Quanto costa la conoscenza?

Due interventi su it.economia.

Una storiella, con il seguito.

La storiella è di “Albion of Avalon”.

Una ditta ha un macchinario che non funziona e chiama un tecnico. Arriva il tecnico, osserva il macchinario per 1 ora. Poi prende il cacciavite, stringe una vite ed il macchinario riprende a funzionare. Fatto ciò presenta la fattura . 1.000 euro. Il titolare della ditta, che lo aveva osservato per tutto il tempo, si incazza come una iena e dice: “se lei vuole essere pagato mi deve giustificare perché io debba pagare 1.000 euro per un colpo di cacciavite”. Il tecnico gli risponde “il colpo di cacciavite è costato 1 euro. I rimanenti 999 euro sono per il fatto che so dove dare il colpo di cacciavite e lei no”.

Il nostro imprenditore mette la fattura nella cartella Spese per manutenzione, e ne parlerà la sera con gli amici. “Quel figlio di puttana… 1000 euro per un’ora di lavoro… però alla fine sono contento, è giusto pagare uno che sa lavorare, mi ha salvato da un bel guaio, chissà se avessi chiamato un incompetente a che punto sarei adesso…”

Non si chiede come fa quel tizio a saper risolvere i problemi. Aveva bisogno di quell’intervento, ha chiamato la persona giusta, per lui è finita lì.


Raccontiamo ora un’altra storia. In un altro paese, un piccolo imprenditore ha un problema con una macchina utensile, che gli è assolutamente indispensabile, e gli è costata un botto. Arriva nell’officina, e ci sono gli operai che ciondolano attorno alla macchina ferma, scuotono la testa, danno botte sperando che si rimetta a funzionare. Uno si avvicina con un attrezzo chiaramente improprio, comincia a ravanare a caso, il nostro amico deve tirarlo via di brutto prima che faccia un casino.

Va in ufficio, e cerca l’assistenza. Quel famoso omino di cui gli avevano parlato… Ma no, qui nessuno conosce un tizio simile. Chiama le officine specializzate, gli rispondono voci assonnate che chiaramente non capiscono di che cosa parla. Chiama l’assistenza della ditta che gli ha venduto la macchina, ma la producono dall’altra parte del mondo, la filiale locale è in mano a degli incompetenti.

Ah, ci fosse qui quell’omino! Ma non c’è.

A questo punto il nostro imprenditore comincia a farsi delle domande.

Quando le cose funzionano, nessuno si chiede perché funzionano. Funzionano, se non funzionano paghi uno perché te le faccia funzionare. Normale.

Ma se le cose non funzionano, e non c’è speranza che tornino a funzionare in tempo utile, allora uno comincia a chiedersi perché. Perché anche sventolando per strada 1000 euro non si trova nessuno capace di far funzionare quella macchina? Eppure in quel paese ci sono dei morti di fame che per molto meno ti venderebbero la moglie, la madre e tutta la famiglia, ma non c’è verso di trovare uno col cacciavite magico.

Ecco il grande paradosso. In un mondo dominato dal denaro, hai bisogno di qualcosa, ma non puoi averla neanche pagando.

Il nostro imprenditore, disperato, decide di andare a farsi una birra. Esce, si aggira per strade sporche, in mezzo a mucchi di spazzatura. Sono tutti morti di fame, ma tutti hanno la macchina, e guidano come dei dementi. Non rispettano nessuna regola, quando non riescono ad andare avanti – ed anche quando vanno avanti tranquillamente, suonano ostinatamente il clackson. In mezzo al traffico avanzano faticosamente i mezzi pubblici: emanano un fumo acre, mandano un penoso rumoraccio di ferraglia, sono molto mal ridotti, e non c’è nessuno che si occupi della manutenzione. Quando si guastano, e non è sufficiente dare qualche bottarella qua e là a caso per farli ripartire, vengono lasciati ad arrugginire nei cortili delle autorimesse.

Passa davanti ad una scuola elementare. Dalle finestre sente la maestra che pronuncia ad alta voce una frase dopo l’altra. Una scolaresca di forse 40 bambini ripete in coro le frasi della maestra. L’imprenditore guarda dalle finestre. L’aula è poverissima, anche se tenuta con una certa dignità. Una piccola lavagna, e qualche foglio di carta appeso alle pareti, con scritte e disegni infantili, come arredo didattico. I bambini non sembra che abbiano libri, al massimo, ma non tutti, un piccolo quadernetto, su cui scrivono a fatica con un mozzicone di matita. Il nostro imprenditore si allontana, seguito dal coro dei bambini che ripete le parole della maestra.

Il nostro imprenditore comincia a pensare che non sia un caso se nessuno sa riparargli la macchina. Se un paese ha una mentalità tecnologica diffusa, comportamenti razionali per educazione, una testa abituata ad affrontare i problemi, gente che si fa delle domande e si sforza di trovare una risposta, una scuola che offre stimoli e chiede iniziativa e comprensione, non saranno tutti geni, ma nel mucchio qualcuno che sa fare le cose salta fuori sempre.

Il nostro imprenditore pensa ai famosi 1000 euro. 1000 euro per una riparazione di un’ora, son tanti: ma son 1000 euro, non la fine del mondo. Visto e piaciuto, preso e pagato; ecco lì la macchina riparata, ed ecco qui la fattura.

Ma una società capace di produrre quegli omini col cacciavite, quanto costa?

Prove INVALSI, ovvero: Avete presente Cavalli-Sforza?

Vabbè. Diciamo che ce l’avete presente.

Allora facciamo un bel riassuntino, ma non si può sempre raccontare la rava e la fava, ci sono degli evidenti prerequisiti, si dà per scontato che il lettore abbia ben presente il concetto di famiglia linguistica, che abbia un’idea abbastanza chiara dell’indueuropeo e delle sue successive suddivisioni e ramificazioni, che più o meno abbia già sentito parlare delle lingue afro-asiatiche, altaiche, na-dene ecc.

Poi si passa alla genetica, DNA e compagnia bella, caratteri ereditari permanenti come i gruppi sanguigni, e caratteri di origine più recente, dovuti alle circostanze ambientali, come il colore della pelle ecc. In tutto questo discorso, avete capito benissimo, è implicita una critica dell’idea di razze umane, ma non c’è tempo per parlarne; abbiamo fiducia che il lettore ci arrivi da sé.

Passiamo poi alla correlazione fra la diffusione delle lingue, e la diffusione dei caratteri genetici. C’è un certo parallelismo, è chiaro, ma non sono esattamente la stessa cosa, siete d’accordo? I meccanismi non sono gli stessi, come non sono le stesse le velocità di evoluzione ecc. Insomma, qui si capisce dove si vuole arrivare, al concetto di etnia, ma non c’è tempo per fare tutta la chiacchierata, anche qui il lettore deve arrivarci da solo.

A questo punto è chiaro e lampante il motivo per cui molti, incrociando i dati della linguistica con quelli della genetica, tendono a riunire parecchie famiglie (l’indoeuropea, l’altaica, l’afro-asiatica, la dravidica, e ne ho sicuramente dimenticata quacuna) nel grosso tronco del “nostratico”. Ma perché fermarci qui? Insomma, è probabile che tutte le lingue del mondo, non solo le nostratiche, alla fin fine derivino da un’unica lingua madre (lo stesso discorso vale per le etnie, ça va sans dire).

Seguono ipotesi su dove e quando sarà nata questa benedetta “lingua madre”; ma avrete già capito che ci stiamo orientando verso l’Africa Centrale, circa 130.000 anni fa. Un po’ più complicato è stabilire la possibile origine dell’indoeuropeo: Vicino Oriente 10.000 anni fa? Oppure Asia centrale circa 7000 anni fa? Si impone una pausa di riflessione, per ben ponderare queste due ipotesi, ognuna accompagnata con diverse spiegazioni sulle modalità di diffusione, ad est (fino al tocarico, mica avrete dimenticato il tocarico!?) e ad ovest. Diffusione dell’agricoltura in seguito alla rivoluzione neolitica, oppure migrazioni di popoli grazie alla formidabile invenzione del carro su ruote? Al lettore l’ardua sentenza.

Non so se ho ricordato tutto. Comunque fermiamoci qua. Ora mettiamo tutta questa roba in una paginetta in formato A4 (non una riga di più, dobbiamo salvare le foreste sì o no?) e presentiamola come esempio di “divulgazione scientifica”.

Ah, dimenticavo: io mi sono sforzato di esporre tutta questa pappardella con un minimo di ordine, non so se ci sono riuscito, ma almeno mi ci sono sforzato, perché, grazie a Dio, io so scrivere; l’autore del prefato saggio invece ha lasciato tutto ben mescolato in un unico minestrone.

Occhèi? Occhèi.

Bene, adesso somministriamo questo bel saggio di “divulgazione scientifica” ai nostri ragazzi di Seconda Superiore, e con opportune e mirate domande vediamo che cosa hanno capito.


A questo punto, che posizione prendiamo nei confronti degli esperti dell’INVALSI? Pensate che un bel vestito di catrame e piume sia la soluzione idonea?

Testi digitali per la scuola #1

Premessa

Alcuni anni fa molti giornali si sono messi a regalare – o a vendere – insieme con le copie dei quotidiani, CD con materiali vari.

Questi CD si potevano dividere in due grandi categorie:

  1. semplici adattamenti a supporto digitale di opere già realizzate per la stampa (enciclopedie, collezioni di testi letterari di diversi autori ecc.)
  2. varia immondezza “multimediale” assolutamente priva di qualunque valore culturale.

Diciamo subito che dopo poco tempo la moda è passata, e quegli stessi giornali si sono messi a regalare – o a vendere – volumetti tradizionali su carta.

Questo dimostra una regola fondamentale. Quando cambia, in modo così radicale, lo strumento, cambia completamente tutto il procedimento di lavoro, ed anche la natura del prodotto. Non si può usare la catena di montaggio per fare canestri in vimini. Bisogna inventare un prodotto fatto apposta per uscire da una catena di montaggio. Se vuoi produrre canestri in vimini, devi farteli a mano, come si faceva una volta.


A cosa serve il PDF

La prima osservazione, quindi, è che un prodotto concepito per la stampa è bene che sia venduto su carta. Non ho ancora avuto il piacere di possedere un lettore di libri elettronici, ma dato che sono un feticista, penso che continuerò a preferire l’odore della carta stampata. In ogni caso, un lettore di libri elettronici non mi darà niente di più di quello che può darmi un libro stampato.

Questo dovrebbe anche porre un punto fermo sul problema del PDF. Il formato PDF, sia chiaro, è utilissimo; e ormai da parecchi anni è un formato aperto. Esistono moltissimi programmi di moltissime case, anche gratuiti, che permettono di realizzare e leggere PDF. Sul mio compiùter – non so sugli altri – la creazione dei PDF è sempre stata gestita direttamente dal sistema operativo. Se stampo un qualunque documento realizzato da qualunque programma, mi basta premere, nella finestrella che comanda la stampa, “Salva come PDF”, ed è fatta.

Non si sottolinea però a sufficienza che cos’è e a che cosa serve il PDF. Il PDF è essenzialmente un formato grafico. È vero che di solito contiene dei testi: ma i testi sono stati trasformati in immagini (immagini vettoriali, per la precisione). Il PDF è nato – ed è ancora adesso questa la principale applicazione – per gestire la stampa di documenti. Realizzo un documento (un volantino, una brosciùr, un libro) lo salvo come PDF, lo passo allo stampatore, e so che lui mi darà un pacco di carta con il documento esattamente come l’ho fatto io. Non ci deve più metter le mani. Non voglio che ci metta le mani. Una volta dovevo dirgli: l’ho fatto con XPress versione tale, l’ho fatto con quell’altro programma sul tale sistema operativo. Lui lo apriva e ci pasticciava dentro. Adesso non più.

Il PDF quindi è un documento non più modificabile, se non su aspetti marginali, e con grande difficoltà: perché è nato per non essere modificato.

Può anche essere visto su qualunque apparecchio elettronico, per esempio sullo schermo del mio compiùter; ed è esattamente quello che sembra: un libro (un manifesto ecc.) stampato, che però vedo sul monitor. Cambia lo strumento, però il tipo di fruizione rimane esattamente lo stesso. Una cosa di questo genere può, in certi casi, essere utilissima: dal punto di vista dei costi, del trasporto ecc. Non dal punto di vista dei contenuti o delle modalità di fruizione.

Naturalmente ogni strumento è in funzione del suo scopo specifico. Se mi servono dei dati che in qualche modo devo poter elaborare (per esempio, dei testi da modificare ecc.) il PDF non mi serve. È naturalmente possibile estrarre un testo da un PDF (se non c’è qualche barbatrucco che me lo impedisce: ma questi barbatrucchi dovrebbero essere proibiti per legge nel campo dell’editoria scolastica); non sempre l’operazione è agevole, soprattutto quando il documento ha un’impaginazione un po’ elaborata – a volte, basta un semplice testo su colonne per mettere i bastoni fra le ruote. È un po’ più complicato estrarre immagini. Non so per altri tipi di dati (basi di dati ecc.) ma credo che sia meglio lasciar perdere.

In una parola il PDF, come formato elettronico, può servire quando ho bisogno di avere esattamente le stesse cose che mi dava il libro tradizionale. Leggi da pagina tale a pagina tale. Niente di più, e niente di meno.


Ah, dimenticavo. I CD venduti – o regalati – insieme ai giornali, avevano anche un difetto fondamentale. In genere, per leggerli si doveva usare un programma, che era vincolato ad un particolare sistema operativo. Anche solo per sfogliare le pagine di un romanzo.

Devo avere ancora da qualche parte un vecchissimo CD prodotto dalla rivista Le Scienze, sull’origine dell’uomo. Sicuramente il più bel prodotto multimediale che abbia mai visto. Molto approfondito dal punto di vista scientifico, efficacissimo come presentazione. Un vero ipertesto multimediale – niente a che vedere con le ciarlatanate che si sono viste in giro in seguito.

Era progettato per funzionare con Windows 3.1. Funzionava anche con Windows 95, poi non l’ho mai più provato. Se mi interessa ancora la storia dell’origine dell’uomo, ho le mie brave annate delle Scienze ammucchiate su un canterano nel corridoio.


Dimenticavo ancora: spesso capita di trovare dei PDF che sembrano dei testi, in realtà sono semplici fotografie di una pagina stampata. Il testo compare come immagine raster. In genere, sono testi stampati passati allo scanner e distribuiti così, grezzi. In questo caso estrarre il testo è un lavoraccio. Io in questo momento sono impegnato a tirare fuori il testo da un librone in sei volumi realizzato in questo modo. Dal PDF devo estrarre le singole pagine come immagini, raddrizzarle un po’ (se si fanno alla veloce fotocopie di un volume un po’ spessotto, le colonne di testo solitamente vengono storte, una di qua, una di là), elaborarle con un programma OCR, correggere parola per parola. Un lavoro di questo genere, naturalmente, è impensabile per materiale didattico.

Segue

Alla fine, ce l’ha fatta

È ormai quasi una generazione che gli ominicchi di tutt’Italia ci pisciano addosso il loro ritornello: che cos’è la destra… che cos’è la sinistra… gnégné gnégné.

Lui, invece, non ha avuto dubbi. La destra Lui la conosce. Gli è bastato dire: o con me, o contro di me, e subito tutti si sono adeguati. La Destra? A Me!


Da mesi gli dicono di “fare un passo indietro”. Ma perché? Perché dovrebbe ascoltare quelli che gli chiedono di fare un passo indietro, ma loro, non avranno mai il coraggio di fare un passo avanti? Perché dovrebbe farsi sgambettare da Fini, un pirla che si è fatto sgambettare da La Russa?

Da settimane dicono: ci vedremo il 14 dicembre. A fare che? Era il 30 novembre che bisognava muoversi. Con le città in subbuglio, con i giovani in piazza. Ma no, il Capo ha detto: O con me, o contro di me, e tutta la truppa delle schiene di burro – anche il Capo delle schiene di burro, quello del “passo indietro” – ha detto sì. L’ha fatto lui, il passettino indietro. Sa benissimo – ne sono sicuro – che questo “sì” butta a mare tutti gli sforzetti, tutte le manovrine, tutti i ditini puntati degli ultimi mesi. Ma è stato più forte di lui. I fasci con la schiena di burro sono fatti così. Il 14 dicembre farà lo stesso. Altrimenti, sarà una seconda figura da pirla. Quello che butta la palla in rete quando l’arbitro ha fischiato la fine della partita da due settimane.


Un vecchio nostalgico che scrive su it.cultura.storia.moderato ne ha detta una forte: Mussolini non ha mai sparato sulla folla. Be’, è vero, non ne ha mai avuto bisogno. Sono le mezze calzette che sparano sulla folla. Le mezze calzette come il generale Adami Rossi, che dopo il 25 luglio spara sugli operai di Torino che festeggiano la caduta del Duce. O le mezze calzette come Fini, che quando ormai la Marcia su Roma ha vinto, e non ce n’è più bisogno, manda la truppa a devastare, di notte, la scuola Diaz, per far vedere che anche lui – anche lui sa usare il manganello.

Ma gli ominicchi, le mezze calzette, i fasci con la schiena di burro, sono in ogni epoca una buona metà della popolazione italiana. È genetico. Di grandi capi, di fasci che gli basta dire: o con me, o contro di me, ne salta fuori al massimo uno per secolo. E allora i fasci con la schiena di burro si piegano. Inutile prendersela, sono fatti così.


Uno che ha capito come stanno le cose è il Grande Capo dei Balenghi Padagni. Lui saprebbe fare un passo avanti. L’ha dimostrato una volta. Ma ha capito che non gli conviene. Che non ce n’è bisogno. Che gli basta suonare la trombetta: seguite Me, che seguo Lui! e poi passare alla cassa. Il vecchio studente della Scuola Radio Elettra, il capo delle Camicie Verdi, è il secondo vincitore di questa giornata, che ha visto, perdenti, da una parte l’Università, dall’altra il capo delle Camicie Stinte.


Il povero Monicelli, lui sì che aveva le palle. Uno dei pochi. Avesse avuto vent’anni di meno, è uno di quelli che ci avrebbero guidati in Montagna. A novantacinque anni, con il cancro, l’unica Montagna che è riuscito a scalare è stata la ringhiera del balcone. Ma l’ha fatto da uomo: niente piagnistei, niente messe, niente acque benedette in articulo mortis (perché… poi… non si sa mai… brrrrr…). Ma ugualmente ha dimostrato di essere un grande Resistente. Perché le palle, o le hai, o non le hai. È genetico. E se le hai, le hai sempre: anche a novanticinqe anni, e con il cancro.


Oggi e sempre Resistenza.

Soldi e graduatorie

È stata pubblicata con molto risalto l’ultima classifica delle duecento migliori Università del mondo. In queste duecento, neanche una è italiana.

Nessuno però sembra darsi la pena di capire con quali criteri è stata fatta questa classifica.

Trasformare la qualità in numeri non è un’operazione banale: lo sappiamo bene noi che lo facciamo per per mestiere.

In questo caso fortunatamente non è difficile accedere alla fonte e vedere spiegati questi criteri.

http://tinyurl.com/34hyfac

Ebbene, il bello è che alcuni di questi indicatori hanno un nome molto famigliare: i SOLDI.

Un criterio, per esempio, è il rapporto studenti / docenti. Avere molti insegnanti in rapporto agli studenti, è di per sé un fattore che fa salire nella graduatoria.

“ …This broad category also measures the number of undergraduates admitted by an institution scaled against the number of academic staff. Essentially a form of staff-to-student ratio, this measure is employed as a proxy for teaching quality – suggesting that where there is a low ratio of students to staff, the former will get the personal attention they require from the institution’s faculty….”

Un altro criterio è il rapporto fra il numero di ricercatori e il numero di docenti.

“…We believe that institutions with a high density of research students are more knowledge-intensive, and that the presence of an active postgraduate community is a marker of a research-led teaching environment valued by undergraduates and postgraduates alike…”

Naturalmente, “non ci sono pasti gratis”. Insomma, per fare una buona Università ci vogliono soldi. Più l’Università riceve soldi, più sale in graduatoria.

“…The final indicator in this category is a simple measure of institutional income scaled against academic staff numbers. This figure, adjusted for purchasing-price parity so that all nations compete on a level playing field, indicates the general status of an institution and gives a broad sense of the general infrastructure and facilities available to students and staff…”

Ma da chi ricevono soldi le Università? Da tanti soggetti, anche da privati. In tutti i paesi del mondo, le più importanti aziende private commissionano ricerca alle Università. E pagano fior di quattrini. È chiaro che là dove il sistema industriale è debole, come in Italia, dove ci si celebra il culto barbarico delle Piccole e Medie Imprese, come se fosse una bella cosa essere fuori da tutti i più importanti settori di alta tecnologia, questa fonte di reddito è asfittica.

“…Some 17.5 per cent of this category – 5.25 per cent of the overall ranking – is determined by a university’s research income, scaled against staff numbers and normalised for purchasing-power parity. This is a controversial measure, as it can be influenced by national policy and economic circumstances. But research income is crucial to the development of world-class research, and because much of it is subject to competition and judged by peer review, our experts suggested it was a valid measure….”

Insomma, da anni ci stanno raccontando che la scuola italiana (tutta, non solo l’Università) riceve troppi soldi, funziona male (lo dicono le graduatorie internazionali!), e quindi bisogna tagliare. Un po’ più di bastone, un po’ meno di carota, e vedrete che tutto funzionerà meglio!

È una balla.

Una scuola senza soldi, è una scuola che non funziona.

Lo dicono le graduatorie internazionali.

Produttività

Spesso nelle discussioni non ci si capisce perché non ci si mette d’accordo sul significato delle parole.

Una delle difficoltà più grosse, è che a volte certe parole hanno un significato molto diverso da quello che viene attribuito nel corso della conversazione comune.

Una delle parole usate peggio è “produttività”.

Solitamente a questa parola viene dato un significato di questo genere: se c’è un raccoglitore di pomodori che in un’ora raccoglie dieci cassette di pomodori, e un altro che ne raccoglie dodici, il secondo è più “produttivo”.

Se poi quello che ne raccoglie dodici, invece di chiedere quattro euro all’ora, si accontenta di tre, allora è più “produttivo” due volte.

Questo ragionamento non ha niente a che vedere con il significato proprio del termine “produttività”.

La produttività del lavoro è il rapporto fra il valore finale del prodotto e il costo complessivo del lavoro. Valore del prodotto / costo del lavoro. Una frazione, il cui risultato dipende dal numeratore e dal denominatore.

Se un raccoglitore di pomodori raccoglie pomodori più in fretta per una paga inferiore, quello che l’ha assunto può vendere i pomodori ad un costo minore. Su questo si basa la concorrenza tra produttori di pomodori. Abbattere i costi, per abbattere il prezzo del prodotto finale. Minore costo del lavoro, minore valore del prodotto finale. La produttività non è aumentata. Cala il numeratore, cala il denominatore, il risultato può addirittura diminuire.

Quand’è invece che il risultato cresce? Quando cresce quello che c’è sopra la linea di frazione, più di quello che c’è sotto.

Quand’è che il valore del prodotto aumenta di più del costo del lavoro? Quando la produzione si sposta verso settori tecnologicamente più avanzati, in cui il valore del prodotto dipende molto di più dagli investimenti in capitale fisso (macchinari, innovazione, tecnologia ecc.) che dal costo del lavoro.

Naturalmente, per investire in macchinari, tecnologia ecc. bisogna avere manodopera adeguata. Un’azienda che investirà molto in tecnologia avrà fra i suoi dipendenti molti ingegneri, e pochi raccoglitori di pomodori. Molta manodopera qualificata e ben pagata, e poca manodopera poco qualificata e mal pagata.

L’Italia, com’è noto, importa raccoglitori di pomodori, importa colf e badanti, ma esporta manodopera qualificata. Esportiamo laureati, e poiché i laureati che esportiamo vanno all’estero per vivere meglio di come vivrebbero in Italia, per trovare migliori condizioni di lavoro, non peggiori, vuol dire che noi esportiamo i nostri migliori laureati.

Gli industriali piangono, ma è un fatto che in Italia la produzione di diplomati e laureati bravi è superiore alla domanda da parte delle aziende.

L’Italia ha scelto di puntare sul contenimento dei salari: cioè, sul lavoro meno qualificato. Cioè sul lavoro meno produttivo.

Ci siamo nessi in un’assurda gara con i paesi arretrati a chi paga meno i propri dipendenti, cioè a chi abbassa la produttività del proprio lavoro.

Sul merito degli insegnanti

Si discute da tempo sul merito degli insegnanti, e sulla necessità di legare la retribuzione alla qualità della prestazione.

Ma in questa discusione mi sembra che si confondano due cose molto diverse, anzi, opposte.


1. Una cosa è il riconoscimento del merito, o qualità dell’insegnamento.

Tutti siano andati a scuola, e abbiamo conosciuto insegnanti migliori e peggiori: per cultura, per assiduità nel lavoro, per passione, per capacità di trasmettere non solo conoscenze ma l’amore per la conoscenza. È sicuramente una valutazione soggettiva, ma in ognuno di noi saldamente radicata.

Tutti noi sappiamo che fra i nostri colleghi ci sono dei migliori e dei peggiori, anche se in genere è una valutazione indiretta, non essendo se non in rare occasioni testimoni oculari della loro attività.

Si può formulare una procedura che porti da questa valutazione soggettiva, in gran parte puramente epidermica, ad un parametro, non dico oggettivo, ma almeno largamente condiviso, per cui il riconoscimento del merito di un collega non sembri per nessuno un ingiusto privilegio, ma sia per tutti uno stimolo a migliorare, e non generi invidia, ma un pochino di orgoglio professionale, che contagi anche quelli che non l’hanno conseguito?

Io non so come si possa arrivare a questo, ma certo, sarebbe una cosa molto bella.

Ebbene, un riconoscimento di questo genere sarebbe, io sono convinto, anche e soprattutto un premio per quanto di personale, di libero, di creativo un bravo insegnante mette nel suo mestiere. Non si può essere bravi insegnanti se non si è in primo luogo convinti del supremo valore della libertà d’insegnamento.


2. Una cosa completamente diversa è una retribuzione fondata su un sistema di incentivi. Dividere l’attività didattica in tante micro operazioni, in tanti micro obiettivi, e decidere di assegnare ad ognuna di queste particelle un valore monetario. Periodicamente si ripetono su queste larghe bande le querimonie di docenti che si lamentano perché devono correggere più compiti in classe dei colleghi, e vorrebbero che questa differenza venisse remunerata. Ognuno sa a che cosa porterebbe una simile incentivazione. Che subito ognuno di noi inonderebbe i ragazzi di temi ed eserciti e disegni non perché servono, ma perché per ogni compito sono tot soldini.

Lo stesso per ogni altra forma di incentivazione su aspetti parziali della didattica, oppure su aspetti parziali di valutazione dei risultati.

Se c’è una cosa in cui il mio modo di insegnare è cambiato profondamente e progressivamente nel corso degli ultimi quindici anni, è stata la crescente insistenza sulla produzione scritta, soprattutto nelle prime classi. All’inizio facevo i canonici tre temi tri/quadrimestrali, come avevo fatto io per tanti anni alle medie e al liceo. Poi ho cominciato ad aumentare. Da un paio d’anni, almeno nel primo quadrimestre in prima, la colonna dei voti di scritto sull’aletta a sinistra del registro non mi basta più, e devo creare altre due o tre colonne sul margine destro. Dieci, undici, dodici temi a quadrimestre!

Serve? Mah, continuano a scrivere come dei cani.

Supponiamo però che domani mi dicano che i miei allievi saranno sottoposti periodicamente a una batteria di test (ovviamente, oggettivi: cioè crocette) e che in base ai risultati di questi test varierà il mio stipendio. Pensate che continuerò a passare i pomeriggi a correggere temi su temi? Ma neanche per idea! Crocettate! Crocettate! Crocettate per la Patria, per il vostro futuro – e soprattutto per il mio stipendio! Regalerò a mie spese a tutti gli allievi un abbonamento alla Settimana Enigmistica!


3. Quello che voglio dire, è che mentre una valutazione del merito del primo tipo è una valutazione a babbo morto, che al massimo può funzionare come incoraggiamento a continuare su una strada già bella spianata, ma non modifica la pratica dell’insegnamento (se sono un insegnante “di qualità” vuol dire che sono già abbastanza bravo, no? e non saranno certo i valutatori a dirmi cosa devo fare!); una retribuzione ad incentivi provoca inevitabilmente una distorsione a monte nella pratica professionale. Come quei medici ospedalieri che sono pagati “a prestazione”, con la conseguenza che se entri in ospedale per una banale aritmia finisci senza neanche accorgertene su un tavolo operatorio dove ti sostituiscono la valvola aortica (cito casi reali e ben noti).

Certo, noi insegnanti per fortuna non maneggiamo protesi, ma in ogni caso, sono soldi buttati via, per farci lavorare peggio. Almeno di questo i nostri riformatori manageriali dovrebbero essere avvisati.



· libertà d’insegnamento: che non vuol dire far quel cazzo che ti passa per la testa fregandotene di programmi ecc. Questa è l’idea di libertà del bambino, che pensa di essere libero solo se può mangiare tutta la marmellata che vuole. Dovrebbe essere ovvio, ma un segno di quanto siano infelici i nostri tempi infelici è il fatto che un concetto così semplice debba essere costantemente ripetuto.
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L’umiliazione

In questi giorni nelle scuole italiane stanno girando i rappresentanti delle Case Editrici a proporre le novità per il prossimo anno.

È da loro, non dal nostro Ministro, che siamo informati sui programmi che dovremo svolgere.

I libri di storia dei Professionali, mi hanno spiegato, sono già stati riscritti e stampati seguendo la traccia dei programmi di storia dei licei. Anzi: la traccia di una “bozza” dei programmi dei Licei.

Far la bozza dei licei, immagino, non è stato molto difficile. In questa riforma, che è una vera rivincita postuma (almeno in parte, ammettiamolo, meritata) di Giovanni Gentile, il Liceo Classico torna a brillare di una luce non più offuscata da altri indirizzi di rango inferiore. Man mano che si scende dall’empireo, le cose si fanno più fumose e vaghe. Sugli altri indirizzi liceali mi sembra che si sia arrivati ad una definizione ancora provvisoria, ma almeno approssimativamente orientativa.

Per quanto riguarda tecnici e professionali, non c’è ancora nulla di chiaro. Non dico di certo, di definitivo. Solo di chiaro.

Per gli insegnanti di lettere, come me, non è un gran problema. La storia è sempre quella, e se devo finire il programma di prima superiore con Cartesio, oppure con Carlo Magno, oppure con Giulio Cesare, me lo possono dire anche il primo giorno di scuola. Ma penso che per la maggior parte delle materie di indirizzo non sia così banale.

Se volevamo una conferma che nella nuova Riforma gli istituti tecnici e professionali sono scuolette di poco conto, centri di addestramento destinati a produrre una pletora di pseudo diplomati usa e getta, be’, eccola.

Perfino durante il fascismo, la Confindustria, appena emanata la legge Gentile, insorse, chiedendo una totale revisione degli indirizzi più importanti per lo sviluppo tecnologico e industriale che allora aveva appena preso slancio. Dopo Bottai non è più stato possibile considerare l’istruzione tecnica e professionale come un settore residuale, per quei ragazzi che tanto sono teste di legno, e teniamoli legati a banchi finché non avranno l’età per prendere in mano un cacciavite.


La mattina dell’8 Settembre 1943, quando gli Italiani seppero dalla radio che non erano più alleati dei tedeschi a far al guerra agli americani, ma alleati degli americani a far la guerra ai tedeschi, almeno il trattato era stato firmato, alcuni giorni prima, da persone responsabili. Non furono informati dal panettiere del borgo che aveva sentito parlare di una “bozza” di armistizio.

La cosa più deprimente, è che la quasi totalità del corpo insegnante sembra rassegnata ad accettare questa situazione come normale, inevitabile. Il consenso per una Riforma che esiste solo in quanto annunciata in televisione, ma che entra in vigore prima ancora di essere stata scritta (anzi: “abbozzata”), sembra totale. Portiamo sulle spalle la nostra umiliazione come la chimera di Baudelaire, con la stessa ottusa indifferenza.

È possibile dirlo? (Piccolo coming out sul federalismo)

Non so se è possibile dirlo, ma anche se non è possibile, lo dico lo stesso.

Io sono contro il federalismo.

Non lo dico per astratti motivi ideologici.

Lo dico per tanti motivi storici e politici concreti, ma soprattutto per aver visto con i miei occhi la paurosa proliferazione, in nome della “sussidiarietà”, di piccole e piccolissime lobby, di piccoli e piccolissimi centri di spesa, di piccoli e piccolissimi centri di potere, che proprio perché numerosissimi, e piccolissimi, e placidamente immersi in quella palude grigia che si estende sempre di più tra pubblico e privato, sono al di fuori di ogni controllo, di ogni trasparenza, di ogni responsabilità.

Lo dico perché il federalismo, come si sta attuando tra noi, non si risolve in una semplificazione della macchina amministrativa, ma al contrario, nella moltiplicazione dei centri decisionali, e quindi di norme potenzialmente contraddittorie; e contemporaneamente resta in vita tutta la precedente macchina, a partire dalle province, enti di cui confesso di non essere mai riuscito a capire l’utilità.

Lo dico perché vivo la realtà della scuola, e lì è particolarmente evidente la totale confusione e sovrapposizione di competenze, tra progetti comunitari, regionali e provinciali; calendari regionali e provinciali e comunali e di istituto. Vedo la patologica proliferazione di “agenzie” di ogni genere; vedo che mentre si mette in discusione il valore legale dei titoli di studio, ad essi si vorrebbero sovrapporre “certificazioni” di ogni genere, rilasciate dagli enti più improbabili. Vedo il crescere incontrollato della neolingua della “sussidiarietà”, con alcuni vocaboli che dovrebbero far venire il brivido nella schiena di tutti benpensanti, come “surroga”, cioè l’idea che uno possa fare qualcosa che non è il proprio mestiere, al posto di qualcun altro (ma non è detto neanche che sia il mestiere di quell’altro). O “accreditamento”, per cui la scuola di Stato deve andare bene non allo Stato ma alla Regione, per fare cose che non si capisce bene a che titolo sono compito dello Stato – o forse della Regione.

Questa è una mia piccola presa di posizione personale, ma mi farebbe piacere sapere se qualcuno è d’accordo con me.

Perché non imparano?

Scrive Papi Boy su it.istruzione.scuola:

Il problema non è se sono più o meno intelligenti rispetto a 30 o 40 anni fa, il problema è che non gliene frega assolutamente niente di imparare.

C’è una sorta di stupefacente sordità, di assoluta incapacità a costruire un ponte fra sé stessi e ciò che gli viene insegnato.

In seconda ho parlato a lungo, in questi ultimi mesi, di Pirandello e Kafka. Ho insistito sul fatto che sono autori che parlano della vita quotidiana di persone comuni, dei più banali problemi dell’esistenza. Su Kafka, in particolare, insistevo sul problema del rapporto con il Padre (La sentenza, La metamorfosi). Mi sono spinto a fare allusioni decisamente scoperte, quasi offensive, a situazioni private di alcuni allievi. Ma quello che più di tutti gli altri rideva come un matto, dicendo che Kafka è un matto che parla di cose che non esistono (un uomo che diventa uno scarafaggio, ma quando mai!), è proprio il ragazzo di cui sappiamo che ha un rapporto spaventosamente conflittuale con il padre, e che proprio per questo motivo probabilmente abbandonerà la scuola prima della fine dell’anno.

Alla verifica finale ha consegnato il foglio bianco, gli ho messo 1. Ha accolto il voto con un sorriso beffardo.


Altra classe. Un allievo straniero, timido, spaurito, che non sa ancora bene l’italiano, ed è spesso vittima di crudeli scherzi da parte dei compagni, legge e riassume un articolo di giornale sul bullismo. “Il bullismo porta all’isolamento”, doveva scrivere. Invece di “isolamento” scrive “insolazione”.


Altra classe, altro allievo, mi è stata riferita: “Cosa vuol dire triangolo equilatero?” “Che ha quattro lati”.

Ma quest’ultima l’ho messa solo per ridere.