Lingue, armate, marine

אַ שפראַך איז אַ דיאַלעקט מיט אַן אַרמײ און פֿלאָט
a shprakh iz a dialekt mit an armey un flot
(una lingua è un dialetto con un’armata e una flotta)

(Secondo intervento sul tema “lingue e dialetti”, seguito di → “la carriera di una lingua”)

La frase in epigrafe viene solitamente attribuita a un linguista specializzato nello jiddisch (lingua, di derivazione tedesca, degli ebrei dell’Europa orientale), il quale l’avrebbe sentita pronunciare durante un convegno su quella lingua.

Dirò più avanti due parole su questa frase, che è, diciamo cosi, di scarsissimo valore euristico. Ma la cosa singolare è che proprio lo jiddisch, che è indubbiamente una lingua, non ha mai avuto né “esercito” né “marina”; si tratta dunque di una clamorosa eccezione a quanto affermato nella frase citata. Non è un buon inizio per una presunta “legge linguistica”.

È un caso assai frequente che uno studioso di valore sia passato alla storia per una singola frase, spesso, una banalità di non grandissimo rigore scientifico – addirittura per una frase mai detta, tipo “eppur si muove”, “il fine giustifica i mezzi” ecc., o, come in questo caso, una frase semplicemente riferita per sentito dire. È una frase però che ricorre con puntuale petulanza in ogni discussione su lingua e dialetto, come se fosse la verità oracolare e conclusiva della questione: “L’ha detto un linguista, quindi è così.” Ipse dixit.

Poiché quanto segue sarà appunto una mia piccola puntualizzazione su questo tema, ho preferito anticiparla. Così per un po’ ci siamo tolti il problema.

Allora, diciamo che, da un punto di vista rigorosamente scientifico, la distinzione tra lingua e dialetto, se c’è, è di assai modesta utilità. Se io studio la fonologia del piemontese, mi è del tutto indifferente decidere se il piemontese sia una lingua o un dialetto. Inversamente, la fonologia del piemontese non mi serve per stabilire se il piemontese è una lingua o un dialetto.

La distinzione tra lingua e dialetto, più che di carattere linguistico, si potrebbe collocare nell’ambito della sociolinguistica. Ma qui non vi sono certezze, né assolute, né dimostrabili con sicurezza.

Soprattutto, è un ambito in cui non vi sono separazioni nette, ma le differenze sono da trovarsi in un’ampia fascia di gradazione, nella quale è assolutamente arbitrario porre un confine netto.

Proviamo ad elencare alcuni di questi punti:

  1. Una lingua è usata prevalentemente o esclusivamente (ma non sempre) dai ceti dominanti (qualunque cosa si intenda per “ceti dominanti”), un dialetto è parlato prevalentemente o esclusivamente (ma non sempre) dal popolo (qualunque cosa si intenda per “popolo”).
  2. Una lingua ha una vasta produzione scritta (ma tutte le lingue nascono, e vivono spesso per secoli, senza scrittura); un dialetto agisce prevalentemente nell’ambito dell’oralità (ma ci sono dialetti con una produzione letteraria vasta e significativa).
  3. Una lingua si usa in contesti formali (ma non necessariamente solo in questi); un dialetto viene usato prevalentemente in contesti informali (ma ci sono parecchie significative eccezioni).
  4. Una lingua ha solitamente (non sempre) una normazione grammaticale dettagliata (anche se questa può essere applicata con diversi gradi di rigore); un dialetto non ha sempre una descrizione grammaticale (e quando ce l’ha, si tratta spesso di una semplice trasposizione delle categorie della grammatica della lingua di riferimento), e raramente ha una codifica normativa (e se ce l’ha, non ci sono garanzie che questa venga applicata).
  5. Una lingua dispone di un ampio ventaglio di registri d’uso: viene usata, nella produzione scritta e nella comunicazione orale, in generi, situazioni comunicative, stili e modi di espressione molto vari, soprattutto quando ha una tradizione molto lunga. Un dialetto è più vincolato a situazione inerenti la vita quotidiana, famigliare, e non ha in genere una grande varietà di registri d’uso. Però un dialetto può anche dare vita a diversi generi artistici, per esempio il teatro, la canzone, la poesia ecc. di grande varietà espressiva, e con stili spesso specifici e talvolta consuetudinari, anche se non sempre espressamente codificati.
  6. Una lingua ha una certa omogeneità territoriale, pur presentando varianti regionali, che ovviamente fanno riferimento ai dialetti locali, anche se non coincidono con questi. Un dialetto invece è caratterizzato da varianti più o meno importanti su ambiti anche piccoli, il singolo centro urbano, il piccolo distretto locale ecc. Tra queste varianti non c’è in genere una distinzione netta, ma una serie di piccole variazioni graduali.
  7. Accanto alle varietà di cui al punto 5., e al punto 6., una lingua ha in genere una variante standard, una koiné, che non è necesariamente più importante o più diffusa delle altre, ma che viene comunemente indicata come la forma “normale” della lingua, rispetto alla quale le altre varianti sono deviazioni, particolarità, possibilità, registri d’uso, licenze ecc. in un ampio ventaglio di scelte, o, a volte, “errori”. Un dialetto raramente ha una vera koiné, e quando ce l’ha, solitamente si tratta della supremazia de facto della variante del capoluogo.

Si noti che nessuno di questi punti rappresenta una definizione minimamente precisa da un punto di vista scientifico di “lingua” o “dialetto”.

Aggiungiamo ora un ultimo punto, che invece stabilisce una distinzione certa:

  1. Una lingua può avere una sua ufficialità d’uso, che viene sancita:
    1. dall’attività legislativa e giudiziaria, che solitamente ne fa uso esclusivo;
    2. dalla pratica dell’insegnamento.

Ma vi sono, e vi sono state nel passato, “lingue” che non sono mai state usate ufficialmente da uno stato, anzi, che non hanno mai fatto riferimento ad un’entità statale. Un esempio è il già citato jiddisch; un altro, noto a tutti, è l’occitano (o provenzale). Quest’ultimo, tra l’altro, è il caso più vicino a noi di una lingua vera e propria che ad un certo punto è regredita a “dialetto”.

Il tema della “lingua ufficiale” è quello che ci richiama alla faccenda dell’esercito e della marina. Notiamo in primo luogo che, da un punto di vista linguistico, questo passaggio è il meno importante di tutti. Se una certa “parlata” viene definita “lingua ufficiale dello Stato” (cioè la lingua usata nella produzione legislativa, nell’amministrazione della giustizia ecc.), vuol direi che esisteva già: non si inventa da un giorno all’altro una lingua ufficiale di uno Stato. Che il catalano, o l’occitano, o il gaelico siano o meno riconosciuti come lingue ufficiali, questo non cambia nulla alla loro struttura linguistica propria. Ma questa promozione ha, a lungo andare, effetti anche linguistici, poiché l’ampliamento dei campi di applicazione innesca una serie di processi evolutivi, cosa che induce trasformazioni importanti, a partire dall’adozione di termini, neologismi di cui prima non si sentiva il bisogno.

In breve, la distinzione tra lingua e dialetto, è abbastanza estranea alla linguistica come scienza. Ma non è priva di conseguenze di tipo linguistico. Se dico ad un bambino “sei un cretino, non capisci niente”, e glielo dico per anni e anni e anni, quel bambino crescerà convinto di non capire nulla, e diventerà molto probabilmente un adulto disadattato, privo di fiducia in sé e di motivazioni per migliorare. Sembra che ancora ai primi del Novecento in Francia si dicesse normalmente: “Le persone per bene parlano provenzale solo in tre circostanze: quando vanno a pesca, quando giocano a carte, quando giocano a bocce” – be’, alla fine quel povero dialetto si impoverirà, fino ad avere un vocabolario ristretto quasi esclusivamente alla pesca, alle carte, alle bocce.

A questo punto però succede un pasticcio. La definizione di “lingua ufficiale”, si collega a quella data in cima al precedente elenco: la lingua è parlata dai ceti dominanti, dai “signori”, il dialetto è parlato dal “popolo”. Ed entrambe queste definizioni vanno a mollo nel brodo primordiale del populismo, la cui caratteristica fondamentale è proprio quella di leggere la società come un puro composto binario: c’è il “popolo”, e c’è tutto il resto: i potenti, i cattivi, i signori, i politici, gli intellettuali, dite quello che volete, insomma tutto quello che non è “popolo”. E quindi se la società è letta in questo modo rigidamente binario, lo stesso vale per la distinzione tra “lingua” e “dialetto”: la parlata del “popolo” e la parlata del “non-popolo” sono due realtà assolutamente distinte, omogenee al loro interno, e irrimediabilmente opposte. O sei “popolo”, o sei un “signore”. Non c’è via di mezzo. Non c’è comunicazione. O parli un dialetto, o parli una lingua. Ridurre l’enorme complessità sociale di una nazione evoluta, con le sue intricatissime reti di contatti, scambi, relazioni di interesse, ai soli due blocchi “popolo” e “signori”, ha come controparte ignorare la complessità di usi, forme, registri, varianti, sia delle “lingue”, sia dei “dialetti”, nonché le continue, molteplici forme di interazione, di contatto, di contaminazione, di mutua relazione; e il fatto che in vasti settori della realtà ci sono molte persone che, più o meno frequentemente, più o meno consapevolmente, passano dall’una all’altra forma di espressione a seconda del contesto, delle finalità di comunicazione, anche solo dell’umore e dello stato d’animo. Sappiamo per esempio con buona sicurezza che in tutta la storia d’Italia anche i “signori” hanno sempre parlato tranquillamente il loro “dialetto”.

La conseguenza di questa polarizzazione irrealistica e antistorica è una stramba teoria, secondo la quale l’italiano è una lingua che “non è mai esistita”, è il risultato degli sforzi di Dante, Petrarca, Boccaccio, Pietro Bembo e Mike Buongiorno, che con la complicità della politica e della scuola autoritaria hanno imprigionato la meravigliosa spontaneità dei dialetti in una soffocante gabbia di regole grammaticali.

Questa ricostruzione non ha nulla a che vedere con la storia politica e linguistica d’Italia. Quando, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, i vari stati d’Italia abbandonano il latino come lingua dello Stato, passano all’italiano. Non mi risulta che ci siano eccezioni, né resistenze. Il regno di Napoli, la repubblica di Venezia avevano un esercito e una marina; anzi, erano grandi potenze. Ma non adottano né il napoletano, né il veneziano come lingua ufficiale, che pure erano le lingue parlate quotidianamente anche dalle classi dirigenti, ed avevano anche una non spregevole dignità letteraria. Emanuele Filiberto adotta, per i territori transalpini, il francese, per il Piemonte, l’italiano; non sceglie né l’occitano, né il francoprovenzale, né il piemontese, che rimane fino al ‘900 la lingua parlata quotidianamente da tutta la classe dirigente torinese. Lo Stato della Chiesa regge il più a lungo possibile con il latino, ma alla fine adotta l’italiano, non il romanesco. E non è neanche il caso di ricordare che già Machiavelli notava che l’italiano “ufficiale” ormai è molto distante dal fiorentino parlato; ma non basta il suo prestigio per cambiare la situazione, neanche a Firenze.

Per quanto riguarda “armate e flotte”, dal ‘500 in avanti, in Italia, chi le aveva, erano le grandi potenze europee; se fosse vera la barzelletta di Max Weinrich, oggi in Italia si parlerebbe francese, spagnolo, tedesco.

Insomma, se fosse vero che “una lingua è un dialetto con un’armata e una flotta”, non so bene quale sarebbe oggi la lingua d’Italia: sicuramente non l’italiano.

Gli italiani e la grammatica. Mille anni fa.

xii. De herese in Italia reperta

23. Ipso quoque tempore non impar apud Rauennam exortum est malum. Quidam igitur Vilgardus dictus, studio artis gramatice magis assiduus quam frequens, sicut Italicis mos semper fuit artes negligere ceteras, illam sectari. Is enim cum ex scientia sue artis cepisset inflatus superbia stultior apparere, quadam nocte assumpsere demones poetarum species Virgilii et Oratii atque Iuuenalis, apparentesque illi fallaces retulerunt grates quoniam suorum dicta uoluminum carius amplectens exerceret, seque illorum posteritatis felicem esse preconem; promiserunt ei insuper sue glorie postmodum fore participem. Hisque demonum fallaciis deprauatus cepit multa turgide docere fidei sacre contraria, dictaque poetarum per omnia credenda esse asserebat. Ad ultimum uero hereticus est repertus atque a pontifice ipsius urbis Petro dampnatus. Plures etiam per Italiam tunc huius pestiferi dogmatis sunt reperti, qui et ipsi aut gladiis aut incendiis perierunt.

XII. Si scopre un’eresia in Italia

23. Un male simile sorse a Ravenna negli stessi anni. Un tale chiamato Vilgardo si dedicava con grande passione ed assiduità allo studio delle discipline linguistiche, come usano da sempre gli italici, che per applicarsi a questi studi tralasciano tutti gli altri. Gonfio di superbia per il suo sapere, e quando ormai manifestava nei suoi atteggiamenti una sempre maggiore stoltezza, una notte gli apparvero dei diavoli sotto le sembianze dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale. Essi finsero di ringraziarlo per la passione con cui si dedicava alle loro opere e per essere così felice divulgatore della loro fama presso i posteri, promettendogli inoltre di farlo nel futuro partecipe della loro gloria. Corrotto da questi diabolici inganni, Vilgardo iniziò in modo tronfio ad impartire insegnamenti contrari alla santa fede, e ad affermare che le parole dei poeti dovevano in tutto essere ritenute vere. Alla fine però fu giudicato eretico e condannato da Pietro, vescovo di quella città. In Italia vennero allora trovati molti uomini che aderivano a queste funeste dottrine e tutti morirono o trafitti dalle spade o bruciati sui roghi.

Rodolfo il Glabro, Storie, Libro II
Trad. D. Tuniz

Da quanto sopra si può ricavare che:

  1. Mille anni fa esisteva, ed esisteva già da un certo tempo, l’Italia; ed esistevano, ed esistevano già da un certo tempo, gli Italiani.
    (“Mille anni fa? possibile?” “Sì, mille anni fa.” “Minchia.”)
  2. Già mille anni fa gli italiani erano noti per la loro fissazione grammaticale.
  3. Contro la doppia peste degli Italiani e dei fissati grammaticali c’è un unico rimedio: il ferro ed il fuoco.
  4. Enrico Ferrini è un perfetto imbecille; e sarebbe stato un perfetto imbecille anche ai tempi di Leonardo; e sarebbe stato un perfetto imbecille anche i tempi di Rodolfo il Glabro.

Il seguente articolo è stato stimolato da un post di un certo Enrico Ferrini il quale sostiene che Leonardo non è italiano, poiché cinquecento anni fa l’Italia non esisteva.

… e tu non sei Sofocle (uffa…)

In tema di bufale letterarie, mi sembra abbastanza clamorosa quest’ultima:

Prendi tua figlia e insegnale lo splendore della disobbedienza. È rischioso, ma è più rischioso non farlo mai.

attribuita – non l’immaginereste mai – a Sofocle. Antigone. Proprio così.

Il problema non è tanto che uno possa sbagliare citazione. Ma mi sembra incredibile che una persona di buona cultura (chi ha condiviso questa bufala è, credo, persona di buona cultura) non riesca a non ravvisare in questa frasetta lo stile del femminismo mainstream, della cultura alternativa che più average non si può.

Stile. Perché la lingua è stile, prima che grammatica.

Stile.


Sullo stesso tema:

→ Hemingway

→ Borges

Montecassino, la lingua normata, la dislocazione a sinistra

L’abbazia di Montecassino, uno dei semi da cui è germogliata l’identità italiana ed europea, ha avuto nei secoli una storia molto tormentata. Fondata nel 529 da san Benedetto, fu distrutta dai longobardi nel 577. Dopo un secolo e mezzo di abbandono, fu ricostruita nel 717, per essere nuovamente distrutta dai saraceni nell’883. Passò un’altra ottantina d’anni, e su impulso della crescente influenza di Cluny si decise di ricostruirla di nuovo.

Occorreva non solo riunire la comunità dei monaci, e rimettere in piedi gli edifici, ma anche recuperare le proprietà terriere che permettevano il sostentamento della casa madre e dei monasteri dipendenti.

Fu un’opera lunga e minuziosa, che ci ha lasciato quattro documenti detti “placiti cassinesi”. Il primo, datato 960, è famoso perché contiene una frase considerata la prima testimonianza del volgare italiano:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti

La formula è ripetuta in modo molto simile negli altri tre atti. Essa deve attestare che, a memoria d’uomo (sao), certi beni fondiari (kelle terre) erano stati di proprietà del monastero (le possette parte Sancti Benedicti) per un tempo sufficientemente lungo (trenta anni) da poter stabilire un diritto stabile di proprietà. Il testimone pronuncia questa frase indicando su una mappa i confini esatti dei fondi: per kelle fini que ki contene (nei confini che qui sono segnati).


Quello che è stato notato dai linguisti, è che tale formula non appare come la semplice registrazione del parlato, ma come una formula fissa, che risponde esattamente alla funzione giuridica per cui viene espressa. Si tratta quindi di un’espressione già normata, che pur usando la lingua del volgo non è quella “spontanea espressione della viva voce del popolo” che tanto piace ai romantici. Insomma, le prime parole della lingua italiana compaiono insieme ad un’operazione consapevole di regolarne l’uso. Al contrario di quello che dice il proverbio, la “grammatica” nasce, o per lo meno, è documentata, nello stesso momento della “pratica”.


Vediamo ora la struttura grammaticale della frase.

  • Sao ko è la principale, con la congiunzione subordinante;
  • kelle terre uhm… messo così, sembra il soggetto della dipendente… o forse no?

lasciando perdere l’inciso, apprendiamo ora che:

  • trenta anni compl. di tempo;
  • le ?
  • possette: predicato verbale;
  • parte Sancti Benedicti: ma che avevate capito? è questo il soggetto!

E allora le?

Be’, è quella formula che i linguisti chiamano con una brutta espressione “dislocazione a sinistra”.

Se vogliamo mettere a posto l’analisi logica, dobbiamo dire che kelle terre è il compl. oggetto di possette, messo in prima posizione per renderlo più evidente; e le è il pronome pleonastico che lo richiama.

Quindi mettiamoci il cuore in pace. Quella struttura sintattica, che molti si ostinano a condannare come “tipica del parlato”, una degenerazione della lingua d’oggi, è la prima forma documentata e normata della lingua italiana. È uno dei caratteri per cui l’italiano è una lingua, non una variante del latino. E nasce con il primo vagito del nostro idioma.

Il resto verrà poi.

Un luogo comune, anzi: due

L come Lingua

“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina” (variante: “una bandiera”).

Per la prima volta, in un recente thread sul gruppo FB → La lingua batte, ho visto attribuire quest’insulso luogo comune a Tullio De Mauro.

Fra i vari possibili autori viene in genere indicato il linguista Max Weinreich, il quale sosteneva di averla sentita pronunciare da uno sconosciuto partecipante ad un convegno sulla lingua jiddisch.

Indipendentemente dalla paternità (e su questo punto possiamo senz’altro lasciare tranquillo il povero De Mauro), la cosa divertente è che proprio lo jiddisch è incontestabilmente una lingua, anche se non ha mai avuto né un esercito, né una marina, né una bandiera.

Un’altra lingua, che nessuno si azzarderebbe a definire “dialetto”, è l’occitano, che è stato citato in quello stesso thread, anche se del tutto impropriamente. Lingua, per un certo tempo, di grandissimo prestigio internazionale; sulla produzione poetica in lingua occitana si sono modellate alcune delle più importanti letterature dell’Europa medievale: tra cui quella italiana. Anche qui, nessuna notizia di un esercito occitano, di una marina occitana.

Invece sì, il francese (anche quello antico, la lingua d’oïl) ha avuto un esercito, e poi anche una marina e una bandiera. Ed è con questi strumenti che ha ridotto l’occitano a un povero dialetto, che le persone a modo (così si diceva) usano solo in tre circostanze: quando vanno a caccia, a pesca, o al gioco delle bocce.

Detto questo, la smentita più clamorosa alla faccenda dell’esercito e della marina è infine la lingua italiana, che si è affermata non solo nello Stivale, ma in tutta Europa come grande lingua di cultura parecchi secoli prima che esistesse uno Stato italiano con il suo esercito ecc.


Poiché s’è parlato di jiddisch, merita ricordare che anche gli ebrei, quando hanno avuto un esercito, parlavano una lingua, che però al di fuori del loro misero staterello era del tutto sconosciuta. La grande fortuna della lingua ebraica si è avuta dopo la distruzione del Tempio, con la Schiavitù e poi la Diaspora. Per un breve periodo, nell’antichità, gli ebrei hanno avuto di nuovo un loro staterello; ed è stato allora che hanno rischiato di mettersi a parlare greco. Dopo la distruzione definitiva del secondo (ma forse si dovrebbe dire terzo) Tempio, la lingua degli ebrei ha avuto un grandissimo peso nella storia della cultura grazie alla promozione dei loro peggiori nemici, i cristiani. Ed è grazie a cristiani, che più di una volta sono stati tentati di sterminare definitivamente i loro “fratelli maggiori”, che il Libro dei Libri, scritto originariamente in ebraico, è diventato il Libro più letto al mondo.

E già che abbiamo citato la Bibbia, concludiamo dicendo che il Libro dei Libri è la più grande smentita a quell’altra insopportabile scemenza:

“la storia la scrivono i vincitori”

La storia più famosa del mondo è stata scritta dal popolo più sfigato del mondo.

Il non coraggio delle non idee

Pif

“Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, disse una presentatrice televisiva ad una collega malata di cancro.
Che male c’è? È solo un proverbio.
“Dovete morire”, urlava una prof che nessuno vorrebbe come insegnante dei propri figli.
Ma tutti dobbiamo morire, no? È un dato di fatto. Mica una minaccia.
“Non sono razzista ma…” certo che non lo sei, ma… “Non vorrei mai un migrante come vicino di casa”, proclama un attore televisivo, di cui si ricorda un lungo intervento di insulti all’indirizzo di Rosy Bindi, alla Leopolda di cinque anni fa.
Be’, è un fatto, chi mai vorrebbe un migrante come vicino di casa? Al massimo qualche “ricco”, qualche “professore”.
Si lanciano messaggi di morte sul web, messaggi che poi vengono cancellati. “Mi scuso, non volevo minacciare nessuno”. Ma no, certo. E che avevamo capito?
Siamo nell’epoca delle non-idee, e del non-coraggio delle non-idee.

Neolingua

Abbiamo sempre saputo — ce l’ha spiegato molto bene Orwell, ma è sempre stato così — che ogni cambiamento di regime è segnato da un cambiamento nelle abitudini linguistiche.

Da parecchi anni (non da ieri, vent’anni e passa) questa trasformazione ha toccato perfino una delle basi della grammatica italiana, la differenza tra verbi transitivi e verbi intransitivi.

Il verbo “fare” è un tipico verbo che ha bisogno di un complemento oggetto: il bambino fa (che cosa?) i compiti, la mamma fa (che cosa?) i gnocchi…

Le maestre di una volta sconsigliavano l’uso di un verbo così generico, e indicavano alternative più precise: fare → costruire un muro, fare → comporre una poesia.

Da un quarto di secolo più o meno il verbo “fare” è diventato un verbo intransitivo.

L’importante è “fare”, non fare questo o quest’altro.

Non navigare volare poetare amare credere obbedire combattere: fare.

I filosofi troveranno collegamenti con le dottrine che mettevano all’origine del tutto l’“atto” o cose del genere; da pedante in pensione, posso solo esprimere il mio sconcerto nel vedere la progressiva invasione, come i rinoceronti di Jonescu, degli “uomini del fare”, che proprio perché “fanno” (o meglio: vorrebbero fare) si considerano esentati dall’obbligo di dichiarare “che cosa” intenderebbero fare.


Naturalmente, poiché “fare” è un verbo intransitivo, più si è impegnati nel “fare”, più si fa un bel cazzo di niente.


“i gnocchi”, e non mi rompete le palle, ché non è giornata.

L’accisa

Here is a brand new Italian word that has come into fashion in the last few months: l’accisa. I came across this word for the first time last November, just after the floods which brought so much damage to Liguria and Toscana, when the President of the Regione Toscana announced the introduction of un’accisa sulla benzina per pagare i danni creati dall’alluvione (an accisa on fuel to pay for the damage created by the floods). Then again just a few days ago the Government announced another accisa of two cents on fuel to help the population of Emilia Romagna which was hit by the earthquakes of 20th and the 29th of May. However, according to my Vocabolario della Lingua Italiana Treccani, accisa is actually an obsolete word.

Quanto sopra viene da un blog di linguistica, ed è stato citato nel gruppo di discussione sulla lingua italiana.

Mi sono permesso di rispondere, nel mio inglese maccheronico,

the term may be found in several languages: Latin accensare > Dutch accijns > French accise > Italian accisa > Engl. excise > Germ. Akzise (old form for Verbrauchssteuer) ecc.

en.wikipedia.org/wiki/Excise_tax_in_the_United_States

Agli italici lettori potrei aggiungere che se Monti avesse annunciato l’introduzione di una nuova Excise Tax, avrebbe suscitato gridolini di ammirazione in tutti i bocconolatri.

Prove INVALSI, ovvero: Avete presente Cavalli-Sforza?

Vabbè. Diciamo che ce l’avete presente.

Allora facciamo un bel riassuntino, ma non si può sempre raccontare la rava e la fava, ci sono degli evidenti prerequisiti, si dà per scontato che il lettore abbia ben presente il concetto di famiglia linguistica, che abbia un’idea abbastanza chiara dell’indueuropeo e delle sue successive suddivisioni e ramificazioni, che più o meno abbia già sentito parlare delle lingue afro-asiatiche, altaiche, na-dene ecc.

Poi si passa alla genetica, DNA e compagnia bella, caratteri ereditari permanenti come i gruppi sanguigni, e caratteri di origine più recente, dovuti alle circostanze ambientali, come il colore della pelle ecc. In tutto questo discorso, avete capito benissimo, è implicita una critica dell’idea di razze umane, ma non c’è tempo per parlarne; abbiamo fiducia che il lettore ci arrivi da sé.

Passiamo poi alla correlazione fra la diffusione delle lingue, e la diffusione dei caratteri genetici. C’è un certo parallelismo, è chiaro, ma non sono esattamente la stessa cosa, siete d’accordo? I meccanismi non sono gli stessi, come non sono le stesse le velocità di evoluzione ecc. Insomma, qui si capisce dove si vuole arrivare, al concetto di etnia, ma non c’è tempo per fare tutta la chiacchierata, anche qui il lettore deve arrivarci da solo.

A questo punto è chiaro e lampante il motivo per cui molti, incrociando i dati della linguistica con quelli della genetica, tendono a riunire parecchie famiglie (l’indoeuropea, l’altaica, l’afro-asiatica, la dravidica, e ne ho sicuramente dimenticata quacuna) nel grosso tronco del “nostratico”. Ma perché fermarci qui? Insomma, è probabile che tutte le lingue del mondo, non solo le nostratiche, alla fin fine derivino da un’unica lingua madre (lo stesso discorso vale per le etnie, ça va sans dire).

Seguono ipotesi su dove e quando sarà nata questa benedetta “lingua madre”; ma avrete già capito che ci stiamo orientando verso l’Africa Centrale, circa 130.000 anni fa. Un po’ più complicato è stabilire la possibile origine dell’indoeuropeo: Vicino Oriente 10.000 anni fa? Oppure Asia centrale circa 7000 anni fa? Si impone una pausa di riflessione, per ben ponderare queste due ipotesi, ognuna accompagnata con diverse spiegazioni sulle modalità di diffusione, ad est (fino al tocarico, mica avrete dimenticato il tocarico!?) e ad ovest. Diffusione dell’agricoltura in seguito alla rivoluzione neolitica, oppure migrazioni di popoli grazie alla formidabile invenzione del carro su ruote? Al lettore l’ardua sentenza.

Non so se ho ricordato tutto. Comunque fermiamoci qua. Ora mettiamo tutta questa roba in una paginetta in formato A4 (non una riga di più, dobbiamo salvare le foreste sì o no?) e presentiamola come esempio di “divulgazione scientifica”.

Ah, dimenticavo: io mi sono sforzato di esporre tutta questa pappardella con un minimo di ordine, non so se ci sono riuscito, ma almeno mi ci sono sforzato, perché, grazie a Dio, io so scrivere; l’autore del prefato saggio invece ha lasciato tutto ben mescolato in un unico minestrone.

Occhèi? Occhèi.

Bene, adesso somministriamo questo bel saggio di “divulgazione scientifica” ai nostri ragazzi di Seconda Superiore, e con opportune e mirate domande vediamo che cosa hanno capito.


A questo punto, che posizione prendiamo nei confronti degli esperti dell’INVALSI? Pensate che un bel vestito di catrame e piume sia la soluzione idonea?