Eduardo, Hitler, Putin: “O isso, o io!”

O Isso O Io!

1. Nel Sindaco del Rione Sanità di Edoardo de Filippo, il vecchio camorrista Don Antonio ricorda un episodio di gioventù. Era un povero pastorello, e le capre che aveva in custodia avevano sconfinato in una tenuta privata. Il custode di quella tenuta se ne accorse, e prese crudelmente a botte il ragazzino. Questi, tornato malconcio a casa, più che dalle ferite era tormentato da un’idea fissa: “O isso, o io! O isso, o io!” L’offesa ricevuta era diventata una questione esistenziale. Alla fine si decise. Prese un’arma, andò, e uccise il suo nemico.

Di qui cominciò una carriera criminale che lo portò ad essere, nel suo quartiere, un uomo a cui nessuno poteva dire di no.

2. Nel gennaio del 1933 Adolf Hitler divenne Cancelliere del Reich. Sono molti i fattori che avevano portato l’ex caporale al vertice del potere. Fra questi sicuramente l’appoggio delle Sturmabteilungen, i “reparti d’assalto”, che da anni terrorizzavano la Germania, ed erano arrivate a contare centinaia di migliaia di militanti violenti e fanatici, riconoscibili per le loro “camicie brune”. All’inizio dell’anno successivo, cominciarono ad esserci attriti tra la dirigenza del partito nazista e questa forza irregolare, animata da un’ideologia populista e “antisistema” che sognava una “rivoluzione”. Non vi furono mai veri atti di ribellione, ma nel giugno del 1934 Hitler risolse la questione eliminando fisicamente i capi delle SA, a partire dal potentissimo Ernst Röhm, fino a quel momento l’unico che avesse goduto del privilegio di dare del “tu” al Führer.

Questa specie di “putsch” interno comportava sicuramente dei rischi, ma si risolse in un successo senza ombre. Hitler aveva scelto da solo, e perfettamente, l’obiettivo, il tempo, il modo, e colpì senza esitazione. Non ci fu nessuna opposizione, nessun accenno di protesta. La strage cementò il suo legame con la forza spietata delle SS, che erano legate a lui da un giuramento di fedeltà senza riserve. Hitler in quel momento era in ascesa, e l’operazione lo confermò il capo assoluto della Germania nazista, una specie di Giove tonante che lancia fulmini e sentenze senza appello. Anche grazie a questo colpo di mano, si garantì fino alla fine, quando ormai la Germania era ridotta a un deserto di macerie, e l’Armata Rossa era ormai a poche centinaia di metri dal suo bunker, il privilegio d’essere l’unico giudice di sé stesso.

3. Una decina d’anni fa Vladimir Putin si accorda con un personaggio dalla vita torbida, Evgenij Prigožin, un imprenditore di non grandissimo risalto, fondatore di una compagnia militare privata, per assegnargli alcune operazioni sporche in cui le forze armate della Federazione Russa non dovevano ufficialmente comparire. Il Gruppo Wagner diviene in seguito sempre più importante, largamente sostenuto e finanziato dal governo russo, ed opera in diversi settori, dalla Siria all’Africa centrale all’Ukraina.

Putin compie l’errore capitale di dare sempre più spazio a questi brutali combattenti (spesso reclutati nelle carceri) e al loro esuberante capo. Costui occupa una posizione sempre più importante non solo nelle operazioni militari, ma anche nell’immaginario delle forze nazionaliste e revansciste del mondo politico e dell’opinione pubblica russa, convinte di poter rovesciare il corso della storia e ridare alla Russia quel ruolo imperiale perso irrimediabilmente con la dissoluzione dell’URSS.

Quando la campagna in Ukraina comincia ad accumulare un insuccesso dopo l’altro, e si riduce ad una costosissima e interminabile guerra di logoramento lungo una fascia di territorio larga poco più di 200 km lungo il confine, la presenza di Prigožin diventa sempre più ingombrante. Il capo mercenario avanza richieste sempre più pressanti di rifornimenti, e soprattutto di libertà d’azione, arrivando addirittura a chiedere la sostituzione dei capi politici e militari della guerra in corso. Putin tenta di riprendere in mano la situazione, chiedendo ai Wagner di accettare l’arruolamento nelle forze armate regolari: richiesta, prevedibilmente, respinta. A questo punto le vicende prendono un corso confuso, a volte francamente comico. Mentre Prigožin si rende sempre più spesso irreperibile, una colonna corazzata di Wagner occupa la città di Rostov e imbocca l’autostrada che conduce a Mosca. Alcuni militari dell’esercito regolare compiono l’errore di fare il proprio dovere, e vengono falciati. Ma poi questo strano golpe si interrompe, i blindati arretrano, Prigožin scompare.

I giorni succesivi alla “mezza marcia su Mosca” sono confusi, incomprensibili. Prigožin viene ufficialmente accusato di tradimento e di insurrezione armata, ma non risulta che vengano presi provvedimenti contro di lui. Interviene, non si sa a che titolo, il presidente bioelorusso Lukashenko, che si presenta come “mediatore” e “pacificatore”. Promette ai Wagner e al loro capo asilo in Bielorussia. Per accogliere i miliziani fa allestire in quattro e quattr’otto un campo militare, destinato a restare deserto. Prigožin, sempre inafferrabile, lancia messaggi sempre più aggreessivi dai suoi rifugi segreti, dall’Africa, da non si sa dove.

Alla fine, sembra che si sia stato un incontro segreto fra i due rivali. Poco dopo, un aereo in volo da Mosca a San Pietroburgo precipita in fiamme. Le autorità del Cremlino permettono che i media diano ampio risalto all’evento, addirittura che circolino apertamente voci su un’azione della contraerea russa e un diretto coinvolgimento di Putin: voci che solo dopo un paio di giorni vengono smentite con freddezza burocratica dal Cremlino.

Il bilancio di tutto questo? Be’, è risaputo che Putin da sempre ama eliminare i suoi nemici “alla scordatina”. Veleno, suicidio, incidente, chissà. Ma qui la situazione si era spinta troppo oltre. Il gruppo Wagner era ormai un elemento impazzito del sistema. Putin per anni aveva favorito e foraggiato un mostro da cui alla fine ha rischiato di venire travolto. Ha dovuto agire in modo clamoroso, poiché era ormai evidente di fronte al mondo intero che non aveva più il controllo della situazione. Non ha scelto né l’obiettivo, né il modo, né soprattutto il tempo, dell’azione. La sua forza, è stata chiaramente la forza della disperazione.

Si è svolta in questi giorni a Città del Capo la riunione dei BRICS. Riunione a cui Putin ha partecipato in videoconferenza, poiché se fosse andato di persona, il governo sudafricano avrebbe dovuto mettergli le manette.

Nel corso della riunione, è stato annunciato che il gruppo Wagner, a cui da anni la Federazione Russa aveva delegato la sua politica estera verso diversi paesi africani, non esiste più.

4 commenti su “Eduardo, Hitler, Putin: “O isso, o io!””

  1. Mi si consenta di essere insopportabilmente pignolo. Il fondatore della Wagner non fu Prigožin, bensí Utkin, quello col corpo disseminato di tatuaggi nazisti, che scelse in nome “Wagner” perché era il compositore preferito di Hitler. Prigožin ne divenne di fatto il capo, svolgendo operazioni di reclutamento e altro, ma non era un militare, il capo “operativo” rimase sempre Utkin, fino al tragico epilogo.

    In secondo luogo, il presidente/dittatore della Bielorussia si scrive Lukašėnka traslitterando dal bielorusso, Lukašenko traslitterando dal russo. Scrivere “Lukashenko” all’inglese, per quanto “comodo” per le nostre tastiere occidentali, è contraddittorio se altrove trascriviamo “Prigožin”, allora per coerenza dovremmo scrivere “Prigozhin”.

    Lo so, sono insopportabile…

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    • Grazie, la precisione non è mai troppa. La comunicazione sui social porta effettivamente a trattare le cose all’ingrosso.
      E poi, le riletture non bastano mai. Mi accorgo adesso che “sconfinare” preferisce l’aus. avere, quindi le capre avevano sconfinato, non erano sconfinate.

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