Sudan

Nella cassetta delle lettere (un ben strano modo di comunicare, vero?) ho trovato un messaggio di Emergency:

Sudan, disastro umanitario.

Una dottoressa di Medici Senza Frontiere parla di un bambino, nove anni, pesa 14 chili.

Un breve giro per il web e vengono fuori i numeri. La capitale è stata completamente rasa al suolo, forse 150.000 abitanti sono stati massacrati. Dieci milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case: un quinto della popolazione totale. Si stima che nel corso dell’anno forse due milioni e mezzo di loro potrebbero morire di fame. (Fonte: The Economis. Come sempre in questi casi, i numeri sono semplicemente stimati, quasi sempre sottostimati).

Nell’indifferenza globale.

Nemmeno un gesto da parte delle istituzioni internazionali. Totale disinteresse da parte dell’opinione pubblica. Penso che gran parte del mondo ignori l’esistenza stessa del Sudan. Sui politici non ho dubbi. Quanto al sistema dei media, ognuno può giudicare da sé.

No Jews, no news.

Con due click ho mandato il mio obolo.

Mi sono sentito più in colpa in quel momento, di tutte le volte in cui avevo semplicemente cestinato il messaggio.

Sudan
foto: UNHCR

Il peggior nemico

Anche se è passato qualche giorno, non posso fare a meno di segnalare la morte del peggior nemico del popolo palestinese.

IsmaikHanijeh

“L’ho detto prima, e lo ripeto ancora. Il sangue delle donne, dei bambini e degli anziani… non sto dicendo che questo sangue reclama i nostro aiuto, siamo noi che abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare lo spirito rivoluzionario dentro di noi, per spingerci avanti.”
Videomessaggio del 27/10/2923.

Ismail Haniyeh, capo di Hamas, terminato il 31/7/2024.

Due eventi in Europa

Parlamento Europeo

1. Il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che conferma la volontà di sostenere l’Ukraina, che sollecita l’autorizzazione al paese aggredito a colpire basi militari nel territorio del paese aggressore, che condanna la scelta del Presidente di turno dell’Unione di presentare proposte per la risoluzione del conflitto senza il sostegno dalla stragrande maggioranza dell’istituzione che lui dovrebbe rappresentare.

Si tratta di una risoluzione di indirizzo, diciamo pure, di schieramento, di grande importanza, ed è stata una buona idea tenerla al di fuori dei dibattiti e dei mercanteggiamenti sulla costituzione della nuova Commissione.

La risoluzione è stata approvata a larghissima maggioranza: 495 voti favorevoli (73%), 137 contrari (20%), 47 astenuti (7%). Al mondo è ora chiaro che questa è la posizione dell’Europa, votata da un Parlamento appena eletto democraticamente dai cittadini europei.

2. A capo della Commissione è stata rieletta Ursola von der Leyen, anche qui con una maggioranza, minore della precedente, ma in ogni caso sicura: 401 favorevoli (57%), 284 contrari (40%), 22 tra schede bianche e nulle (3%).

La famosa virata a destra dell’Europa non c’è stata, le tendenze variamente sovraniste, per quanto visibilmente cresciute, si sono chiuse da sé in un ghetto.

C’è qui da dire che Giorgia Meloni non ha ottenuto molto. Forte del risultato elettorale, sperava di essere l’ago della bilancia in un difficile equilibrio tra forze che non sempre si amano e soprattutto poco si fidano. Ma ha tenuto un po’ troppo i piedi in due scarpe: in Europa ha cercato di costruirsi l’immagine di leader di una destra responsabile e matura capace di dialogare con il centro; dall’altra, è rimasta il capo di una coalizione di governo troppo legata alle forze che hanno eletto il generale Vannacci e che dialogano con l’estremismo lepenista.

Non è stata sicuramente una buona idea chiedere il Commissario alla Concorrenza per l’Italia, un paese che proprio su questi tempi conta una lunghissima serie di richiami e procedimenti di infrazione. Una mossa che dava l’impressione sgradevole di voler utilizzare le istituzioni europee per coltivare i propri orticelli elettorali, a partire dai balneari.

Dunque, la nuova legislatura europea comincia nel segno della continuità, e della riconferma di un asse che va dai popolari ai verdi.

Riconoscere la Palestina come Stato

Il riconoscimento della Palestina come Stato è una decisione inevitabile, necessaria, urgente.

Si deve dare, con 77 anni di ritardo, attuazione alla risoluzione ONU 181 del 29 novembre 1947, sulla formazione di due Stati nel territorio dell’ex mandato britannico di Palestina: decisione rifiutata dal mondo arabo con una guerra rovinosa, le cui conseguenze tragiche si pagano ancora oggi.

Il riconoscimento della Palestina come Stato obbligherà la comunità internazionale e tutte le forze in campo a definire una volta per tutte i confini fra i due Stati, togliendo l’illusione, ancora coltivata da entrambe le parti, di uno Stato di Israele / di una Palestina araba “dal fiume al mare”, cioè su tutto il territorio dell’ex mandato britannico.

Obbligherà tutti a decidere chi legittimamente rappresenta la Palestina: come per ogni Stato del mondo, si dovrà individuare un unico soggetto politico col quale la comunità internazionale dovrà dialogare, e quest’unico soggetto politico dovrà assumersi la responsabilità di rappresentare tutta la Palestina, non una sua parte o una fazione.

Insomma, occorre finalmente uscire dall’ambiguità di una guerra fra uno Stato e un’entità non meglio definita, da tre quarti di secolo ancora in gestazione.

Una grande lingua e un piccolo potere

Targa tu e voi

Quand’ero giovane, uno degli episodi che si citavano per dimostrare quanto il fascismo, oltre ad essere stato un evento tragico, avesse anche lati di vera comicità, era la pretesa di sostituire il “lei”, come pronome di cortesia, con il “voi”.

Sostituzione che aveva comunque un qualche fondamento storico e culturale, poiché il “voi”, in italiano, si è sempre usato, ed in parecchi dialetti è l’unica forma ammessa. Ma faceva ridere che il Regime pretendesse di intervenire sulla lingua con apposito decreto ufficiale.

Ora un

Ora un Senato Accademico si è autonominato padrone della lingua italiana, ed ha varato, con voto quasi unanime, il decreto di sostituire il maschile con il femminile in una serie di situazioni, anche quando l’interessato sia un uomo. Cosa che, indipendentemente dalle motivazioni etico-politiche, è comunque un bell’esempio di delirio di onnipotenza.

si è autonominato padrone della lingua italiana, ed ha varato, con voto quasi unanime, il decreto di sostituire il maschile con il femminile in una serie di situazioni, anche quando l’interessato sia un uomo. Cosa che, indipendentemente dalle motivazioni etico-politiche, è comunque un bell’esempio di delirio di onnipotenza.

Tre guerre: Ukraina, Gaza, Sudan

1. La guerra in Ukraina è il passato.

Guerra a Ukraina

È l’ultima guerra del XX secolo, combattuta con ottant’anni di ritardo. Non c’è nulla, in questa guerra, che non si sia già visto nell’inferno del 1914-45.

Una smisurata volontà di potenza. Una paranoica sindrome di accerchiamento. Un potere autocratico all’interno, che sfoga le sue contraddizioni con l’aggressività all’esterno, e usa la guerra ai confini come propulsore della repressione all’interno. Non manca neppure il progetto di ricondurre le Terre Irrendente entro i sacri confini della Patria.

Lo stesso si può dire per le modalità di combattimento. Il (fallito) blitz di migliaia di tank contro la capitale nemica. Il (fallito) tentativo di sbarco nella zona di Odessa. Gli (inutili) bombardamenti terroristici contro le città e le strutture civili. Una (impotente) guerra di posizione nelle aree occupate: una fascia di territorio larga poco più di duecento km a ridosso del confine. Campi minati, villaggi rasi al suolo, migliaia di km di trincee. E alla fine, lo scivolamento verso l’idea goebbelsiana della “guerra totale”: la sistematica militarizzazione della Russia, con la decisione di aumentare nel 2024 le spese militari, già altissime, di un ulteriore 70%. Ma, nonostante l’enorme sproporzione di forze, la guerra rimane ferma, senza progressi significativi.

Date le premesse, questa guerra può terminare solo o con la vittoria militare della Russia, o con la vittoria militare dell’Ukraina. Se si arriverà alla trattativa, sperata e reclamata da tutti gli uomini di buona volontà, questa non sarà altro che la traduzione, nel freddo linguaggio della diplomazia, della situazione creatasi nel sangue e nei veleni dei campi di battaglia.

La prospettiva peggiore è certo quella di una vittoria militare della Russia. Non solo l’Ukraina si vedrebbe relegata ad un puro satellite del vincitore, nella migliore delle ipotesi in condizioni di sovranità limitata, ma l’oligarchia russa sarebbe incoraggiata a proseguire sulla strada intrapresa. Già oggi quasi tutte le risorse economiche del paese – in gran parte derivanti dall’esportazione di idrocarburi – sono volte ad alimentare la guerra, e, con oltre mezzo milione di soldati sotto contratto schierati lungo il fronte del Donbass, la guerra è la miglior prospettiva occupazionale per le giovani generazioni. Un simile futuro – un simile ritorno al passato – in un paese che ha centocinquanta milioni di abitanti, su una superficie superiore a quella di UE e Cina sommate insieme, rappresenta un rischio mortale a livello globale.

2. La guerra di Gaza è l’incognita del futuro.

Guerra a Gaza

Non solo non si sa chi vincerà, ma qualunque ipotesi sull’esito di questa guerra apre scenari terribilmente indeterminati.

La cosa peggiore, è che né Israele, né i Palestinesi hanno un progetto per il futuro. Entrambi viaggiano alla cieca, fra il fumo delle esplosioni e il pantano dei loro errori.

Israele ha due nemici: uno sono i Palestinesi; l’altro, trecento milioni di arabi, e due miliardi di musulmani, per molti dei quali israele è un corpo estraneo del mondo, che non dovrebbe esistere.

Anche i Palestinesi hanno due nemici. Uno è Israele, che non si è mai impegnato seriamente a cercare una forma di coesistenza. L’altro, sono trecento milioni di arabi, e due miliardi di musulmani, che in quasi ottant’anni non hanno mai mosso un dito per aiutare concretamente quei poveracci. Li hanno sempre solo spinti alla guerra. E soprattutto, non li vogliono a casa loro. La Cisgiordania, il Libano, la Siria sono stati in diverse occasioni teatro di terribili stragi di Palestinesi. L’assedio di Gaza è completato a sud ovest dall’impenetrabile confine di Rafa, la barriera più inamovibile, la roccia su cui l’Egitto ha posto le fondamenta per la sua politica nella regione.

Non si sa quali indicazioni, quali promesse abbia ricevuto Hamas per attuare l’attacco del 7 ottobre, ma l’unica spiegazione è che si sia trattato del tentativo di creare una svolta definitiva al conflitto, l’idea di produrre una rottura degli equilibri così forte da indurre il resto del mondo arabo-islamico a intervenire direttamente. Ma l’ultima guerra che ha coinvolto direttamente gli stati nella regione contro Israele è finita nel 1973. Dopo di allora, i diversi regimi, tutti più o meno dittatoriali, molti ferocemente spietati contro i loro stessi cittadini, come l’Iran, continuano a combattere per interposta persona: gli Huti, gli Hezbollah, e soprattutto i Palestinesi stessi, chiusi entro i loro ristrettissimi confini come topi in gabbia, con un nemico irriducibile di fronte e un muro invalicabile alle spalle.

Tanto gli Israeliani, alla ricerca di una vittoria militare schiacciante, quanto i Palestinesi, educati da generazioni alla prospettiva di un’impossibile ritorno alle terre perdute dai loro bisnonni, non hanno in realtà un progetto realistico del futuro. Sono quindi costretti a prolungare i combattimenti, tra distruzioni enormi, per non dover riconoscere che non sanno neanche loro per che cosa combattono.

3. La guerra in Sudan è l’eterno presente.

Guerra in Sudan

Uno dei paesi più poveri del mondo vive da sempre in uno stato di guerra semipermanente. Ricordo solo di sfuggita che il Sudan (in arabo “terra dei neri”, l’antica Nubia delle fonti classiche) fino a tutto il XIX secolo è stato il serbatoio da cui le bande di razziatori provenienti dall’Egitto prelevavano giovanissimi schiavi di entrambi i sessi da avviare ai mercati dell’impero ottomano, distruggendo e sterminando tutto ciò che non si poteva o non conveniva portare via. Negli ultimi decenni, due successive guerre civili, condotte con i metodi del più feroce conflitto etnico, sono terminate con l’indipendenza del Sud Sudan (2011). L’attuale conflitto vede contrapposte le forze armate del governo ufficialmente riconosciuto all’estero, e una struttura denominata “Forze di intervento rapido”, bande armate prive di alcun riconoscimento ufficiale, ma assai ben attrezzate e spietatamente determinate. Entrambe le fazioni sono state responsabili in passato di enormi devastazioni e stragi nella parte meridionale del paese, dove è presente una minoranza cristiana.

L’attuale guerra, cominciata nell’aprile del 2023, è quindi la fase più recente di secolari sofferenze di un paese dominato dall’estrema miseria e da feroci stragi etniche, dove gruppi dirigenti privi di legittimità e di consenso gareggiano fra di loro a chi impone il maggior terrore.

Il Sudan vive nel quasi totale isolamento rispetto al resto del mondo. Non si hanno notizie certe sull’andamento della guerra, né soprattutto sul numero delle vittime. Si parla di decine di migliaia di morti fra la popolazione civile, e di alcuni milioni di sfollati. Ma è la natura stessa del paese a impedire riscontri oggettivi, e i dati, soprattutto nelle campagne e nelle zone più isolate, sono sicuramente molto più alti di quelli che filtrano all’esterno

Mentre le altre due guerre hanno avuto fin dall’inizio una fortissima copertura mediatica, e sono tutt’ora oggetto di opposte valutazioni storiche, politiche e strategiche, il conflitto in Sudan non sembra destare il minimo interesse, né alcuna partecipazione emotiva. Niente foto di bambini, niente storie di abusi, niente denunce di crimini, niente servizi giornalistici, niente testimonianze di personale straniero, niente appelli presso le istituzioni internazionali. La guerra nel Sudan non è in grado né di suscitare emotività, né attirare solidarietà, né di alimentare partigianerie politiche, manifesti di denuncia, dimostrazioni di piazza.

È sempre stato così, e temo che continuerà ad essere così per un futuro indeterminato.

Guerra a Gaza: e poi?

Gaza

A un mese dall’inizio di questa guerra, la situazione non sembra presentare possibilità di esito positivo.
Il doppio compito che si è assunto Israele: liberare tutti gli ostaggi, eliminare tutti i terroristi, è chiaramente irraggiungibile. Il costo da pagare, sia in termini di vittime, sia di deterioramento dei rapporti interni ed internazionali, è altissimo.
Dal punto di vista di Hamas, sul momento è una vittoria completa. Nella logica del terrorismo, che non è la logica degli Stati, le vittime, anche le vittime civili, anche le vittime del proprio stesso popolo, sono punti a favore. Nella logica degli Stati, sono tutti elementi a sfavore. Questa è la grande asimmetria alla base di questo conflitto.
Al di là di questa situazione di vantaggio, non è chiaro però quale potesse essere l’obiettivo di Hamas. Poiché si è trattato di un attacco accuratamente pianificato, con l’impiego di grandi mezzi, vasto personale, determinanti appoggi esterni, scelta molto precisa del momento migliore, capacità di sfruttare i punti deboli del nemico ecc. è evidente che doveva esserci un progetto strategico di vasta portata, con la prospettiva di imporre una svolta radicale al conflitto.
Non è possibile sapere esattamente quale fosse questo obiettivo. Ma SE l’obiettivo era l’allargamento del conflitto, creare il punto di rottura per una guerra generale, quest’obiettivo non è stato raggiunto. Per lo meno, non ancora.
L’ultima guerra fra Stati nella regione è finita cinquant’anni fa (le due “guerre libanesi” del 1982 e del 2006 hanno coinvolto prevalentemente formazioni “fluide” come Hezbollah, solo in modo marginale l’esercito statale libanese). Da mezzo secolo la scelta strategica di tutti gli Stati “alleati” dei Palestinesi è stata “armiamoci e partite”. Trecento milioni di Arabi, due miliardi di Musulmani non hanno mai mosso un dito, non hanno mai dato un centesimo, per migliorare le condizioni di vita dei Palestinesi. Li hanno sempre solo spinti alla guerra, al grido di “la vostra lotta è la nostra lotta”. In questo mezzo secolo i Palestinesi sono stati le vittime sacrificali di un’enorme macchina di consenso interno in altri paesi; quella che ancora in questi giorni riempie di folle furibonde le piazze di tre continenti.
Erano in molti ad aver bisogno di questa ventata di unanimismo. La maggior parte degli Stati intervenuti come “facilitatori” esterni, a partire dall’Iran, hanno enormi problemi di coesione interna. Anche un attore che non appartiene all’area arabo-islamica, la Russia, deve far fronte ad una crisi che per ora non si manifesta apertamente, ma prima o poi esploderà, in modo tanto più violento quanto più se ne rimanda la maturazione. Altri attori importantissimi, non coinvolti direttamente, l’India e la Cina, per ora stanno a guardare senza intervenire: non hanno niente da guadagnare da questa guerra, e fanno ben attenzione a non correre rischi inutili.
Nessuno, per il momento, sembra avere la minima intenzione di mettere i piedi direttamente sul terreno di questo scontro. E i più decisi a starne fuori sono gli Egiziani, il cui ruolo è sempre sicuramente decisivo. L’Egitto è l’unico paese, oltre a Israele, a confinare con Gaza, e da vent’anni la sua posizione è sempre stata fermissima: evitare in ogni modo un collegamento operativo tra Hamas e i Fratelli Musulmani. Anche a costo di chiudere Gaza in un blocco anche più rigido di quello imposto da Israele. Ultimamente l’Egitto ha permesso l’uscita di ottanta (80!) Palesinesi gravemente feriti, e di circa duecento con doppio passaporto; poi il varco si è chiuso con inesorabile fermezza.
L’azione di Hamas, sul piano tattico, è stata un’iniziativa esemplare per efficacia e tempestività. Sul piano strategico, è stata un’azione largamente eterodiretta. In prospettiva, un’azione senza un esito prevedibile.
Tanto Hamas quanto Israele si troveranno prima o poi di fronte ad una domanda molto difficile: che fare DOPO?

Benjamin Netanyahu

Benyamin Netanyahu
Benyamin Netanyahu durante il servizio militare

Quando nel mondo sale la tensione, prima o poi la Storia trova l’uomo giusto per fare la cosa sbagliata.

In questo caso, l’uomo è Benjamin Netanyahyu.

La sua avventura politica è qualcosa di classico. Un uomo forte, con una brillante carriera militare alle spalle, che sale al governo promettendo al suo popolo “sicurezza”. E naturalmente, lascia dietro di sé solo macerie.

La sua azione distruttiva sulla società israeliana è esemplare. Come tutti gli uomini di destra, ha cercato consensi nella destra più estrema. Ha stretto alleanza con i fanatici religiosi, tradendo l’impostazione laicista dei Fondatori. Ha incoraggiato i coloni all’occupazione illegale di terre in Cisgiordania, mettendo sempre più in imbarazzo gli alleati di Israele nel mondo. Ha iniziato un braccio di ferro con l’opinione pubblica e il Parlamento per combattere una sua guerra personale contro la magistratura, cosa che è il tratto più caratteristico di tutta la destra contemporanea, da Berlusconi a Trump, da Orbán a Meloni a Renzi. In questa battaglia è entrato in collisione non solo con il mondo progressista e democratico, ma anche con fette dell’establishment e, pare, addirittura delle Forze Armate: cosa che probabilmente non è estranea a queste ultime vicende.

E soprattutto, ha commesso il peggior errore che possa commettere un uomo politico: di fronte al problema più grave, non ha cercato di risolverlo, ma l’ha semplicemente rimosso.

Il problema di Israele sono i palestinesi. Non è il caso qui di ripercorrere tutta quella storia tormentata, mi limito a dire, che se hai un nemico, o decidi di combatterlo, o cerchi di venire ad un accordo. Ci sono diverse circostanze e motivazioni che possono spingere in una direzione nell’altra, ma un qualche progetto lo devi avere. Netanyahyu si è comportato come se il problema non esistesse, come se i palestinesi non fossero un problema. Al massimo, una banale questione di ordine pubblico. In Cisgiordania si agitano? Lanciano sassi? Ci pensa la polizia. Da Gaza partono missili? Spariamo qualche missile in risposta. Non c’è da preoccuparsi. Ordinaria amministrazione.

Tutti si sono chiesti come sia possibile che i mitici servizi segreti israeliani non abbiano avuto sentore dell’attacco imminente. Be’, la spiegazione è quella di sempre. Se chi sta in alto pensa che non ci sia da preoccuparsi, che non potrà succedere nulla di grave, chi sta sotto si deconcentra. I controlli più accurati, le procedure più sofisticate diventano banale routine. Ti passa sotto il naso un elefante, al massimo gli chiedi la carta di circolazione.

Il risultato? Mentre il governo pensava alle sue riformette, ai processi da bloccare, ai giudici da controllare, Hamas metteva in atto l’attacco più devastante di tutta la storia di Israele.

Come non aveva un progetto quando pensava che le cose andassero bene, il governo continua a non avere un progetto ora che è in guerra. Invadere Gaza, ma per fare cosa? Scavare nella sabbia, per cercare gli ostaggi nascosti in chissà quale galleria? Ammazzare gli uomini di Hamas, un esercito che non ha divise né mostrine? e tutto questo nell’area più popolata del mondo? e soprattutto, contro un esercito che, come l’ISIS, esalta il martirio, che non dà il minimo valore alla vita, né alla propria, né a quella del nemico, né a quella del suo stesso popolo?

Si discute chi sia il vero responsabile della strage all’ospedale, ma in ogni caso si tratta della prova dell’impossibilità di fare una guerra in quella zona. Netanyahu ha infilato il suo paese in una trappola da cui nessuno sa come potrà uscire.

Tutto questo, in un quadro internazionale già avvelenato. In quasi due anni di guerra, Putin finora non ne ha azzeccata una. Ha commesso un errore disastroso dopo l’altro. La Russia si trova in condizione di quasi totale isolamento. Da quel sabato, le cose sono cambiate. La relazione tra le due crisi è rappresentata dall’Iran, l’unico paese che fornisca un effettivo aiuto militare alla Russia, e il principale sponsor (e probabilmente non solo sponsor) di Hamas. Per la prima volta dall’inizio della guerra inm Ukraina, Putin può registrare, anche se non per merito suo, un punto di vantaggio.

L’asse Mosca – Teheran – Gaza non ha, ovviamente, alcuna chance di vincere la sua guerra, ma avrà ancora per lungo tempo agio di combinare guai immensi.

Guerra Hamas-Israele: quando l’imprevedibile è prevedibilissimo

In genere le guerre le vince non chi ha le armi più potenti, ma chi ha il miglior progetto politico.

Ultimamente non sembra che Israele abbia un grande progetto politico.


Attacco Hamas
L‘attacco Hamas a Israele. Foto Al Jazeera.

Per decenni i Palestinesi sono stati carne da cannone per i diversi poteri presenti in Medio Oriente. Dopo il rifiuto della deliberazione ONU sulla costituzione di due Stati, sono vissuti in un limbo giuridico, continuamente spinti al conflitto da messaggi illusori che promettevano un ritorno sulle loro antiche terre con le armi in pugno. La questione palestinese è stata agitata da diversi poteri dittatoriali, per tenere alta l’esaltazione nazionalista e religiosa, e con l’illusione di creare guai all’Occidente. Questo ha portato ad un continuo degrado della loro situazione, non lasciando altra prospettiva se non quella di un’impossibile eliminazione dell’“entità sionista”. Per Israele questo è stato il pretesto di un graduale allargamento del territorio, pagato però al prezzo di una continua insicurezza.

Col nuovo secolo la situazione si è ulteriormente aggravata. Gli stati della regione hanno visto un costante deterioramento della loro situazione interna e delle loro relazioni internazionali. Le “Primavere Arabe” invece di portare ad uno sviluppo democratico, hanno dato vigore a vari movimenti islamisti: ma la democrazia è un sistema eminentemente laico, non è un progetto che si realizza “in nome di Dio”. La confusione che ne è seguita, ha portato poco per volta a rendere meno importante la questione palestinese. I conflitti che ne sono seguiti avevano come obiettivo il potere nei diversi Stati arabi, e la guerra dell’ISIS ha totalmente ignorato i Palestinesi e i loro problemi. La Palestina poco per volta è uscita dall’attenzione del mondo.

Questa sarebbe stata l’occasione per Israele di proporre un piano coraggioso di normalizzazione dei rapporti con i Palesinesi. Piano sicuramente difficile, anche perché la rappresentanza politica dei Palestinesi è piuttosto evanescente e debole là dove la questione delle occupazioni illegali è particolarmente grave, mentre a Gaza, da cui Israele è uscito nel 2005 con l’evacuazione forzata di 800 coloni illegali, l’organizzazione radicale islamista Hamas prendeva il potere, iniziando una campagna di attacchi contro Israele seguiti da violente rappresaglie.

In Israele è maturata l’illusione che la situazione potesse durare all’infinito: stati arabi al collasso, Palestinesi di Cisgiordania impotenti e frustrati, Gaza nelle mani di un gruppo terrorista impresentabile, capace solo di provocare molti più danni ai Palestinesi stessi che agli Israeliani.

Benjamin Netanyau è andato al potere promettendo agli Israeliani di mantenere la sicurezza con la forza. Ma una brillante carriera militare non garantisce la capacità di elaborare un una strategia politico-militare efficace a lunga scadenza: anzi, in genere, è il contrario.

Netanyau ha commesso una lunga serie di errori. Si è cullato nell’illusione di tenere sotto controllo i Palestinesi col pugno di ferro. Ha coinvolto nel potere gruppi religiosi radicali (ma di nuovo: la democrazia è incompatibile con il fanatismo religioso). Ha sostenuto apertamente le occupazioni illegali di territorio in Cisgiordania, erodendo le fondamenta giuridiche stesse dello stato di Israele. Ha avviato un’inutile e contestata riforma della giustizia, alimentando il sospetto che si volesse mettere sotto controllo la magistratura per proteggere situazioni di corruzione. Una situazione senza via d’uscita. Alla fine, con un contrappasso esemplare, è andato a sbattere proprio contro un attacco militare assolutamente prevedibile nella sua imprevedibilità.

Insomma, come sempre, l’estrema destra ha fallito clamorosamente proprio nella sua promessa più forte: la sicurezza.

Adesso non so cosa succederà. Il mio augurio è che qualche persona ragionevole in Israele si faccia avanti per rimediare a questo enorme disastro: ristabilire la democrazia, ristabilire l’indipendenza della magistratura, ristabilire la laicità dello stato, dare ai Palestinesi una qualche prospettiva di uscire da uno stato di guerra permanente.