Una nazione per caso

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Le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia non sono state, purtroppo, occasione di un serio riesame di quel grande evento, a cui è legata la nostra attuale identità più di quanto solitamente si pensi.

In compenso, non sono mancate le prese di posizione in senso fortemente polemico e negazionista. Una di queste, che all’epoca non avevo seguito, ma che mi è stata riproposta da una corrispondente su una nota rete social, è Italian Serendipity di Tino Vittorio, Bonanno Editore 2012.

Il titolo è esplicativo della tesi sostenuta. Secondo l’Autore, l’Unità d’Italia non è stato il prodotto di un progetto politico, ma il risultato puramente casuale e del tutto inatteso di una serie di circostanze, prevalentemente di origine esterna, e di alcune scelte occasionali di soggetti piuttosto disparati.


Il testo si presenta dunque esplicitamente, anzi, orgogliosamente, inserito in un filone di letteratura revisionista. E del revisionismo storico ha il tratto più immediatamente riconoscibile, la polemica contro la “storiografia ufficiale”, presentata come un blocco monolitico tutto intriso di retorica celebrativa, in piena logica “amico/nemico”. Questo è anche il tema sostenuto con energia dal prefatore, tale Ivo Flavio Domenico Abela, il quale contrappone l’opera in questione addirittura alle esibizioni televisive di Roberto Benigni – e non ho memoria di altri libri di storia a cui si assegni un così bizzarro interlocutore.

Il tema della “scienza ufficiale” è il chiodo fisso di tutte le correnti culturali “alternative”: degli storici revisionisti come degli antivaccinisti, dei riformatori monetari come dei creazionisti. È un fantoccio polemico la cui inconsistenza salta subito agli occhi: anche senza parlare della scienza accademica, io ricordo benissimo, come studente e come insegnante – anche se è un po’ di anni che sono al di fuori della scuola – i libri di storia che hanno capitoli specifici sulla lettura critica del Risorgimento come “rivoluzione mancata”, dell’Unificazione come “conquista regia”.

Questo errore di fatto porta ad uno dei grandi errori logici su cui è costruita l’opera. L’Autore prende in esame tutte le voci critiche del Risorgimento, ma non sembra rilevare che si tratta in gran parte di voci interne al movimento risorgimentale. Supponendo il mondo nettamente diviso in “storiografia ufficiale ed encomiastica” da una parte, voci “discordanti e negative” dall’altra, si sente autorizzato ad arruolare automaticamente nella seconda truppa tutti coloro che non appartengono alla prima – ma la prima è, appunto, un fantoccio che si è costruito lui. È un’operazione banale tipica di quel genere letterario: si denunciano gli avversari come sostenitori di una leggenda idealizzata, li si deride come “anime belle” o tromboni adulatori, ed ogni volta che il discorso cade sulle miserie di questo mondo, ci si autoattribuisce un punto a favore.


Mi preme però dire che l’Autore è tutt’altro che un volgare raccoglitore di pettegolezzi. La sua ricostruzione, per quanto, secondo me, viziata da gravi errori logici, ha un suo fascino, e non può non suscitare un impulso di divertita simpatia la sua spudorata esibizione di clamorose scorrettezze storiografiche.

Fin dalle prime pagine, egli spara sul lettore uno dei suoi pezzi più forti: Garibaldi va in Sicilia carico di oro elargitogli dai suoi sostenitori inglesi, i quali lo manovrano per togliere di mezzo l’ingombrante concorrenza del Regno delle Due Sicilie. L’Autore avverte subito che di quest’oro, di tutta questa operazione che coinvolge poteri finanziari e servizi segreti, non esiste la minima traccia documentaria. Ecco la prova, dice trionfante, che si trattava di un’operazione segreta! Una simile dichiarazione di fede cospirazionista non può non mettere di buon umore.

Vediamo altri particolari di questa operazione “segreta” – che però sembra sia nota a tutti. Appunto perché si deve mantenere il segreto, il pagamento non viene effettuato con monete europee, che sarebbero, come si dice oggi, facilmente “tracciabili”, ma in moneta dell’Impero Ottomano: precisamente 10.000 “piastre” d’oro. In realtà da una quindicina d’anni nell’Impero ottomano la moneta di riferimento non era più la svalutatissima “piastra” (kurush), ma la “lira” (chiamata proprio così), coniata in oro o argento, del valore nominale di 100 unità della precedente valuta. Ma il nome “piastra turca” dà a tutta l’operazione un sapore di esotismo a cui non si può rinunciare. La documentazione in proposito, oltre che nelle segretissime cancellerie internazionali, doveva trovarsi fra le carte di Ippolito Nievo. Ma si sa che col misterioso naufragio del vapore Ercole è tutto sparito in fondo al mare: le carte con il loro romantico e incorruttibile curatore.

Per tutta l’opera l’Autore rivendica, pienamente a ragione, l’importanza delle narrazioni letterarie e dell’immaginazione nella ricostruzione di un clima storico; ma questo vale se il punto di vista della creazione letteraria può illuminarci su situazioni, nessi di fatti che dalla semplice lettura delle testimonianze documentarie possono sembrare scollegati. Non si può attuare sulla letteratura la solita operazione di cherry picking per ricavarne testimonianze con valore probatorio dal punto di vista fattuale.


La storia delle “diecimila piastre turche” è imbarazzante anche su un piano più generale. Gli storici meridionalisti dicono meraviglie del regno borbonico: ricco, ben ordinato, progredito, con finanze in ordine, cultura raffinata ed esercito potente. Ed ecco che tutto crolla come un castello di carte di fronte ad un brigante con la camicia rossa e la borsa piena d’oro. Generali, popolo, borghesia, nobiltà corrono a farsi comprare per un pugno di monete. È veramente curioso che questi autori si diano tanta pena a difendere un regno che i meridionali dell’epoca gettarono via allegramente e indecorosamente come un abito logoro. Io non sono un meridionale, e non amo mettermi nei panni altrui, ma credo che se lo fossi proverei un certo disagio di fronte a una tesi di questo genere. Di sicuro, non la sosterrei con il sorriso trionfante esibito da Tino Vittorio.


Veniamo ora alla pars construens. Il Regno d’Italia fu una costruzione allogena, messa in piedi dalle Grandi Potenze, in primo luogo Francia ed Inghilterra, per loro obiettivi geopolitici. A questi si aggiungono pochi altri fattori, il “risentimento” russo per la guerra di Crimea, il “risentimento” prussiano verso l’egemonia austriaca. In realtà, come avverte lo steso Tino Vittorio (per tutto il libro è lui stesso a fornire le principali argomentazioni che smontano la sua tesi), tali interessi non erano così forti da concepire fino in fondo l’idea di sostenere la nascita di un grande Stato unitario. Non era così sicuramente per la Francia di Napoleone III, che appena messosi sulla strada dell’illustre zio, ebbe paura del suo stesso successo; neppure in fondo dell’Inghilterra, che a parte ostacolare i commerci tra il Regno di Napoli e l’impero ottomano, non aveva altre finalità di lungo periodo, né voleva turbare oltre misura gli equilibri del Mediterraneo. In questo senso, dice Tino Vittorio, l’unità d’Italia fu un caso di Serendipity, un evento che va molto più lontano, e in direzione completamente diversa, dal progetto iniziale. Insomma, forse un titolo ancora più esplicito per l’opera sarebbe Troppa grazia, Sant’Antonio!

Ma qui di nuovo ci troviamo di fronte a gravi errori logici. Se l’Unità d’Italia fu un esito del tutto inatteso di manovre politico-diplomatiche con finalità molto più modeste ed eterogenee, allora non è possibile sostenere, come fa Tino Vittorio, che tutto il processo unitario fu progettato e diretto dall’estero, addirittura, che l’Italia unita sia stata in realtà una “colonia”, prima francese, poi inglese. Talmente “colonia” francese, che dopo Villafranca, e la cessione della sola Lombardia, il processo proseguì per conto suo come una valanga fino alla Sicilia; talmente “colonia” anglofrancese che, dopo aver dato una prima regolazione agli enormi problemi conseguenti all’unificazione, appena il nuovo Regno poté dedicarsi alla politica estera, voltò le spalle a Francia e Inghilterra per allearsi con Germania e Austria.


Alla base di tutto c’è però ancora un errore logico-metodologico fondamentale. Sappiamo tutti benissimo che la vita è complicata, tanto la nostra quanto quella delle Nazioni. Ogni nostra vicenda è determinata da moltissimi fattori, non solo dalle nostre scelte, ma anche da un’infinità di circostanze esterne. Saper dare un senso alla propria vita, saper  comprendere la storia delle Nazioni, richiede la comprensione il più possibile ampia ed approfondita di tutta la rete di cause e concause, effetti e reazioni, in cui siamo inseriti. Questo sforzo richiede una continua alternanza e combinazione di analisi e sintesi: saper raccogliere  i singoli dati, ma anche saperli inserire all’interno di un contesto cognitivo sempre più ampio e articolato.

È invece tipico del metodo della “storia alternativa” (come di tutte le scienze “alternative”) raccogliere (to pick e magari anche choose) singoli dettagli informativi (cherries) da usare per demolire il quadro generale. Analisi e sintesi non sono più momenti correlati di uno stesso sforzo di comprensione, ma forze che si distruggono reciprocamente. E tutto è finalizzato a poter concludere “tutto ciò che vi hanno raccontato finora è sbagliato, adesso vi spiego io come sono andate veramente le cose!

Da che mondo e mondo, in ogni paese politica interna e politica estera sono intimamente correlate. Vi sono dinamiche proprie dell’evoluzione di un paese, che si intrecciano con le dinamiche degli altri paesi, e con un complesso sistema di relazioni internazionali. In questi casi (ma non solo in questi casi) le spiegazioni monocausali sono in genere fallaci. Tutti hanno sempre saputo che il processo di unificazione italiana poteva incontrarsi e scontrarsi con tendenze della politica interna ed estera francese. Questo ha determinato l’andamento della seconda Guerra d’Indipendenza: sia l’avvio, sia l’improvvisa interruzione. Ma da qui a dire che il Regno di Sardegna era una “colonia francese” ce ne corre. È una scempiaggine, che rende del tutto incomprensibile quel che è successo dopo. E così per tutto il seguito delle spiegazioni date da Tino Vittorio. Poiché si è ficcato in un ginepraio logico, non riesce assolutamente a dare una spiegazione coerente di tutto il processo, e deve affidarsi alla barzelletta di uno Stato che nasce “per caso”.


Quest’atteggiamento della storiografia meridionalista, di cui Tino Vittorio è l’ultimo esempio, ha avuto conseguenze importanti sulla storia d’Italia dopo l’Unità. Grandi sforzi teorici sono stati messi in campo per dare una spiegazione alternativa al processo di unificazione. Ma il lunghissimo elenco delle malefatte operate dai banditi garibaldini, dai piemontesi colonialisti, dagli inglesi affaristi, non sa venire a capo del mistero di una “conquista regia” operata da un esercito che ha vinto la guerra dopo aver perso tutte le battaglie.

Da questa debolezza teorica  derivata l’impotenza pratica del pensiero meridionalista. Il “narcisismo della sconfitta” (p. 44) ha portato le migliori menti meridionali a sostituire l’azione politica con la contemplazione estetizzante del proprio scacco. Nell’Italia unita, il mondo meridionale non ha, in quanto tale, rappresentato un’alternativa alla politica accentratrice ed autoritaria del governo monarchico.

È interessante notare che l’altra parte sconfitta del Risorgimento, la Chiesa, ha seguito una strada completamente diversa. Da parte cattolica c’è stato un rifiuto ancora più radicale di un processo storico attribuito interamente alla diabolica azione della Massoneria. Ma se ha negato radicalmente il valore dell’Unità, la Chiesa non si è rifugiata nel piagnisteo; al contrario, ha trovato un campo completamente nuovo di movimento nell’azione sociale. Nell’Italia unita, i protagonisti della vita politica e sociale sono stati: i diversi rivoli in cui si è divisa l’eredità risorgimentale, il socialismo, ed il cattolicesimo sociale; le stesse forze che troviamo dopo il periodo delle due guerre mondiali e del fascismo, fin quasi alla fine dello scorso millennio. Il meridionalismo è rimasto a leccarsi le ferite, a rimpiangere una meravigliosa età dell’oro cancellata da uno strano scherzo del destino.

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