Razze e cultura: un aggiornamento

Ho letto il contestato libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità. La storia umana tra razze e genetica, Le Scienze 2015.

Ne ho tratto impressioni contrastanti. La parte, strettamente tecnica, sui meccanismi dell’evoluzione, mi è sembrata molto interessante, anche se l’autore non è uno scienziato professionista. Non ho la competenza per giudicarla da un punto di vista scientifico, in ogni caso ho imparato delle cose che non sapevo.

La parte in cui tenta di far discendere caratteristiche culturali e sociali delle diverse razze dalla genetica mi sembra invece debolissima, con alcune grosse ingenuità ed alcuni evidenti errori logici.

← Torna al blog

Leggi l’articolo in formato PDF →

1. Una parola scomoda

Poiché nel libro si parla di razze, è il caso di fare una piccola premessa linguistica.

Le parole hanno una storia, e la parola razza ha una storia piuttosto ingombrante.

Questa storia comincia quando, con le grandi scoperte geografiche, la cultura europea entra in contatto con un mondo in cui la diversità umana si manifesta in modo clamoroso. Le teorie razziste nascono con l’intento di dare a questa diversità una spiegazione scientifica. Nonostante questo, è noto come l’idea sia stata usata per sostenere scelte politiche e sociali inaccettabili.

Non starò a ripetere la storia di quest’idea, del resto già brillantemente illustrata dallo stesso Wade in uno dei capitoli più interessanti del libro (pp. 19-39). Vorrei però puntualizzare cos’hanno in comune queste diverse teorie, e quindi qual è il significato che alla parola razza si attribuisce solitamente nella nostra cultura.

Secondo le teorie razziste più diffuse, le diverse razze umane sono gruppi chiaramente identificabili in primo luogo per le loro caratteristiche biologiche e morfologiche. Così come nella tassonomia corrente all’interno di un genere si indicano le diverse specie, il razzismo pensa di poter effettuare la stessa operazione all’interno di ogni singola specie, compresa la specie umana. Certo, c’è la grande differenza che le specie difficilmente possono ibridarsi tra di loro, invece le razze (o sottospecie: termine di non facile definizione) danno continuamente luogo a individui meticciati. Tuttavia, le teorie razziste sembrano dare per scontato che ogni razza corrisponde ad un tipo umano ben preciso, definito in base a caratteristiche morfologiche chiaramente descrivibili (colore della pelle, forma del cranio, tipo di capigliatura, taglio degli occhi e conformazione di diversi altri caratteri del volto, struttura dello scheletro ecc.) ed eventualmente ad altri caratteri meno visibili, come la frequenza di determinati gruppi sanguigni ecc. All’interno di ogni razza, la conformità al tipo appare come la norma; la devianza, o la presenza di caratteri mescolati con altre razze, è invece l’eccezione, l’anomalia.

Wade dà al termine razza un significato piuttosto diverso. All’interno della sostanziale unità della specie umana, esiste una distribuzione di alleli, cioè di varietà genetiche, con diversa frequenza statistica fra i grandi gruppi. Anche all’interno di ogni singola razza esistono sottogruppi, ma le differenze più importanti si manifestano fra alcuni grandi gruppi che approssimativamente corrispondono alle aree continentali. Wade individua quindi tre razze principali: la caucasica, l’asiatica (o asiatica orientale, poiché il Vicino Oriente e gran parte dell’India appartengono al mondo caucasico), l’africana. Esistono poi altre due razze minori: gli indigeni del continente americano, staccatisi dal gruppo asiatico circa 15.000 anni fa, e gli aborigeni australiani, staccatisi da un’umanità ancora sostanzialmente unitaria circa 50.000 anni fa.

Attribuire alle razze non caratteri genetici del tutto autonomi, ma una diversa distribuzione statistica di diversi alleli, gli permette di affrontare il punto debole di tutte le teorie razziste convenzionali, cioè l’impossibilità di stabilire confini netti fra razze diverse, e di rendere conto delle diversità all’interno delle singole razze. Tuttavia egli continua a sostenere che i diversi gruppi umani, distribuiti geograficamente sui diversi continenti, mantengono una prevalenza di caratteri distinti.

Un’altra importante differenza è che il razzismo tradizionale considera le diverse razze come realtà fisse, con caratteri segnati dalla loro formazione originaria in epoche remote della storia umana. Invece la teoria degli alleli permette a Wade di sostenere non solo che l’evoluzione è ancora in corso, ma che importanti cambiamenti sono possibili anche in tempi molto brevi, misurabili in una manciata di secoli. Non sono un genetista, ma qui mi sembra che ci sia già una grossa difficoltà, dal punto di vista evoluzionistico: di questo però parlerò più avanti.

In ogni caso, da quest’analisi si vede che la teoria di Wade è abbastanza diversa dalle teorie razziste elaborate in varie fasi della storia moderna. È una buona idea a questo punto mantenere lo stesso termine di razza per indicare cose definite in modo così diverso? Si tratta di una scelta che non dipende da dati scientifici, ma da considerazioni di opportunità. Se chiami questi gruppi razze, rischi di essere accusato di razzismo vecchio stile. Se usi altri termini, rischi di essere accusato di cedere al politically correct.

Dirò più avanti del secondo punto importante delle teorie razziste, cioè il fatto che dalla diversità biologica dipendano anche differenze sostanziali e innate dal punto dei vista psicologico, culturale, comportamentale, e di come Wade affronti la questione.

2. L’evoluzione della specie umana

Cercherò di spiegare alcuni punti di quel che ho capito della questione dal punto di vista biologico ed evoluzionistico.

Esistono due meccanismi evolutivi.

Il primo è conseguenza di un incidente casuale della trasmissione del patrimonio genetico. Una parte del codice impresso nel DNA si trasmette in modo impreciso, dando luogo ad una mutazione. Questa mutazione si trasmette alla discendenza, se esiste una discendenza.

Questa mutazione può avere diverse conseguenze.

Il caso più frequente, è che non succeda nulla. Il codice genetico è enormemente ridondante. Solo il 2% trasmette informazioni decisive per lo sviluppo dell’organismo; il restante 98% rimane silente. Una mutazione che interessi questo 98% non ha conseguenze dal punto di vista dell’evoluzione, anche se lascia una traccia che permette ai genetisti di riscostruire la genealogica degli individui in cui questa si presenta. La mutazione fornisce informazioni essenziali per la ricostruzione della storia del popolamento umano, ma non identifica una varietà umana distinta dal punto di vista della razza.

Quando avviene una mutazione nel 2% che interessa lo sviluppo dell’organismo, nella grandissima parte dei casi provoca un danno. Di conseguenza, le probabilità che questa mutazione si trasmetta ai discendenti è inversamente proporzionale all’entità del danno. Nei casi più gravi il nuovo organismo non sopravvive; in altri casi, la prole risulta indebolita, e quindi sfavorita nella competizione per la vita.

Un caso particolare è quello di una mutazione che provoca contemporaneamente vantaggi e danni. È importante infatti sapere che difficilmente un gene interviene su un singolo aspetto dello sviluppo dell’organismo; il più delle volte, la sua azione è complessa. Casi tipici sono alcune mutazioni prodottesi sia nelle popolazioni europee, sia in quelle africane, in seguito all’insorgere della malaria, parecchie migliaia di anni fa. Vi sono mutazioni che rendono l’organismo più resistente alla malattia, e quindi tendono a trasmettersi ai discendenti; ma un organismo che nasce da due genitori entrambi portatori di quella mutazione, soffre di gravi alterazioni, come la talassemia mediterranea, che possono portarlo alla morte. Quindi si tratta di mutazioni che possono diffondersi solo in misura limitata, fino al punto in cui le probabilità che due organismi portatori della medesima mutazione si accoppino ed abbiano prole diventano troppo elevate.

Poi ci sono i casi in cui la mutazione non ha conseguenze importanti né in senso positivo, né in senso negativo per la sopravvivenza. Le popolazioni asiatiche sono caratterizzate da una conformazioni della dentatura diverse da quella delle altre razze (complesso dentale mongoloide). La più frequente e antica è indicata come sundadontismo; la più recente è detta sinodontismo. L’aspetto interessante, è che le popolazioni originarie del continente americano sono sinodonti. Questa dovrebbe essere la prova definitiva dell’origine asiatica degli amerindi.

Tuttavia, queste mutazioni non danno nessun tipo di vantaggio evolutivo; si tratta di uno dei tanti casi di deriva genetica, cioè di variazioni che, dopo un gran numero di generazioni, diventano prevalenti con un meccanismo puramente probabilistico. Questo è anche il caso di moltissimi caratteri morfologici che noi siamo soliti associare alle diverse razze. Possedere un cranio un po’ più allungato o un po’ più schiacciato, e cose del genere, non credo che dia un vantaggio significativo nella lotta per l’esistenza.

Infine ci sono le mutazioni che danno un vero vantaggio evolutivo. Per esempio, la pelle bianca delle popolazioni caucasiche ed asiatiche. L’umanità è una specie tropicale, e la colorazione nera della pelle serve a difendere dai raggi del sole. Quando l’umanità ha cominciato a diffondersi in latitudini molto settentrionali, l’illuminazione solare diventava insufficiente, una tonalità più chiara della pelle permetteva di sintetizzare meglio la vitamina D. In seguito, nel corso dell’ultima glaciazione, le popolazioni bianche dell’estremo nord si sono spostate verso sud, occupando tutta la fascia attualmente temperata, soppiantando le popolazioni di pelle nera che si trovavano in difficoltà per il cambiamento climatico. Al termine della glaciazione, è ricominciato il movimento verso nord; di conseguenza, tutta l’Europa e il bacino del Mediterraneo, gran parte dell’Asia fino a metà del subcontinente indiano sono ora occupate da popolazioni di pelle chiara.

Un’altra mutazione ha interessato nuovamente popolazioni nordiche. In età neolitica, la capacità di digerire il latte anche in età adulta ha fornito a queste popolazioni la disponibilità di una fonte di cibo che le altre popolazioni non potevano usare. Anche in questo caso, la mutazione, nata nelle regioni del Nord Europa, si è diffusa in modo graduale verso sud.

La diffusione di una nuova mutazione, che soppianta altri caratteri grazie al vantaggio competitivo che comporta, viene definita hard sweep, una “spazzata dura”: coloro che possedevano quella mutazione hanno soppiantato quelli che non la possedevano.

3. Un’evoluzione “morbida”

Tuttavia l’evoluzione dovuta all’insorgere di nuove mutazioni è estremamente lenta, se paragonata ai tempi della storia umana. Le due mutazioni descritte sopra risalgono a epoche non precisamente determinate, l’una del paleolitico, l’altra del neolitico. È improbabile che un meccanismo di questo genere possa presentarsi molto spesso nell’arco degli ultimi millenni di storia umana.

Esiste però un secondo meccanismo evolutivo, definito soft sweep.

Normalmente, un carattere importante del nostro organismo non dipende da un singolo gene, ma dall’azione combinata di diversi geni. Per esempio, la statura dipende da circa quattrocento geni, ognuno dei quali comprende diverse varianti o alleli – e come abbiamo visto, ognuno di questi geni non interessa unicamente la statura, ma diverse altre funzioni dell’organismo.

Non esiste quindi un singolo “gene della statura”, ma esistono diverse combinazioni di geni, che hanno come effetto finale diversi caratteri dell’organismo tra cui una propria statura. Nell’accoppiamento, queste combinazioni si rimescolano, dando luogo a nuove combinazioni, ognuna diversa per ogni singolo discendente, e quindi ad individui con statura diversa.

Di fronte ad una sfida ambientale, è possibile che una certa combinazione abbia come conseguenza un certo vantaggio o svantaggio competitivo; di conseguenza, sarà la combinazione più favorevole quella che con maggiore probabilità verrà trasmessa ad un maggior numero di discendenti. La competizione per l’esistenza selezionerà le linee di discendenza dotate di una certa preminenza di un certo gruppo di alleli: non riproduzioni esatte dello stesso patrimonio genetico, ma distribuzioni statistiche con effetti simili.

(Wade non lo dice, ma credo si possa concludere che è possibile anche il meccanismo inverso: cambiata la situazione ambientale, è possibile che si riproducano condizioni favorevoli al prevalere delle precedenti combinazioni; cosa che invece non potrebbe avvenire col meccanismo “duro”, che comporta la sostituzione di un carattere genetico con un altro).

Questo meccanismo evolutivo, che non richiede la comparsa di una vera e propria mutazione, si sviluppa in tempi molto più rapidi. Se vogliamo studiare meccanismi evolutivi capaci di agire in tempi storici (diciamo, dal sorgere delle prime società organizzate circa cinquemila anni fa), è nel campo della soft sweep che dobbiamo cercare.

4. Una storia genetica della cultura

Riassumendo: le diverse razze sono caratterizzate da diverse distribuzioni statistiche di alleli; e queste diverse distribuzioni sono variabili nel tempo. È questo il meccanismo che rende alcune razze più competitive.

Occorre quindi ricostruire i meccanismo che hanno agito all’interno delle diverse razze (meglio: all’interno di diversi sottogruppi delle razze) sviluppando quelle caratteristiche che, in età storica, hanno fornito un miglior adattamento al contesto naturale e sociale.

Anche qui occorre fare una premessa. Appare evidente che la cultura è un prodotto della genetica: la specie umana, nella competizione naturale, ad un certo punto, invece di sviluppare artigli più forti, una maggiore velocità nella corsa ecc. ha prodotto una capacità mentale che permette far tesoro dell’esperienza, di modificare i propri comportamenti e di trasmettere questi comportamenti non più per via genetica ma attraverso l’educazione. Le formiche hanno elaborato forme di vita sociale estremamente complesse attraverso un processo evolutivo che è durato cento milioni di anni; gli uomini sono passati da piccoli gruppi tribali a base famigliare alle moderne società urbane nell’arco di alcune migliaia di anni. Il grande vantaggio dell’evoluzione culturale è in primo luogo la velocità. Ora la questione è: una volta che l’umanità ha realizzato questo strumento per la propria sopravvivenza, il meccanismo genetico che l’ha prodotto è ancora in funzione? Oppure l’enorme velocità e flessibilità dell’evoluzione culturale ha reso superflua l’evoluzione genetica?

Wade è convinto che il processo di evoluzione genetico, o per meglio dire, l’interazione tra cultura e genetica sia ancora evidente in età storica. Ma le sue argomentazioni non mi convincono del tutto. Per spiegare l’evoluzione da una società agricola alla prima rivoluzione industriale, egli dice che in Inghilterra, al passaggio dal medioevo all’età moderna, i ceti borghesi urbani, caratterizzati da un’elevata competizione per l’arricchimento, avevano maggior capacità di sopravvivere e di avere numerosi figli rispetto ai poveri della campagne.

Fino alla grande transizione demografica seguita all’industrializzazione, i figli dei ricchi sopravvivevano in numero più elevato rispetto a quelli dei poveri. Essi dunque diffondevano maggiormente i propri geni, tra cui quelli che favorivano la capacità di arricchirsi. (p. 13)

Questo tipo di ragionamento viene ripreso e approfondito del corso del libro, ma questi “geni dell’arricchimento” rimangono una fenice inafferrabile. L’ostacolo più grosso è che tra il sorgere nella nuova borghesia urbana nell’ultima fase del Medioevo, e l’inizio della Rivoluzione Industriale, passano al massimo 600 anni: poche decine di generazioni, e c’è da chiedersi se quest’intervallo sia sufficiente perché una innovazione genetica possa diventare dominante all’interno di un’intera società nazionale.

Esistono anche delle obiezioni di fatto. Nulla sembra più difficile da trasmettersi per via ereditaria del “gene” dell’arricchimento. Chiunque di noi può citare, prendendoli dalle proprie conoscenze personali, o dalla storia di qualunque nazione, esempi di grandi imprenditori di genio, a cui sono seguiti, dopo una, due, al massimo tre generazioni, discendenti inetti che hanno portato alla rovina l’azienda di famiglia o ne sono stati estromessi. È veramente difficile trovare esempi in senso opposto. Anzi, non c’è ceto più mobile della borghesia imprenditoriale, con il continuo emergere di nuovi elementi che danno la scalata sociale a partire dalle posizioni più basse.

Un altro esempio, a prima vista più convincente, viene preso dalla storia degli ebrei askenaziti. Essi appaiono particolarmente dotati per gli affari ed in particolare la finanza. Inoltre, moderne indagini dimostrano che si tratta del gruppo umano col più elevato QI medio. La presenza di ebrei askenaziti nelle istituzioni accademiche, fra i premi Nobel ecc. è sproporzionata rispetto alla piccola consistenza del gruppo etnico.

Gli ebrei nascono circa tremila anni fa come un popolo di agricoltori, dotato di istituzioni tribali piuttosto primitive. In età antica, subirono varie persecuzioni, e dopo una serie di rivolte sfortunate contro l’autorità romana rischiarono di scomparire. Per sopravvivere, dovettero affrontare radicali cambiamenti nel modo di vivere. Molti di loro lasciarono la Palestina, e andarono a vivere nelle grandi città del mondo antico; gli antenati degli attuali askenaziti si stabilirono nelle grandi città mesopotamiche, che rimasero ricche e prospere anche sotto il dominio islamico. Dopo aver abbandonato l’agricoltura, gli ebrei si dedicarono alle più lucrose attività urbane, sviluppando particolari doti per la finanza. La fine del califfato abbaside, e la distruzione di Baghdad ad opera dei mongoli, li disperse nel Vicino Oriente e nell’Europa nord orientale. Ma ormai era avvenuta in loro un’evoluzione genetica analoga a quella della borghesia inglese, che aveva rafforzato i “geni dell’arricchimento”.

Un’altra importante trasformazione avvenne in campo religioso. La religione ebraica primitiva era basata sulla totale subordinazione dei contadini alla casta dei sacerdoti del Tempio, a cui si dovevano versare grandi ricchezze. Ad un certo punto nel mondo ebraico cominciarono a circolare dei riformatori, i quali spostarono l’attenzione dal Tempio al Libro. La distruzione del Tempio sotto i romani, e la diaspora, fece sì che questa forma di religiosità fosse l’unica a sopravvivere. Per decine e decine di generazioni i maestri della Legge si sforzarono di educare i loro correligionari, convincendoli che il massimo dovere dell’ebreo era leggere e meditare il Libro. Quindi l’analfabetismo fu apertamente combattuto; i contadini ignoranti venivano disprezzati, mentre al vertice della scala sociale, oltre ai mercanti, si stabilivano i rabbini.

In entrambi i casi, il meccanismo della trasformazione culturale si è sviluppato per via genetica. Così come i figli dei ricchi hanno maggiori probabilità di sopravvivere, e quindi trasmettono e diffondono i “geni dell’arricchimento”, anche i figli dei rabbini sono più numerosi, vivono meglio, e sono preferiti nei contratti matrimoniali. In questo modo si è rafforzato il patrimonio genetico legato all’alfabetizzazione, al QI ecc.

5. Difficoltà e obiezioni

Wade in realtà non sa spiegare come funzioni questo meccanismo. Naturalmente, ammette che questi “geni” dell’arricchimento, dell’alfabetizzazione, del Nobel non sono ancora stati trovati. Gli argomenti logici a sostegno della sua tesi sono rozzi: semplicemente, dato che nessun’altra spiegazione funziona, è vera la sua. A voler essere cattivi, si tratta del sofisma alla base di tutte le bufale: non puoi dimostrare che non sia così, quindi è così per forza.

La sua ricostruzione della storia umana è elementare e piena di forzature. Nella preistoria, la società è organizzata secondo strutture tribali, in cui l’unico valore è la solidarietà fra parenti. La società moderna si afferma quando l’obbedienza alla legge diventa invece il legame prevalente. Naturalmente anche quest’evoluzione ha una base genetica. Non tutte le razze la conoscono; essa si sviluppa in modo completo solo in Europa. Per spiegare l’attuale arretratezza del Medio Oriente, egli deve sostenere che le popolazioni mediorientali, pur essendo “caucasiche”, sono ancora geneticamente legate al tribalismo. Invece i cinesi sono caratterizzati da una grandissima laboriosità, da un grande conformismo, e dalla subordinazione “confuciana” all’autorità. Anche questo, ovviamente, deriva dai geni, in seguito ad un’evoluzione che si è sviluppata a partire dal momento in cui la Cina è stata unificata sotto le prime dinastie imperiali.

Stupisce come Wade non si renda conto che l’intera storia europea, su queste basi, diventi incomprensibile. A partire da duemilaseicento anni fa si sviluppa nel Mediterraneo una grande civiltà, caratterizzata da grandi città, un’intensa vita civile e politica, forti scambi commerciali, ceti medi pieni di curiosità e intraprendenza, stati con strutture amministrative complesse. L’impero romano eredita tutto questo, in più costruisce una rete di infrastrutture – strade, porti, acquedotti, fognature ecc. – che non ha uguali per estensione ed efficienza fino alla moderna età industriale. Ad un certo punto tutto crolla; l’Europa si copre di foreste, punteggiate da piccole radure dove un’umanità rada, miserabile e analfabeta vive come nella preistoria, abita case di fango e paglia, gratta la terra con strumenti primitivi. Passano pochi secoli, e sulle sponde del Mediterraneo torna a brillare il faro della civiltà. Cordova e Baghdad,  capitali dei due califfati rivali, sono centri commerciali e artistici ricchissimi, dove pulsa una vita economica vivacissima, e alcune delle menti più brillanti della storia si cimentano nell’ardua impresa di far andare d’accordo il Corano con Aristotele. L’Europa cristiana è complessivamente più arretrata, ma nelle città italiane e tedesche merci, denaro, uomini ed idee circolano freneticamente, fino alla rinascita di una civiltà urbana straordinariamente dinamica e innovativa. Ancora pochi secoli, e tutto il Mediterraneo scivola verso un’esistenza sonnolenta, mentre il cuore pulsante della modernità si sposta in un’isola del mare settentrionale, terra fino ad allora al traino dei paesi meridionali… Tutto questo dovrebbe dipendere da combinazioni e ricombinazioni di frequenze statistiche di alleli, che ogni cinque-sei secoli si scombinano di nuovo, per poi combinarsi subito dopo? Forse, ma non c’è il minimo straccio di una prova.

6. Di cosa parliamo quando parliamo di “cultura”

Un argomento che Wade considera molto forte a sostegno delle sue tesi, è che le differenze culturali fra le diverse razze permangono anche nel caso di trasferimento o emigrazione in ambienti diversi. Fra europei, africani, cinesi, ebrei, rimangono differenze significative nei valori medi di QI, anche quando singoli individui o gruppi si spostano verso ambienti diversi. O per meglio dire, alcune variazioni si notano, gli africani trasferiti negli Stati Uniti mostrano un innalzamento dei valori oltre la media africana, senza tuttavia raggiungere pienamente i valori degli europei. Così i cinesi continuano ad essere un popolo straordinariamente laborioso e coeso, ma non capace di particolari innovazioni ecc. Quindi i tratti psicologici e comportamentali di un popolo dipendono in parte dalla cultura, ed almeno in parte dall’ereditarietà genetica.

Questo tipo di ragionamento dimostra una totale incomprensione di ciò che è “cultura”.

Tutti sanno, ovviamente anche Wade, che il tratto forse più tipico della specie umana è l’eccezionale lunghezza del periodo in cui il nuovo nato rimane al tutto dipendente dai genitori. Si tratta di un lunghissimo imprinting, con la trasmissione di strutture culturali che vanno a sovrapporsi ai tratti genetici segnando la molteplice varietà della specie umana. Si tende a considerare la cultura come una semplice somma di singole conoscenze e abilità, ignorando il fatto fondamentale, che è l’enorme complessità e la costante correlazione tra tutti i singoli elementi che la compongono. Ne nasce una visione rozza dell’inculturazione. Prendete un uomo nato in una società arretrata. Insegnategli a guidare, e avrete un automobilista. Insegnategli a votare, e avrete un democratico. Insegnategli a far di conto, e avrete un banchiere. Poiché normalmente le cose non vanno così, la conclusione è che, poveretto, proprio non ce la fa; ha limiti genetici, razziali, naturali insuperabili. Infinite volte nella storia ci siamo trovati di fronte a questo fallimento – che, sia ben chiaro, non riguarda solo i rapporti fra le diverse razze, ma anche grossi squilibri all’interno della stessa razza. Generazione dopo generazione, i caratteri profondi delle singole culture persistono, e formano il terreno oscuro e silenzioso su cui poggiano le scintillanti sovrastrutture della modernità.

Noi non siamo – e forse non lo saremo mai – capaci di padroneggiare l’enorme complessità dell’evoluzione culturale. Dobbiamo però essere in grado di evitare le facili scorciatoie, sfuggire all’ingenua illusione – figlia del peggior illuminismo – che sia possibile estrarre la natura dalla cultura di una specie umana, che invece è tale proprio perché questi due termini sono legati in modo inscindibile.

Maurizio Pistone
Castelnuovo don Bosco
Marzo 2016

← Torna al blog