Una nazione per caso – seguito della discussione

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Poiché la → discussione in proposito del libro di Tino Vittorio è proseguita un pezzetto, con l’intervento di un nuovo interlocutore, per completezza ne riporto alcuni momenti. Preciso che non mi sento minimamente autorizzato a interpretare il pensiero del mio interlocutore, che quindi indico con le sole iniziali, e di cui riporto alcune frasi solo come collegamento alle mie risposte. Qui mi limito ad aggiungere alcune mie riflessioni per completare il mio pensiero, che comunque, per una piena comprensione, richiederebbe la lettura dell’opera di Tino Vittorio.


A.L.noto l’assenza di intelligenza della storiografia che è un sapere per eccellenza revisionista.

Maurizio Pistone: Dire che la storia è “revisionista” è come dire che la politica deve fare le “riforme”. È dire tutto e niente. La storia, come ogni forma di scienza, deve continuamente ricercare nuovi dati, stabilire nuove relazioni fra i dati, costruire nuovi schemi di interpretazione di queste relazioni. Ma questo non significa che deve partire programmaticamente alla ricerca di argomenti per contrastare la “versione ufficiale”.

La storia delle diecimila piastre, se fosse vera, sarebbe un dato interessante che andrebbe ad arricchire un quadro già ampio e complesso – non sarebbe sicuramente “la spiegazione” della caduta del regno borbonico: è una somma con cui all’epoca ci si poteva comprare una bella proprietà immobiliare, non certo un regno. Ma il problema è il ragionamento che sta alla base, che è lo stesso che vediamo comparire tutti i giorni nelle discussioni “alternative”: è il contrario della “verità ufficiale”, quindi è vero.

Tino Vittorio non fornisce nessun dato che confermi che il Piemonte degli anni ‘50 del XIX secolo fosse una “colonia” della Francia, né che la sua politica fosse decisa a Parigi; si limita a raccogliere giudizi dei personaggi più disparati che lo affermano. Poi, essendo uno storico più serio di quanto vuol sembrare, dice che non è vero, che in realtà le cose sono andate in un modo che non corrispondevano assolutamente a quello che la Francia prevedeva e voleva. Di qui l’idea di una Unità “per caso”.

L’Unità d’Italia non si è realizzata per una cospirazione, né per un imprevisto coup de dés; si è realizzata perché la forma normale della società europea tra XVIII e XIX secolo era lo Stato nazionale. Tuttavia, “perché il nostro libero arbitrio non sia spento”, la Storia non marcia da sola, ma marcia con le gambe degli uomini. Allora è da chiedersi non perché il progetto nazionale si sia realizzato, ma perché sia stata proprio la dinastia meno nazionale d’Italia a realizzarlo; una classe dirigente di tradizioni ultraconservatrici, a capo di un paese non certo fra i più progrediti.

Anche qui, è lo stesso Tino Vittorio a fare metà del lavoro, spiegando in modo molto convincente perché non è stato il Regno del Sud (e non riporto qui la spiegazione, che è molto interessante, ma piuttosto lunga: meglio leggerla direttamente nel volume citato).

Sarebbe da spiegare piuttosto perché non è stato il Papa, come molti, non necessariamente cattolici, auspicavano, o per lo meno ritenevano plausibile. Non sono in grado di dare una risposta pienamente argomentata e convincente; ma credo che siamo tutti d’accordo a dire che a Pio IX l’Unità d’Italia non interessava per niente.

Rimane la nostra dinastia di montanari. Abituati da quasi un millennio alla lotta per la sopravvivenza, ad un certo punto hanno annusato l’aria, e hanno capito che il vento era cambiato. Alla stazione un treno stava scaldando le macchine, con la ciminiera che già sbuffava e sibilava: il treno della Rivoluzione. Ed hanno capito che l’alternativa era chiara: salire su quel treno, o esserne travolti. Ed hanno deciso che il modo più efficace per salire sul treno, era mettersi direttamente ai comandi. Guerra contro l’Austria!, gridava Cavour; oppure fra due settimane avremo la Repubblica a Milano, a Genova, e molto probabilmente a Torino. È stata una scelta molto azzardata; hanno rischiato seriamente di rimetterci le penne; nel 1849, dopo Novara, nessuno avrebbe scommesso un baiocco sulla sopravvivenza del regno sardo-montanaro. Ma alla fine, come capita spesso nella storia, chi si è preso tutti i rischi ha vinto; chi ha pensato che fosse più prudente aspettare per vedere come buttava, è finito a gambe all’aria.

Resta da discutere come mai non ha funzionato l’altra opzione, questa sì, importante, e sostenuta da gente almeno altrettanto determinata, se non di più, dei sardo piemontesi: l’opzione democratico-repubblicana. Ma abbiamo visto che non ha funzionato. Quando scoppiano le rivoluzioni a Venezia e a Roma, il Piemonte interviene, avendo già subito una sonora sconfitta, ed avendo tutte le probabilità contro. Da una parte, si può dire che Carlo Alberto e Cavour non volessero cedere i comandi della locomotiva a Mazzini e Garibaldi; una motivazione egoistica. Ma rimane il fatto che gli interessi terreni hanno anche bisogno di una benedizione spirituale. Il Piemonte da pochi mesi aveva innalzato il tricolore; bisognava dimostrare che quella bandiera non era il segno di una scelta opportunistica, né l’emblema di pochi “intellettuali” illusi, di fanatici settari, di cupi briganti; era un progetto verso il quale potevano convergere forze molto diverse, con motivazioni anche molto discordanti. E la quasi totalità del movimento democratico ha capito che quella era la scelta giusta. Dopo il 1849, Mazzini torna a Londra, Cattaneo emigra in Svizzera; per tutti gli altri, i giochi ormai si fanno a Torino.

Naturalmente, tutti hanno diecimila buone ragioni per criticare l’Unità così come è stata realizzata. Ma rimane il fatto è che si è realizzata così; e se qualcuno aveva altre idee, aveva solo da metterle in atto prima.

A.L. Il Piemonte non era una colonia francese. Vero. Era una caserma francese. Ma il problema dell’Ottocento mediterraneo (con ricaduta nell’Asia del “grande gioco”) era il controllo del collasso dell’impero ottomano su cui stavano in agguato austriaci filoinglesi e russi panslavisti filofrancesi. Russi balcanici turchi francesi austriaci ungheresi e inglesi sono i protagonisti di quella questione d’Oriente. La nostra penisola era un’espressione geografica. Al Piemonte montanaro e casermesco interessava soltanto il lombardoveneto. Alla Francia interessava uno stivale in tre macroregioni con a capo il Papa, all’Inghilterra che aveva il dominio del Mediterraneo da Malta a Gibilterra con il controllo dell’istmo di Suez premeva il quieta non movere, preoccupata però dei vantaggi e degli affari territoriali che i francesi realizzavano con i piemontesi (Nizza Savoia e boatos sulla Sardegna) e della rigidità dei Borbone foriera di convulsioni a soluzione murattiana o francofila…

Maurizio Pistone 1. Dire che il Piemonte fosse una caserma francese, è per lo meno una frase azzardata. Non lo poteva essere per la storia stessa della dinastia Savoia, che se era riuscita a sopravvivere per ottocento anni, è proprio perché aveva sempre seguito una regola: approfittare di ogni congiuntura internazionale per ottenere vantaggi, ma non legarsi mai ad un alleato fino al punto da permettergli di comportarsi da padrone; anche pagando un prezzo altissimo, e correndo il rischio di sparire, com’era capitato nel 1706. L’unica volta che la dinastia non ha seguito questa regola, ed ha aspettato troppo a mollare l’“alleato”, è stata la sua fine, e l’ultimo Savoia è morto in esilio ad Alessandria d’Egitto, nonostante il sostegno plebiscitario dei meridionali al referendum del ‘46.

2. Sicuramente l’idea di partenza, nel decennio precedente, non era quella dell’Unità d’Italia. La conquista del Lombardo-Veneto era già un obiettivo enormemente ambizioso, anzi, un totale sconvolgimento degli equilibri che si erano formati in Europa negli ultimi quattrocento anni. Ma di nuovo, è Tino Vittorio a venirmi in soccorso. È molto divertente quando racconta che a Plombières Cavour riesce a rifilare al povero Napoleone III un autentico bidone, un progetto di tre Italie, a cui ormai non credeva più nessuno. Quando il francese se ne accorge, si tira indietro, suscitando l’ira di Cavour, che vaneggia di continuare la guerra da solo. La conquista della sola Lombardia era già un colpo formidabile, ma ormai la valanga era in movimento, e nessuno poteva fermarla. Una piccola truppa eterogenea e male armata manda a catafascio il più potente Stato italiano; tutti gli altri Stati crollano come birilli. La guerra contro l’Austria era costata decine di migliaia di morti; il resto è una passeggiata. Vittorio Emanuele II parte da Torino ed arriva a Napoli senza incontrare resistenza, a parte qualche irriducibile papalino nelle Marche; a Gaeta deve chiedere ai garibaldini che per cortesia si tirino da parte, in modo che l’impresa gli dia quell’indispensabile, anche se militarmente del tutto inutile, onore delle armi, altrimenti gli sembrerebbe di fare, come si dice a Torino, la figura del “cicolaté” (cioccolataio).

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