“Mandarli tutti in ospedale…”

INTERVISTA A COSSIGA

di Andrea Cangini

Presidente Cossiga, pensa che minacciando l’uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?

«Dipende, se ritiene d’essere il presidenie del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché l’Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c’è il granitico Pci ma l’evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlu­sconi farà una figuraccia».

Quali fatti dovrebbero seguire?

«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno».

Ossia?

«In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito…».

Gli universitari, invece?

«Lasciarli fare. Ritirare Ie forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuo­co le città».

Dopo di che?

«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovra sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».

Nel senso che…

«Nel senso che Ie forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».

Anche i docenti?

«Soprattutto i docenti».

Presidente, il suo è un paradosso, no?

«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero.

«Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio».

Quale incendio?

«Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigale rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».

È dunque possibile che la storia si ripeta?

«Non è possibile, è probabile. Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo».

Il Pd di Veltroni è dalla parte dei manifestanti.

«Mah, guardi, francamente io Veltroni che va in piazza col rischio di prendersi le botte non ce lo vedo. Lo vedo meglio in un club esclusivo di Chicago ad applaudire Obama…».

Non andrà in piazza con un bastone, certo, ma politicamente…

«Politicamente, sta facendo lo stesso errore che fece il Pci all’inizio della contestazione: fece da sponda al movimento illudendosi di controllarlo, ma quando, com’era logico, nel mirino finirono anche loro cambiarono radicalmente registro. La cosiddetta linea della fermezza applicata da Andreotti, da Zaccagnini e da me, era stato Berlinguer a volerla… Ma oggi c’e il Pd, un ectoplasma guidato da un ectoplasma. Ed è anche per questo che Berlusconi farebbe bene ad essere più prudente». 

Quotidiano Nazionale 23 Ottobre 2008

Fonte: Rassegna Stampa della Camera dei Deputati

http://newrassegna.camera.it

Promuovetelo!

Il mio amico Alberto Biuso mi ha autorizzato a pubblicare qui questo suo
messaggio, indirizzato alla lista

it.groups.yahoo.com/group/didaweb/

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Quante volte – dal mio primo esame di maturità in un paese della Sicilia – ho visto alcuni genitori prendersela con i professori incapaci di riconoscere il genio dei propri figlioli, convinti che il pargolo fosse perseguitato per non si sa bene quali ragioni di odio personale, arrivando sino alle minacce.

Ho visto anche tanti altri genitori – per fortuna la maggior parte – apprezzare la richiesta di impegno, il rigore nello svolgimento del lavoro, il tentativo di trasmettere ai loro ragazzi la passione culturale e civile (che sono la stessa cosa).

Con questo suo sfogo di padre, Umberto Bossi ha mostrato la sua reale natura. E’ un italiano, come tutti noi. Anzi, un meridionale affetto da ciò che un sociologo definì “familismo amorale”, il privilegiamento – sempre e in ogni caso – delle ragioni della famiglia rispetto a quelle della società. La “Famigghia” è tutto.

Per questo ho firmato con convinzione l’accorato appello per la promozione del suo erede.

Ciao,
Alberto G. Biuso
www.biuso.it

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L’appello è qui:

www.firmiamo.it/promuovetelo

Il ciabattino di Socrate e la pescivendola di Lenin

Si può (almeno tentare di) insegnare tutto a tutti?

Socrate era convinto di no. Solo il ciabattino sa fare le scarpe, e chi non le sa fare è meglio che non ci ficchi il naso. Così, solo chi è andato alla scuola dei sofisti(1) può governare lo Stato. Diverse carriere scolastiche, diverse competenze, diversi ruoli nella vita sociale.

Invece Lenin(2) era convinto che il punto d’arrivo fosse mettere una pescivendola al governo dello Stato. Naturalmente, una pescivendola può governare lo Stato solo se le sue competenze non si limitano allo sventramento delle triglie. L’utopia democratica, che qui Lenin esprime, è che anche una pescivendola possa imparare a governare lo Stato.

Questo è da sempre, e sarà sempre, il grande dilemma riguardo all’istruzione. In Italia, queste due posizioni si sono confrontate in modo nettissimo negli anni ’60. Don Milani, un prete saldamente radicato nello spirito tridentino, diceva: Ugo Foscolo non ama i poveri – naturalmente la conseguenza è che i poveri non hanno nessun motivo per studiare Ugo Foscolo. L’istruzione deve seguire due filoni distinti alla radice. Un’istruzione rivolta ai poveri, animata da spirito caritativo (solo i poeti che “amano i poveri”, solo gli argomenti che risultino familiari ai figli dei contadini); ed una per i ricchi, che tanto si sa, saranno sempre ricchi(3).

In quegli stessi anni, l’utopia democratica portava alla nascita della Scuola Media Unica. Fino ad allora, vi erano stati dopo la scuola elementare due indirizzi ben distinti: la Scuola Media, per quelli che prevedevano di proseguire gli studi, e un Avviamento Professionale, per chi si fermava lì. La Scuola Media Unica rispondeva alla grande utopia liberale e democratica di un’istruzione di base uguale per tutti, a partire dalla quale i “capaci e meritevoli” possono raggiungere, qualunque sia la classe sociale d’origine, tutti i gradi dell’istruzione e quindi tutte le professioni.

Naturalmente, l’utopia democratica funziona se l’esistenza delle inevitabili disparità individuali non porta ad un livellamento delle competenze verso il basso. Non si può fare una scuola su misura degli ignoranti solo per evitare che gli ignoranti si sentano esclusi o “in ansia”(4). Il principio caritativo dell’istruzione è esattamente il contrario del principio democratico; ed una scuola autenticamente democratica non può che essere una scuola selettiva.


(1) Socrate ce l’aveva con i sofisti per lo stesso motivo per cui Gesù ce l’aveva con i farisei: più ci si assomiglia, più c’è la necessità di sottolineare le differenze.
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(2) quanto segue non ha, naturalmente, nulla a che fare con la storia della Rivoluzione Bolscevica e dell’Unione Sovietica.
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(3) Gesù Cristo diceva ai ricchi: avrete sempre i poveri intorno a voi. La conseguenza logica è che i poveri avranno sempre i ricchi sopra di loro.
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(4) questo messaggio è concepito in seguito ad una discussione sull’“ansia” degli studenti che vedono sospeso il loro giudizio allo scrutinio finale.
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Per un nuovo ’68 degli insegnanti #4

Contenuti

(Per intendere quello che ho detto e che dirò, si sappia che io prendo come riferimento quasi esclusivamente la Scuola Superiore, l’unica che conosco per esperienza diretta).

Per anni abbiamo avuto tentativi di riforme basate sui contenitori. Ma il grosso problema della scuola italiana è quello dei contenuti. In tutta la pletora normativa che si è riversata addosso agli insegnanti, con autentico accanimento sadico, la cosa che sembra completamente scomparsa sembrano essere i programmi. Molti addirittura sono convinti che non esistano neanche più. Pensate: non sono mai stati pubblicati sul sito del Ministero, dove invece (se uno ha la pazienza di districarsi in quel caos) si può trovare la più insignificante delle circolari. Si sa vagamente che i Programmi saranno sostituiti da Curricoli, o come diavolo verranno chiamati, o gli OSA: gli ultimi che ho visto, poco prima della fine della gestione Moratti, erano caratterizzati dalla meschina, pletorica pedanteria dei dilettanti (“se fossi io a fare i programmi ci metterei questo… e questo… e questo…”).

Finita l’epoca delle grandi utopie (le grandi sperimentazioni, a partire dai programmi Brocca) si è passati ad un estenuante e dispersivo bricolage, un po’ gestito individualmente dagli insegnanti (questo in realtà si è sempre fatto), un po’ improvvisato dai Collegi Docenti, sempre alla ricerca di novità per la clientela, di aggiornamenti al Nuovo. La sciagurata autogestione del Fondo d’Istituto ha trasformato gli insegnanti in cottimisti, un tanto all’ora, un tanto al corsicino, un tanto a Progetto. Togli un’ora di qua, metti un’ora di là; si inventano assurde “compresenze” per giustificare l’ora in più di questo, tanti euro all’ora, qualche specchietto per le allodole per la clientela, come se ai genitori importasse che si fa un’ora alla settimana in meno di Estrazione di Turaccioli per fare, in compresenza tra l’insegnante di Latte ai Gomiti e quello di Fumo negli Occhi, un progetto di 33 ore annuali di Tecnologia della Masticazione, o di Educazione alla Benevolenza.

Questo è l’ultimo punto d’arrivo della scuola italiana. La Scuola dei Progetti non ha più un progetto.

A questo punto devo precisare una cosa. Da quando intervengo su questi temi, in diversi gruppi di discussione, ricevo la qualifica di “gentiliano”. È vero che io ho fatto (per sei anni) il Liceo Classico, e ho incoraggiato (non obbligato) mio figlio a frequentare lo stesso Istituto che ha visto maturare i miei brufoli. Ma quando penso ad un modello alto di scuola, penso ad un tipo di istituto che ho conosciuto anni dopo, da insegnante: l’Istituto Tecnico Industriale.

Gli ITIS, non il liceo gentiliano, sono stati il fiore all’occhiello della scuola italiana. Erano il giusto equilibrio fra conoscenza e competenza, fra teoria e pratica, fra visione generale del mondo e preparazione al lavoro, fra scuola di massa e scuola di formazione di un’élite capace e responsabile. Soprattutto, erano scuole che giravano intorno ad un progetto razionale, coerente e lungimirante. L’idea di dare una conoscenza complessiva di un settore produttivo, che permettesse sì di andarci a lavorare, ma non con mansioni puramente esecutive, non come manovalanza usa e getta. Lavorare sapendo quello che si fa, e perché si fa. Il lavoro come conoscenza, e la conoscenza come lavoro.

Gli Istituti Tecnici (i migliori, per lo meno) avevano alla loro base una cosa che in Italia si è persa: l’etica del lavoro. Un vero umanesimo, dove il lavoro non è un semplice strumento per soddisfare i bisogni ed i consumi più elementari, ma è esso stesso il soddisfacimento di un bisogno fondamentale dell’uomo. Questa, in fondo è l’essenza del comunismo.

Dato che auspico un nuovo ’68, è chiaro che non sto parlando solo di una riforma della scuola, ma di una vera rivoluzione che deve partire dalla scuola. Certo, gli anni ci hanno insegnato che non si può cambiare il mondo: non sarà la scuola italiana che porterà la pace in Palestina, l’acqua in Africa, l’onestà in Parlamento. Ma vorrei che gli insegnanti cominciassero tutte le mattine il loro lavoro con questo pensiero: devo insegnare ai miei ragazzi che se una cosa va fatta, va fatta bene. Va fatta sapendo quel che si fa. Va fatta che abbia un senso. Va fatta perché va fatta.

Dite che è poco, come Rivoluzione.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #3

Merito

Visto che il tema del dibattito attuale è il merito, e continuo a parlare di “forte motivazione etica”, cominciamo da qui, dagli insegnanti che vorrebbero fare di più e meglio.

Qui si confrontano due visioni completamente opposte del mestiere dell’insegnante. La prima vuole porre l’accento sulla coscienza personale. L’insegnante è il primo che può giudicare quello che può e deve fare in una determinata situazione – a scuola, le situazioni sono tutte diverse, e non sono possibili soluzioni preconfezionate. L’insegnante prende, di volta in volta, le decisioni che ritiene le più opportune – rischiando di sbagliare, s’intende. Ma, come diceva Biagi, sbaglia in proprio, e si assume le proprie responsabilità. Nel rispetto delle norme vigenti (tra l’altro, nel rispetto dei programmi vigenti), ha un ampio margine di discrezionalità; è quella “libertà didattica” che dev’essere molto importante, visto che è tutelata perfino dalla Costituzione.

Il problema di questo sistema è che la libertà, la responsabilità non sono valori quantificabili. Il “merito” non può avere altro premio che quello della propria coscienza, e della stima di quei pochi che ne condividono i valori. Certo, vi deve essere un’adeguata retribuzione delle diverse mansioni, non tutte uguali, che un insegnante può svolgere nella scuola oltre all’attività didattica strettamente intesa; ma l’attività didattica di per sé non è valutabile in modo “oggettivo”. È possibile individuare e anche sanzionare i “cattivi” insegnanti, cioè quelli che si rendono responsabili di vere ed evidenti manchevolezze; ma non è “oggettivamente” misurabile la bravura di un insegnante bravo – neanche di quello che tutti considerano tale. La pubblica fama è un dato oggettivo; ma non esiste un famometro infallibile.

L’altro sistema, è quello della misurazione del “merito”, e degli incentivi. Quelli che sostengono questo sistema, non hanno mai saputo spiegare in modo convincente quale sarebbe il metodo di misurazione di questo “merito”. Ma ammettiamo che lo sia. Se è così, tutta l’attività dell’insegnante è sottoposta ad un processo di valutazione, cioè all’attenzione di valutatori. Quali che siano i criteri di valutazione, sono stati decisi in sedi diverse da quelle in cui si svolge l’attività didattica.

Togliamoci, per favore, dalla testa che i “criteri” di valutazione del merito siano qualcosa che “esiste”. Non siamo arrivati a quest’età per credere a queste fantasie platoniche. Se esiste un criterio di valutazione, è perché qualcuno l’ha deciso. E se esiste una valutazione è perché qualcuno, in base a questo criterio, valuta. La grande forza dei numeri! Una fregatura, come ogni dogma.

Ebbene, immaginiamo un sistema dove il “merito” viene valutato “oggettivamente” e dà luogo ad un “incentivo”. Risultato? Ognuno di noi, invece di pensare a che cosa fare per fare meglio il proprio lavoro, in quella data situazione, in base alle proprie convinzioni e alla propria esperienza, cercherà di fare la cosa che gli assicurerà una migliore valutazione. Il che significa:

  1. evitare il più possibile di prendere decisioni;
  2. evitare come la peste di assumersi delle responsabilità.

Decisioni e responsabilità verranno scaricate sui “valutatori”, e sui loro bei criteri “oggettivi”, fissati da non si sa chi. E immagino che a loro volta i valutatori si preoccuperanno di essere valutati. Risultato: un sistema incapace di prendere decisioni, in cui nessuno si assume la responsabilità di niente.

Naturalmente il primo sistema, quello che si basa sulla professionalità, non si instaura per decreto. Occorre una grande forza culturale. Bisogna che nella scuola esistano dei valori forti e condivisi, su quello che deve essere l’insegnamento; che su questi valori si discuta, perché solo attraverso la discussione possono radicarsi, ma che non possano essere negati. In ogni caso, non può esistere un sistema scolastico che non ponga alla sua base il valore supremo della conoscenza. Sembra incredibile, ma anche su questo ormai siamo ridotti a discutere.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #2

Professionisti

Quando parlo di forte motivazione etica, non intendo un generico altruismo. Non mi interessa l’insegnante missionario. Mi interessa l’insegnante professionista. Ma essere professionisti non significa solo avere conoscenze e padroneggiare procedure. Significa avere chiara visione dello scopo della propria attività. Dedicare, a questo scopo, non necessariamente la vita (non siamo martiri o asceti), ma le proprie energie lavorative. E soprattutto, assumersi le proprie responsabilità. Fare quello che va fatto. Questo è il più grande diritto e il più grande dovere degli insegnanti. Essere dei veri professionisti. Tutto il resto viene di conseguenza; anche il riconoscimento sociale ed economico.

Occorre rivendicare interamente la propria responsabilità professionale. Da diverse parti si tende a svuotare questa professione, a renderla sempre di più un piccolo ingranaggio di una grande macchina burocratica. Fortunatamente non si sentono più tanto i discorsi deliranti di chi voleva sostituire gli insegnanti con macchine ecc.; ma molti (purtroppo anche molti insegnanti) vorrebbero la progressiva parcellizzazione delle attività. Per esempio separare la didattica dalla valutazione. È una boiata pazzesca. La valutazione è parte integrante della didattica. Separare l’insegnamento dalla didattica sarebbe come se in medicina si separasse la diagnosi dalla terapia. A nessuno verrebbe in mente una stupidaggine del genere. E se a qualcuno venisse in mente, i primi ad insorgere sarebbero – giustamente – i medici.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #1

Etica

È di pochi giorni fa la notizia che tutti (o quasi) i Länder tedeschi hanno emanato tassative direttive per ridurre o addirittura eliminare la bocciature dalle scuole. Motivo: le bocciature costano.

http://tinyurl.com/3nel6d

http://tinyurl.com/3zjqx6

Non conosco a sufficienza il sistema scolastico tedesco per poter valutare la portata (e la veridicità) di questa notizia. Diciamo che prendo spunto da questa, e faccio finta che sia vera, come espediente retorico, proprio perché viene da fuori Italia, per di più da un paese dove il governo federale è retto da una grande coalizione di centro destra e centro sinistra a guida democristiana. Questo dovrebbe togliere la voglia di perdersi in beghe di bottega o risse di tifoserie politiche.

Insomma, qui non si tratta di litigare su Berlinguer o Moratti o Fioroni o Gelmini (o Gentile o Don Milani). Si tratta di prendere atto che una iniziativa di questo genere esprime con brutale chiarezza  quando più o meno apertamente, con decisioni più o meno ufficiali, si sta verificando in gran parte del mondo – come ognuno sa, anche in Italia.

Alla base di quelle scelte non c’è una dottrina politica o pedagogica, non c’è il buonismo o il mammismo, non c’è il non uno di meno né la pecorella smarrita né la contestazione studentesca. C’è la brutale forza dei numeri: le bocciature costano.

È questa la fine del ’68, che tanti hanno bellicosamente annunciato, ma solo la soporifera unanimità della Grande Coalizione tedesca ha compiutamente realizzato.

Il ’68, come tutti i grandi fenomeni storici, è stato tante cose insieme, anche tante cose contraddittorie insieme. Ma tra queste tante cose c’era un’idea forte. L’idea che la conoscenza, la cultura fosse il grande motore del movimento sociale. L’idea che la scuola potesse essere il cardine della trasformazione. Su tutto questo è calata una pietra tombale su cui sta scritto: COSTA TROPPO.

È una pura coincidenza che io dica queste cose proprio nel momento in cui viene annunciata la formazione di un nuovo ministero (e, probabilmente, la risurrezione del MIUR, non più Ministero della Pubblica Istruzione). Avrò occasione fra poco di dire alcune cose in polemica diretta con certe prese di posizione della signora Gelmini, ma prima voglio sintetizzare in poche frasi il mio appello.

Auspico un nuovo, grande movimento di rivolta – questa volta non degli studenti, ma degli insegnanti. Auspico che una grande forza di massa imponga all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità di ripartire dalla scuola. Auspico che si rialzi la bandiera della grande utopia liberale e umanitaria della cultura come forza vivificatrice dell’intera società, della scuola come principale strumento di emancipazione dei ceti poveri. Auspico che questo movimento affronti sì anche i problemi materiali e rivendicativi della condizione dei docenti, ma sia in primo luogo un movimento con una forte motivazione etica.

Fioroni

Non mi sarei mai aspettato, un anno e mezzo fa, di trovarmi a rimpiangere il ministro Fioroni.

Preciso che non sento la minima affinità ideologica e antropologica verso un democristiano di provincia dallo sguardo bovino, precipitato per puri motivi cencelliani dalle terze file della politica laziale al posto che fu di Francesco de Sanctis, Michele Coppino e Benedetto Croce. Eppure è una bella lezione di vita vedere che un uomo dalle modeste risorse, del tutto privo di esperienza specifica, dotato solo di un po’ di onesto buon senso, ha fatto per lo più bene, mentre fini intellettuali ed acclamate mèneger hanno combinato enormi disastri.

Come aveva dichiarato fin dall’inizio, non è mai stato attirato dalle riforme epocali, dalle grandi architetture di contenitori. Ha solo cercato di far funzionare la scuola. Ha rimesso in vigore l’unica buona idea della gestione Berlinguer, quell’esame di Stato che la lombarda intrepida castigatrice di mercanti cinesi aveva, come primo atto della sua gestione, gettato sotto le scarpe delle Mamme d’Italia (direte: questo era nel programma dell’Unione. Vero. Come erano nel programma dell’Unione la legge sul conflitto di interessi, l’abolizione delle leggi penali fai-da-te, e tante altre buone cose).

Certo, Fioroni non è mai stato un combattente. Si è sempre barcamenato tra burocrati della pedagogia ed esperti lalologi, ha bruciato i suoi granelli d’incenso davanti alle icone del Didattichese. Il suo capolavoro è stato ristabilire gli esami di riparazione dicendo e facendo dire che non sono esami di riparazione.

Difficile prevedere che cosa sarebbe riuscito a fare nella sua annunciata restaurazione del Merito, così bistrattato dal supermercato delle Competenze e dei Progetti e delle Cose che Servono. Un’impresa così grande e nobile richiede gli sforzi concordi di un’intera generazione di ministri e di docenti, non si poteva affidare ad un Governo in balia delle disavventure giudiziarie delle mogli di un paio di Ministri (quando c’era Lui, almeno, si metteva mano alle istituzioni per risolvere i guai personali del Presidente, non quelli delle signore e dei consuoceri).

È del tutto improbabile che l’ormai ex-ministro torni ad occupare quel posto. È più probabile che ricada nella penombra di piccole presidenze di Enti di modesto interesse locale. Ma io, nel poco tempo che passerò ancora nella scuola, e nella prossima lunga stagione della quiescenza, ricorderò la faccia larga e un po’ tonta di uno che per meno di due anni ci ha fatto sperare che non è fatale andare sempre Peggio.