Ancora sullo studio del latino

Su it.istruzione.scuola la questione del “Liceo delle Scienze Applicate”, che dovrebbe sostituire il “Liceo Scientifico Tecnologico” ha riaperto la vecchia questione dello studio del latino. Un vecchio amico, “Al-Farid”, ha toccato il tasto sempre sensibile dei ricordi:

Non a caso un testo cardine è appunto l’“Analisi logica” del Tantucci, testo che chi ha studiato latino ben ricorda.

Ho ancora in libreria la mia copia della Sintassi latina del Tantucci: un fascicolo sbrindellato di fogli staccati, che avevo già comprato usato – probabilmente usato più di una volta.

Quando ho voluto riprende il latino da grande, ho usato il Bonfante: il tipo è un mezzo nazista, ma come glottologo sa il fatto suo.


Del liceo classico ho patito l’insegnamento disastroso della matematica, un handicap al quale non ho mai saputo porre rimedio.

Con mio figlio credo che abbiamo azzeccato quasi tutte le mosse: musica dai cinque ai dodici anni (musica musica, neh, non attività ludico-musicali); buone scuole pubbliche (elementari, medie, liceo classico), tutte ragionevolmente conservatrici.

Dei docenti, due tipi un po’ originali, alle medie e per i primi tre anni di superiori; gente che insegnava matematica vera (ammesso che io sappia che cos’è la matematica vera) non banali calcoli ripetitivi.

Decisamente sotto livello gli insegnanti di italiano. Inutilmente pedante quella delle medie; completamente squilibrati quello del ginnasio (che faceva anche latino, fortunatamente non greco), e quello dell’ultimo anno del liceo. Tutti noi abbiamo esperienze di almeno un insegnante disastroso; averne incontrati due di seguito, in una materia fondamentale, è una vera sfiga. Ma di quelle sfighe però che non puoi prevedere né controllare.

Decisamente sopra la media l’insegnante di greco del ginnasio, più che dignitosi (quasi) tutti gli altri. Un buon insegnante, qualunque sia la materia che insegna, è un’esperienza che ti rimane impressa per tutta la vita. Uno su tanti ti capiterà, altrimenti, è un guaio irrimediabile.

Grazie a Dio mio figlio ha finito il liceo prima dei disastri della Gelmini. Con quel poco di autonomia che c’era, facevano matematica potenziata nel liceo, inglese quinquennale, un corso supplementare facoltativo di analisi matematica in terza liceo.

Adesso è iscritto a Fisica, e si trova bene.


Non ho mai creduto al Latino che insegna a ragionare. Il latino non è né più né meno logico di qualunque altra lingua. L’insegnamento tradizionale dell’ “analisi logica” è un mostro metodologico, logico, linguistico: al massimo può avere un valore mnemonico per il principiante, o per il tardo. “Nella frase attiva il soggetto compie l’azione, nella frase passiva il soggetto subisce l’azione” è una formuletta che può aiutare all’inizio, basta non chiedersi mai che cosa significa “compie” e “subisce”.


Non trovo nulla di più fastidioso delle discussioni sugli insegnamenti che “servono”. È un ragionamento da apprendista cuoco: l’aglio serve sempre, se non ce l’hai in cucina, è un disastro. Invece con lo zafferano ci fai solo il risotto alla milanese, lo compri solo quando ne hai bisogno.


Il latino – e il greco – non sono lingue “antiche”. Il latino non sta all’italiano come il gotico al tedesco, l’anglosassone all’inglese. Il latino e il greco sono lingue di una cultura che l’Europa ha sempre mantenuto in vita come parte della sua anima. Puoi vivere senza Beowulf, non puoi vivere senza Ulisse – Ulisse non è il bisnonno di tuo bisnonno, è sempre accanto a te.

Non puoi neanche vivere senza l’Ecclesiaste, ma dobbiamo rassegnarci al fatto che della triade umanistica (che ancora per Leopardi era un dogma) l’ebraico è stato abbandonato ta tempo.

Naturalmente, il problema è se conoscere i testi in lingua originale, o per lo meno, avere una minima idea della lingua in cui sono stati scritti (nessuno esce dal liceo classico in grado di leggere l’Odissea in greco). Io sono in grado di leggere almeno una parte della letteratura francese in originale (Stendhal sì, Céline no); un po’ meno in inglese e tedesco; neanche una parola di russo. Ma non è stato tempo perso studiare un po’ di quelle lingue.


Quello che gli apprendisti cucinieri non riescono a capire, è che il nostro cervello(*) è fatto di interconnessioni, quindi anche l’educazione deve essere interconnessa. Devi imparare anche cosa che “non ti servono” per lo stesso motivo per cui un ciclista non può limitarsi a potenziare i muscoli delle gambe. L’importante non è “a cosa serve” una certa materia, ma quanto sono ampie le aree cerebrali che interessi con una certa materia. È questo il senso delle materie di interesse generale “teoriche”, “poco pratiche”, “che non ti verranno mai chieste in un colloquio di lavoro”: la musica, la matematica, le lingue moderne e antiche.

Questo varia a seconda delle età. Soprattutto nell’infanzia le aree cerebrali sono fra di loro potentemente interconnesse, anzi, queste mainterconnessioni sono in tumultuoso sviluppo, e l’apprendimento di materie di interesse generale ha un valore formativo enorme. È questa l’importanza della musica, della matematica, delle lingue – l’ideale sarebbe che tutti i bambini crescessero in un mondo bilingue, purtroppo sotto questo punto di vista la scomparsa dei dialetti è stato un disastro.


È importante imparare cose “che non ri servono” proprio perché non ti servono, per avere un’idea del mondo cerebrale che c’è al di fuori dela specializzazione alienante del lavoro che svolgerai per quarant’anni. Anche se passi la vita a progettare rubinetti per doccia, devi sapere che oltre ai rubinetti per doccia esistono le chiese romaniche e i cacciatori boscimani, i buchi neri e l’Edipo Re, l’Arte della Fuga e la topologia. Se no sei come un paralitico in carrozzella seduto davanti ad un compiùter – mica ti servono le gambe per usare il compiùter, no?


Tanto per scandalizzarvi, tra le cose che “servono nella vita” e che io vorrei limitare parecchio, vi è anche il training catto-terzomondista. Insegnare a non copiare è più importante dell’ “educazione alla pace”, cercare su tre vocabolari la corretta traduzione di un termine ostico è più importante degli esercizi spirituali sulla fame.

Il senso di responsabilità sociale deve fondarsi sulla consapevolezza delle relazioni fra le cose, non su una generica compassione.



(*) parlo di “cervello” in senso metaforico, s’intende

Giorno del Ricordo

È passata, quasi inosservata, la Giornata del Ricordo.

Qualcuno ha voluto contrapporre ai morti italiani i tantissimi morti jugoslavi.

Io non la liquiderei così facilmente la questione, con un bilancio a due colonne degli ammazzati dall’una e dall’altra parte.

È un fatto che nei libri di storia della scuola italiana (forse di tutto il mondo) la II guerra mondiale è ancora oggetto di enormi rimozioni.

Per quanto riguarda noi, si comincia a vedere qualcosa della guerra d’Etiopia, e della fine miseranda di quell’Impero che era stato annunciato con grandi fanfare. L’Etiopia era l’unico fronte su cui l’Italia operava senza il supporto determinante dell’alleato tedesco, e dopo appena dieci mesi di guerra le truppe italiane lasciarono Addis Abeba senza combattere. (Meglio così. Il povero Amedeo di Savoia ha fatto la cosa più sensata).

Ma una totale rimozione riguarda il fronte più vicino a noi, quello in cui cui le operazioni militari durarono per quasi tutti i cinque anni di guerra: la Jugoslavia. Fu il fronte più impegnativo di tutti, e quello che assorbì la maggior parte delle risorse belliche che l’Italia monarchica e poi repubblichina riuscì a mettere insieme.

Non so quanti libri di storia parlino del Regno di Croazia, sul cui trono (sia pure solo nominale) c’era un certo Aimone di Savoia; della politica di deslavizzazione iniziata fin dagli albori del fascismo (nel 1920 le camicie nere diedero alle fiamme la Casa di Cultura Slovena di Trieste); del confuso sostegno dato dall’Italia contemporaneamente agli Ustascia croati, e ai Cetnici serbi, in un’azione di sterminio incrociato che riuscì a disgustare perfino gli ufficiali delle Wehrmacht; dell’annessione della provincia di Lubiana, rispetto alla quale neanche i più esaltati irredentisti avevano mai espresso alcun interesse.

Allo stesso modo, non so quanti libri di storia parlino diffusamente della rinuncia della sovranità italiana a favore del Terzo Reich su tutte le province orientali, incorporate nell’Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona di Operazioni del Litorale Adriatico) che comprendeva le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana sotto il comando del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer; e dell’Operationszone Alpenvorland (Zona di Operazioni delle Prealpi) comprendente le provincie di Bolzano, Trento e Belluno, sotto il comando del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer.

In questo quadro (non certo per pareggiare una macabra bilancia di morti) si può ricordare anche la tragedia di migliaia di famiglie italiane costrette a lasciare le case che abitavano da una innumerrevole serie di generazioni.


Gauleiter. È il caso di ricordare che il termine Gauleiter indicava il governatore di una regione appartenente al Reich tedesco, non il comandante delle truppe di occupazione in un paese straniero. Torna su ^

Fondamenti di una nuova dottrina politica

Mentre vedo snocciolarsi i nuovi quadri orari della Riforma Epocale, mi rivedo, un pezzetto dopo l’altro, scaricato dal Torrente, Der Unterfall (La Caduta – Gli ultimi giorni di Hitler).

Per carità. C’è un abisso. Ma fa ugualmente pensare.

Il popolo, all’epoca, più civilizzato e istruito del pianeta, si mette nelle mani di un perfetto psicopatico. Lo segue con metodica precisione verso l’autodistruzione. Alla fine, anche se i più – perfino la maggior parte dei fedelissimi – si rendono conto che in quella testa le rotelle girano all’incontrario, il giuramento di fedeltà vale più dell’elementare istinto di conservazione.

Gli Italiani, popolo di Furbi, hanno invece deciso di farsi comandare da un Imbecille.

Non lasciatevi ingannare dal luccichìo dei lustrini. Non basta il successo economico – non basta il potere – per fare di un cretino un intelligente. Mi dispiace deludervi (berlusconiani e antiberlusconiani), ma Silvio è in primis una grandissima testa di cazzo. Tutto il resto viene di conseguenza.

Poiché le teste di cazzo che hanno il potere sono naturalmente spaventate dai confronti, ogni dittatorello cercherà di circondarsi di persone intellettualmente inferiori. Se il Berlusca è una testa di cazzo, figuratevi i suoi ministri.

Figuratevi la Gelmini.

Mi rendo conto che quanto sto per dire è un’eresia dal punto di vista di ogni dottrina storico-politica. Mi dispiace per Machiavelli. Mi dispiace per Marx. Mi dispiace per Gramsci. Ma alle loro teorie manca un tassello fondamentale. La possibilità che il Principe sia un imbecille – e proprio per questo, invincibile.

Un uomo, un sistema del potere, che non è schiacciato dal pesante fardello della Razionalità. Libero dai condizionamenti dell’Intelligenza.

Potete ben dirmi che nella riforma Gelmini si vedono i tagli di Tremonti. Che si vede il diabolico piano del Potere di avere un popolo di ignoranti, per mettere al riparo il Sistema da ogni critica. Un governante perverso e cinico, ma intelligente, non riuscirebbe a combinare un pasticcio simile. Avrebbe un minimo di senso estetico – di schifoso, egoistico senso estetico.

Dominare, distruggere, condizionare, corrompere sì, ma in bel modo. Con stile.

Questi Decreti di Attuazione della Riforma Epocale – approvati da gente che non li ha letti – che non li ha letti perché al momento dell’approvazione non erano ancora stati scritti – questo pedante e piccino togliere un’ora di qua e metterla di là – hanno la stessa faccia ottusa di una povera, eterna Apprendista di Studio Legale, che non ha saputo fare altro che mettere all’insegna della Nuova Scuola quello che è il senso della sua personale esistenza:

Ultimo nella Scuola, primo nella Vita.

Contrordine Padani! Il nuovo orario del Liceo Classico

Questa è la bozza del piano orario dei licei che ho scaricato ieri (Giovedì 4 Febbraio) dal sito dell’INDIRE:

www.mauriziopistone.it/materiali/ClassicoBozza.pdf

Il piano orario presente oggi (Venerdì 5 Febbraio) sullo stesso sito e indicato come “definitivo” è completamente diverso:

www.indire.it/lucabas/lkmw_file/licei2010/// quadri_orari_licei_regolamento_definitivo.pdf

Speriamo che non cambino di nuovo idea


Ultimo minuto!

Oggi 5 Febbraio ore 17:37 i materiali dei Tecnici e Professionali (una bagattella, un milione e mezzo di studenti) sono ancora allo stato di “BOZZA“.

Stay tuned!

Il Liceo di mio figlio

Questo è il Piano dell’Offerta Formativa del Liceo Classico Cavour di Torino, frequentato da mio figlio fino all’anno scorso:

www.lcavour.it/Didattica/Pof/pof.html

(Mio figlio ha frequentato il corso istituzionale; esiste anche un Liceo Musicale, ed un Liceo della Comunicazione. Abbiamo scelto deliberatamente il corso tradizionale nel liceo più conservatore della nostra città).

Ho confrontato alcune cifre con il nuovo piano di studi del Liceo Classico che si trova sul sito

www.indire.it

Inglese:
Liceo Cavour “tradizionale”:            

99* ore per 5 anni =

495 ore

Liceo Gelmini:

99 X 2 anni + 66 X 3 anni =

396 ore

Si perdono

 99 ore

Matematica:
Liceo Cavour “tradizionale”:

99 ore X 3 + 66 X 2 =

429 ore

Liceo Gelmini::

99 X 2 + 66 X 3 =

396 ore

Si perdono

 33 ore

Inoltre il Piano di studi del Liceo Cavour prevedeva, per gli studenti dell’ultimo anno, due “moduli di orientamento” con docenti universitari, in orario curricolare:

– un modulo di 42 ore (3 ore per 14 settimane) di analisi matematica

– un modulo di chimica organica e biochimica di 28 ore (2 ore per 14 settimane)

Mi figlio ha frequentato il modulo di matematica, ed ora è iscritto alla facoltà di Fisica.


(*) Secondo l’uso moderno, ho trasformato l’orario settimanale in ore annuali, calcolate su 33 settimane.

La maturità dei mediocri

Poiché stanno comparendo sulla stampa nazionale articoli che parlano della “severità” delle nuove norme sull’esame di Stato (l’esame di “maturità” non c’è più da una dozzina d’anni), desidero ripetere qui alcune considerazioni che ho già fatto in altre occasioni.

La nuova severità dovrebbe discendere da due nuove norme:

  1. si ammette all’esame solo chi ha la sufficienza in tutte le materie;
  2. nel calcolo della media per l’assegnazione del credito si tiene conto anche del voto di condotta.

Prendiamo ora l’allievo mediocre, “senza infamia e senza lode”, quello che arriva alla fine del corso di studi più per forza di inerzia che per vero merito.

Questo campione si presenterà allo scrutinio finale del quinto anno con una serie di valutazioni oscillanti tra la sufficienza e la “quasi sufficienza”, e forse un pochino meno.

In soldoni, i valori “grezzi”, comunicati dai docenti delle singole materie, saranno qualche sei, qualche cinquemmezzo, probabilmente almeno un cinque.

I voti finali (è così da sempre) vengono assegnati dal Consiglio di Classe.

Per prima cosa si dovrà quindi decidere se ammettere questo campione all’esame.

Lasciatevelo dire da uno che è nella scuola da più di trent’anni. Nessun Consiglio di Classe dello Stivale lo terrà fuori. Anch’io voterei per l’ammissione senza pensarci due volte. È giusto così. L’allievo non ha meritato, ma neppure demeritato troppo. Già essere arrivato all’ultimo anno, superando una lunga serie di selezioni annuali che nella scuola superiore sono sempre assai più severe di qualunque esame di Stato (in certi casi severissime, una vera decimazione) è cosa non da poco. A scuola è stato un mediocre, ma anche i mediocri hanno diritto a vivere la loro vita. Uscirà dalla scuola con una valutazione bassa, ma uscirà, e il resto dovrà giocarselo da sé. Profilo basso, e camminare.

Quindi, deliberazione finale del Consiglio di Classe: sei in tutte le materie.

Unanimità? Unanimità.

Passiamo al voto di condotta.

Il nostro eroe della mediocrità ha fatto di tutto per non farsi notare. Ha fatto baccano quando gli altri facevano baccano, è stato zitto quando gli altri stavano zitti. Non ha mai ricevuto una sanzione disciplinare grave – non l’ha mai meritata. Certo, non è mai stato un tipo particolarmente collaborativo, ma è difficile che uno così abbia meno di 8 come voto di condotta (la valutazione 6 è data in conseguenza di infrazioni gravi, ripetute e documentate, alla disciplina, la valutazione 7 a chi è sempre stato un turbolento, senza però meritare punizioni pesanti).

Bene, alla fine costui avrà una media superiore al 6, e il punteggio corrispondente di credito.

Con le norme precedenti, sarebbe stato ammesso lo stesso, ma con una media inferiore a 6, e quindi un credito minore.

La Commissione d’Esame sa perfettamente queste cose. Una volta, quando non c’erano i crediti, la Commissione andava a guardare anche le pagelle – ma non le valutazioni dell’ultimo anno, perché si sa che all’ultimo scrutinio dell’ultimo anno si nasconde sempre un bel po’ di spazzatura sotto il tappeto; bensì le valutazioni dei tri/quadrimestri precedenti: perché è lì che il Consiglio di Classe ha sempre nascosto i suoi messaggi cifrati, e chi ha orecchie per intendere intenda.

Anche adesso le pagelle sono a disposizione della Commissione; ma nessuno le guarda, perché tanto non servirebbe a niente. I giochi sono già fatti, e la Commissione si limita a prendere atto del punteggio di credito.

Insomma: questa è una formula d’esame in cui chi va bene va bene, chi va male va male, esattamente come prima. A differenza di prima c’è però qualcuno che ha un piccolo vantaggio: il mediocre.

Niente di male, s’intende. Basta dirlo.

Ceci tuera cela
La conoscenza nell’età dell’Internet

In un episodio notissimo di Notre Dame de Paris, il perverso monaco Claude Frollo, indicando da una parte un libro a stampa, dall’altra la grande cattedrale, mormora enigmatico: “Ceci tuera cela” (Questo ucciderà quello).

Il turpe arcidiacono voleva dire che la vecchia sapienza simbolica, incarnata nel grande “libro di pietra”, sarebbe stata sostituita dalla nuova scienza razionalistica, impressa dai caratteri mobili. Naturalmente non voleva dire che le cattedrali sarebbero state distrutte, né che la gente avrebbe cessato di frequentarle. Ma che il rapporto della società con la conoscenza, e la natura stessa della conoscenza, avrebbero visto un profondo cambiamento…

Scarica il PDF con il testo completo >

Michelle Obama agli insegnanti

Insegnanti, siate leader (come Barack)
Michelle Obama
[La Stampa, 16/10/2009]

In questo periodo dell’anno a casa Obama c’è parecchio da fare. Come tanti genitori in tutto il Paese guardo divisa tra orgoglio e ansia le mie bambine che preparano lo zainetto, mi salutano con un bacio e si avviano a un nuovo anno scolastico, per diventare le donne forti e sicure che sono certa saranno. Ma quando le vedo rincasare, tutte eccitate per qualcosa che hanno imparato o per un nuovo incontro, ecco, mi ritrovo a pensare che la maggior parte delle persone che più influenzeranno le loro vite non saranno i compagni di gioco o i personaggi di un libro ma chi si trovano davanti in classe ogni giorno.

Ci ricordiamo tutti quale impressione profonda ci abbia lasciato un insegnante speciale, quello che non ci ha abbandonato alle nostre lacune, quello che ci ha incoraggiato e ha creduto in noi quando dubitavamo delle nostre capacità. Anche dopo decenni ricordiamo come ci faceva sentire e come ci ha cambiato la vita. È comprensibile quindi che gli studi dimostrino come il dato che influenza di più il rendimento degli studenti sia la capacità dei loro docenti.

E quando pensiamo a ciò che fa di un insegnante un ottimo insegnante – energia illimitata e altrettanto sconfinata pazienza, capacità di visione e capacità di lavorare per obiettivi, creatività per aiutarci a vedere il mondo in modo diverso e dedizione al compito di aiutarci a scoprire e sviluppare il nostro potenziale – bene, allora realizziamo che sono le qualità di un grande leader.

Oggi più che mai abbiamo bisogno proprio di questo tipo di leadership nelle nostre aule. Come ripete spesso il presidente, nell’economia globale del XXI secolo una buona educazione non è più soltanto una delle strade possibili: è l’unica strada possibile. E i buoni insegnanti non svolgono un ruolo chiave solo per il successo dei nostri ragazzi ma anche per il successo della nostra economia.

La realtà purtroppo è invece che anno dopo anno noi stiamo perdendo i nostri insegnanti di maggior esperienza. Più della metà dei nostri docenti è figlia del baby boom. Questo significa che nei prossimi quattro anni un terzo dei 3,2 milioni di docenti americani potrebbe andare in pensione. Nel 2014, fra cinque anni appena, il Dipartimento dell’educazione prevede che dovranno essere assunti un milione di nuovi docenti. E non si va incontro solo a una generica penuria di insegnanti, ma a una penuria là dove i buoni insegnanti sono più necessari: le scuole disagiate, povere di mezzi, dove le sfide sociali sono maggiori.

Ecco perché noi abbiamo bisogno di una nuova generazione di leader nelle nostre scuole. Abbiamo bisogno di uomini e donne appassionati e determinati che si dedichino alla missione di preparare i nostri studenti alle sfide del nuovo secolo. Abbiamo bisogno di università che raddoppino gli sforzi per formare gli insegnanti e trovino strade alternative per reclutarli. Dobbiamo incoraggiare i professionisti migliori a dedicare una parte delle loro carriere all’insegnamento. E trattare i docenti come i professionisti che sono, garantendo loro buoni stipendi e ottime opportunità di carriera.

E abbiamo anche bisogno di genitori che proseguano a casa l’operato dei professori e lo completino. Che sappiano porre limiti: all’occorrenza spegnere la tv e i videogiochi, vigilare sullo svolgimento dei compiti, rinforzando l’esempio e le lezioni della scuola. C’è tanto da fare e non sarà un compito facile. Ma sono fiduciosa: una nuova generazione di leader farà la differenza nelle vite degli studenti e nel futuro della nazione.


Gentile signora Obama,
sappia che qui, da questa parte della cattedra, si condividono i suoi sentimenti.

Se tutti noi siamo legati a questo lavoro, nonostante difficoltà vecchie e nuove, è proprio perché in esso sappiamo trovare momenti indimenticabili.

È vero che il lavoro dell’insegnante, come ogni lavoro, è fatto in gran parte di routine. C’è la banale routine didattica: insegnare cose un po’ fruste a ragazzi e ragazze spesso svagati, cercare di mantenere la disciplina in classi numerose e turbolente, dover affrontare la frustrazione di spiegazioni mille volte ripetute e mai comprese. C’è anche la routine burocratica, che negli ultimi anni non fa che aumentare, fino ad assumere aspetti esasperati ed un po’ vessatori, fino addirittura a sottrarre tempo all’insegnamento.

Ma ogni tanto capita il momento magico: quando fra insegnante ed allievi improvvisamente si sente una consonanza di interessi, quando in occhi finora sfuggenti si accende un lampo di curiosità e di interesse, quando un ragazzo finora in difficoltà scopre dentro di sé potenzialità che né lui né noi sospettavamo.

Certo, ci sono anche i lunghi momenti di frustrazione, il senso di fallimento di sforzi inutilmente ripetuti, l’impotenza a contrastare le sollecitazioni negative provenienti dall’ambiente o dai mezzi di comunicazione, l’abbandono da parte di giovani che sprecano un’occasione irripetibile. A tutto questo, ora, dobbiamo anche aggiungere le richieste insistenti di una scuola che dia solo poche nozioni “spendibili”, come si dice oggi, su un mercato del lavoro avaro di occasioni che non siano precarie e di basso livello.

Ma questo non ci ferma, perché, dopo tanti anni, il bilancio umano e professionale che abbiamo accumulato è largamente positivo.

Oggi alla scuola si vorrebbero imporre criteri di puro produttivismo, un’“efficienza” misurata sull’economia del soldo a costo di scelte al ribasso nella didattica, finalità meramente utilitarie. Noi rifiutiamo tutto questo, non perché ne abbiamo paura, ma perché non ci interessa, non è la nostra vocazione: se noi condividessimo quest’impostazione, faremmo un altro mestiere. Anche nelle scuole più vicine al mondo produttivo (io attualmente insegno in un Istituto Professionale Statale) il nostro obiettivo è comunicare in primo luogo l’etica del lavoro e la cultura della responsabilità: le abilità professionali vengono di conseguenza.

Non so se siamo dei leader: ci sforziamo di essere degli insegnanti.

Due ipotesi sulla valutazione degli insegnanti

Si continua a parlare di valutazione degli insegnanti.
Da qualche tempo circolano anticipazioni ministeriali su un “Organismo indipendente di valutazione”… del merito? No, ci siete cascati: “della performance”.
Di questo Organismo per ora non si sa nulla di concreto.

1. Prima ipotesi. Tranquilli.

Questa qui ci ha messo un anno intero a scrivere una circolare sul cinque in condotta.

Prima che le venga qualche ideuzza su com’è composto quest’Organismo, come saranno fatte le verifiche, in base a quali criteri ecc. siamo in tempo a vedere una nuova era glaciale.

2. Seconda ipotesi. Panico.

Un gruppo di avventurieri (tutti rigorosamente lombardi, s’intende) ha messo su in quattro e quattr’otto un’agenzia di ratting. Un signore brizzolato dalla parlantina brillante con la camicia azzurrina e la cravatta reggi-Mentol a righe gialle ha già deposto sulla scrivania di Stellina un corposo depilànt in carta pattinata, con tanto di titoli e sottotitoli in italo-anglo-campussese, foto fotoscioppate di studentini radiosi e studentine graziose, torte e bigné di Ex-Cèll… L’ha imbambolata di chiacchiere, e lei sta per firmare il contrattone miliardario.


Alla mia età sono fuori da questo gioco, ma se vi mancano più di dieci anni alla pensione, mettete il filo spinato attorno alle vostre scuole, disponete delle scolte alle finestre e sui tetti, armatevi di solidi bastoni chiodati, e se vedere passare un distinto signore brizzolato ecc., mi raccomando: prima menare e poi chiedere chi sei che cazzo vuoi.