul piano strategico, è stata un’azione largamente eterodiretta. In prospettiva, un’azione senza un esito prevedibile.
Tanto Hamas quanto Israele si troveranno prima o poi di fronte ad una domanda molto difficile: che fare DOPO?

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.