Ed ora qualcosa di poco serio

Lezione di misure in elettrotecnica:

ROMA:
a regazzì, pijate er filo rosso, ataccatelo ar testere, pijate l’artro filo
nero (sti milanisti der cazzo, ma perchè nu l’anno fatto giallo er filo der
negativo, mortacci loro) e attaccatelo a l’artro lato der testere, e
scriveteve sur fojo a lettura.
AHÒ statte bono co quelle palline de carta, che te sdereno!

NAPOLI:
wagliù, pigliat o’stument, attaccat chillu fil russ ngopp a resistenz a na
part ro strument e po’ o nir a chell’ata part ro strument.
at fatt?
va bbuò, scrivit chell ca liggit ngopp o strument.
pascà, chi t’è mmuort, iamm bellcu chelli pall’e cart, ca t sfonn

“carmine” su it.istruzione.scuola

Tentativo di dire qualcosa di serio sui dialetti e la scuola

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[La solita proposta strampalata di una parlamentare padagnola ha suscitato, nei gruppi di discussione sulla scuola e la lingua italiana, una polemica un po’ sconclusionata sui dialetti e le culture locali. Poiché si tratta di argomenti a me molto cari, mi dispiace, come sempre, che tutto finisca in vacca perché il tema viene proposto da chi cerca solo la rissa con provocazioni razziste.
Ho cercato quindi di affrontare la questione in modo un po’ più serio.
]

Nella sua ultima opera, Il linguaggio d’Italia, Giacomo Devoto ha dato la sintesi della sua straordinaria carriera di ricercatore nel campo della storia linguistica italiana. È un libro di grandissima densità e quindi non sempre di agevole lettura, ma ricchissimo di informazioni e affascinante per il rigore dell’argomentazione.

La storia della lingua italiana del ‘900 è condensata in un succinto capitoletto, all’interno del quale (in meno di due paginette) si trovano alcune sorprendenti osservazioni sull’influenza del sistema scolastico sull’evoluzione linguistica.

Il Devoto parte dalla riforma Gentile del 1923 (che l’autore non qualifica mai come "fascista"). La cosa più significativa in questa riforma è l’importanza data ai dialetti nella scuola elementare, con l’intento di "allontanarsi in modo drastico dalla visione autoritaria". Ne sono testimonianza quei libretti, di cui io ho trovato alcuni esemplari sulle bancarelle, di "esercizi di traduzione dal piemontese all’italiano"; libretti che il Devoto chiama "libri di lettura che facessero da ponte fra il parlare genuino e lo scritto".

Ma si noti. I dialetti non sono visti dal Devoto come uno strumento di collegamento tra il mondo in cui vive il bambino e il mondo della scuola – il dialetto come prima lingua veicolare – ma come strumento di educazione del gusto e della "creatività". Ed effettivamente, quei libretti contengono non conversazioni quotidiane, riferimenti a termini di uso comune, ma testi con una qualche pretesa di dignità letteraria: pagine d’autore, poesie e canzoni popolari selezionate in base ad una certa validità di gusto. È l’educazione al bel parlare ed al bello scrivere che si matura attraverso il modello di una cultura tradizionale – che come ogni tipo di cultura tende all’equilibrio e alla dignità delle forme.

Questa riforma gentiliana durò pochissimo. Dopo un paio d’anni il regime fascista "deviato verso una organizzazione dello stato in senso rigorosamente accentratore" mise al bando i dialetti.

Le conseguenze, per il Devoto, furono nefaste. La creatività, non avendo più "il modello o il termine di confronto dei dialetti" rimase senza guida; la successiva imponente espansione del sistema scolastico rese drammatica la mancanza di un legame tra un insegnamento grammaticale-normativo, mai assimilato veramente da nessuno scolaro, e lo spontaneismo anarchico.

La conclusione è ottimistica – ma notate, il testo è del ’74, il processo di degenerazione da allora è spaventosamente avanzato.

Di fronte a questa lingua letteraria, fondata su modelli temperati e aperti, il dialetto non è destinato ad essere né un marchio di inferiorità, né un simbolo romantico di gentili età scomparse, né un malinteso simbolo di degenerazioni autonomistiche o separatistiche. Esso rimane valido come legittimo termine di confronto, permanente, antidogmatico nei confronti della lingua letteraria. È una alternativa, liberatrice, alla spersonalizzazione e banalizzazione irradiante dalla lingua letteraria, generalizzata nell’uso.

[Per piemontesi] Non ne hanno azzeccata una

Ho in mano il pomposo opuscolo di un pomposo ristorante astigiano. Hanno voluto mettere in risalto la loro piemontesità, ma non ne hanno azzeccata una.

Il ristorante si chiama Pióla & Cróta – proprio così, con l’accento al contrario. Non ci vuole una grande scienza; opuscoletti con le regole dell’ortografia piemontese si trovano a pochi euri sulle bancarelle, vocabolari di piemontese sono stati redatti da diversi illustri studiosi.

Oltretutto, se uno si limita a guardare sulla tastiera, c’è solo la ò, e la ó la deve costruire con faticose manovre (se usa Uìndos; se usa Mac è un po’ più semplice). Ma tant’è, anche in piemontese colpisce il tipico errore dei “semicolti”: l’ipercorrettismo, che consiste nel mettere la forma sbagliata, difficile, al posto della forma semplice, corretta: Piòla, Cròta.

Nell’elenco “Archeogastronomia” (ma che, si mangiano le mummie?) è un errore veniale pnansemmo per pnansëmmo. Ma la cosa tremenda è che in mezza pagina ci sono tre modi diversi per scrivere il suono u: è corretto in Batsoà, Bonet; c’è la forma col cappelletto, ormai abbandonata da decenni, Capônet; c’è la forma assurda (ma tanto cara ai compositori di insegne pseudo tipiche) Mitöna (che richiederebbe anche un accento sulla finale: Mitonà).

Il vertice arriva alla fine: un anglobarotto brush (sic), che per un po’ mi ha tratto in inganno, prima che riuscissi a decifrare Bross.

Vedere qui per credere

Considerazioni aritmetiche sull’esame di Stato

Il voto d’esame deriva dalla somma di tre fattori:

il credito (in venticinquesimi)
le prove scritte (in quarantacinquesimi)
il colloquio (in trentesimi)

Il sistema è combinato in modo che la somma dei minimi valori sufficienti

credito 10
prove scritte 30
colloquio 20

dia 60/100; e che la somma dei valori massimi

credito 25
prove scritte 45
colloquio 30

dia 100/100.

Detta così, si può pensare che ci sia una corrispondenza perfetta con la valutazione in decimi: 6/10 = 60/100.

In realtà la formazione del valore finale è un po’ più complessa.

Mentre la valutazione in decimi (usando i numeri interi) comprende cinque valori per l’insufficienza (1-5) e cinque valori per la sufficienza (6-10), è noto che la formazione del voto d’esame è fatta in modo completamente diverso.


Il credito

Il credito non è la diretta trasformazione della media in decimi in un valore in venticinquesimi, ma l’applicazione di alcune tabelle di corrispondenza. La scelta del valore da usare per il calcolo del credito è affidata all’ampia discrezione dei CdC.

Per semplicità facciamo l’ipotesi di una media finale che si ripete per tre anni.

Media del 6 pulito:
può essere 3 + 3 + 4 = 10/25 (quindi 6/10 = 40% del credito massimo)
oppure 4 + 4 + 5 = 13/25 (quindi 6/10 = 52%)

Media del 6,5:
4 + 4 + 5 = 13/25 (quindi: 6,5/10 = 52%)
oppure 5 + 5 + 6 = 16/25 (quindi: 6,5/10 = 64%)

Media del 7,5:
16/25 (64%) oppure 19/25 (76%)

Media dell’8,5:
19/25 (76%) oppure 25/25 (100%)

Quindi nel calcolo del credito le differenze di media sono fortemente amplificate, lasciando al Consiglio di Classe un ampio margine di discrezionalità.

Aggiungiamo due piccole considerazioni.

1. Maria Stella Gelmini ha deciso di inserire il voto di condotta nel calcolo della media. Non so quanti ragazzi si trovino alla fine dell’anno con 6 in tutte le materie, e 6 in condotta. Credo molto pochi. Nel mondo reale, non nel mondo delle Marie Stelle, questo significa che la media del 6 pulito è evento quasi impossibile. Quindi, di fatto, il valore minimo di credito è 13. Il calcoletto che avevo messo all’inizio, tre valori sufficienti che danno come somma 60/100, ormai è una pura ipotesi accademica. Una media “sufficiente” nel corso di tre anni, più prove d’esame “sufficienti”, danno per risultato almeno 63.

2. Maria Svampitella Gelmini ha altresì deciso che dall’anno prossimo per essere ammessi all’esame si dovrà avere 6 in tutte le materie. Poiché nel mondo reale, non nel fantastico mondo delle Marie Stelline, non esiste un Consiglio di Classe che escluda dall’esame un ragazzo con un paio di insufficienze, anche gravi, questo significa che un bel po’ di spazzatura verrà nascosta sotto il tappeto, e le medie dell’ultimo anno verranno abbondantemente rivalutate.


Prove d’Esame

Fin dal primo anno del Nuovo Esame di Stato le Commissioni hanno dovuto digerire queste strane scale di valutazione asimmetriche. Le prove scritte sono valutate in quindicesimi, con 9 valori insufficienti e 6 valori sufficienti (io do per scontato che la valutazione minima sia 1, non 0; ma cambia poco alla sostanza delle cose). Il colloquio era valutato in 35esimi (21 valori insufficienti contro 14 sufficienti), ora in 30esimi (19 contro 11).

Prendiamo il sistema attuale, fiorongelminiano. È vero che ci sono fino a 25 punti di credito, 45 di scritto, 30 di orale; ma questo non significa che nella valutazione complessiva le tre componenti valgano come il 25%, il 45%, il 30%. Se prendiamo la banda di oscillazione tra la stretta sufficenza e il massimo, abbiamo:

16 valori per il credito (da 10 a 25)
16 valori per le prove scritte (da 30 a 45)
11 valori per il colloquio (da 20 a 30).

Nella vita reale delle Commissioni, in cui non si fanno somme a partire da 1, ma si danno valori in più o in meno della sufficienza, questo significa che il colloquio d’esame, evento iniziatico su cui si appuntano ansie e speranze di studenti, insegnanti, genitori, ha ormai ben poco valore.

Insomma, mi spiegate come funziona sto cazzo di Fèis Bùch?

Sono diventato amico di tutta la mia ultima classe del linguistico. E fin qui vabbe’.

Ogni tanto mi arriva una richiesta di amicizia da parte di Lollo Birillo. A volte il nome vagamente mi dice qualcosa, a volte no. Magari è uno che ho conosciuto anni fa, poi mi sono dimenticato.

Mi scrivesse “Ciau, sono il tuo vecchio amico Lollo, da bambini giocavamo insieme alle figu nei giardinetti di Corso Svizzera, ti ricordi di me? Io ero quello col berrettino rosso che ti fregava le figu, tu eri quello che frignava sempre”. No. Richiesta di amicizia di Lollo Birillo. Prendere o lasciare.


Ho ricevuto una richiesta di amicizia di Mauricio Pistone, Argentina, di professione Proprietario di un Complejo de cabañas a orillas del lago Los Molinos, Córdoba. Argentina.

C’è una sua foto, in piedi, con la mano orgogliosamente appoggiata ad una motocicletta. La foto è minuscola, non riesco a distinguere la marca della motocicletta.


Insomma, avrete capito che il tema d’esame sull’Internet non avrei saputo svolgerlo.

Numeri, e stranieri

Dal rapporto INAIL pubblicato in questi giorni emerge che nel 2008 sono stati denunciati 44 casi di incidenti sul lavoro ogni 1000 lavoratori stranieri contro 39/1000 per gli italiani.

È probabile che il dato relativo agli stranieri sia sottostimato, a causa di una maggior frequenza di incidenti non denunciati. È quindi significativo il numero degli incidenti mortali, che sono molto più difficili da nascondere. Infatti, mentre per quanto riguarda il totale degli incidenti quelli a carico dei lavoratori stranieri sono il 16,4%, nel caso degli incidenti mortali il dato sale al 25%.

Da questi dati si può ricavare una conclusione molto chiara.

Gli stranieri sono molto più distratti degli italiani.

E non dite che questi sono discorsi razzisti: sono numeri, eh.

Germania 1933 Dialogo fra un nazista e uno sfigato di sinistra

Nazi: Visto le elezioni? Abbiamo vinto.

Sfigato di sinistra: Sì però…

N: Però che cosa? Abbiamo vinto perché avevamo il programma più concreto, più vicino ai reali interessi della gente.

Sds: Veramente non mi sembra…

N: Come non ti sembra? Perché, voi che proposte avete? Per esempio, quali sono le vostre proposte concrete per affrontare il problema ebraico?

Sds: Ma quale problema ebraico…

N: Ecco, lo vedi? Non avete proposte. Non vi rendete neanche conto del problema. Per questo la gente vi ha voltato le spalle.

Sds: Ma io non ho nessun problema con gli ebrei…

N: Ma certo, tu non lo vedi, perché sei un privilegiato, uno che vive a spalle del popolo, uno che ha lo stipendio garantito! Ma tu pensi che un poveraccio senza lavoro possa ignorare il problema ebraico? Pensi che la gente comune, la gente che lavora – non gli intellettualoidi che frequentate voi sfigati di sinistra – possano dire “ma per noi il problema ebraico non esiste” mentre l’ebreo stupratore gira indisturbato per le nostre città? Pensi che un onesto muratore che si alza alle quattro del mattino per andare sul cantiere possa fregarsene del piano giudaico di distruggere la razza germanica? Ma dove vivi? Voi di sinistra siete veramente fuori del mondo! E invece ecco che il nostro Führer ha trovato una soluzione concreta. Ed il popolo ha capito, il popolo che ha i piedi per terra, che capisce come vanno veramente le cose. Ed appoggia Adolf Hitler. Poi, risolto il problema ebraico, potremo passare al secondo punto del programma.

Sds: Quale sarebbe?

N: Ma è chiaro: la conquista del mondo.

Sds: Dunque volete un’altra guerra…

N: Ma sentilo, il radical-chic, l’intellettualoide da salotto! Ma certo, con un’altra guerra! Perché, tu pensi che si possa conquistare il mondo senza una guerra?

Sds: Ma la guerra… e poi ne abbiamo già persa una…

N: Razza di chiacchieroni senza palle, ma la volete capire che la gente è stanca delle chiacchiere, e vuole fatti? Certo, una guerra! Perché, voi siete contro la guerra?

Sds: Certo, noi siamo contro la guerra…

N: Aaaaaaa… ma allora siete proprio incorreggibili… siete davvero il partito del NO! Non avete soluzioni da proporre, siete solo capaci di dire NO a tutto! Il nostro Führer lavora giorno e notte per costruire le migliori guerre che si siano mai viste, e voi NO! Nient’altro che NO!

Sds: Ma la pace…

N: Eh, sì la pace! la paaaaace! la paaaaaaaaaaaaace! avete sempre solo questa parola in bocca! Parolai inconcludenti! Ma che cos’è la paaaaaaaaace che volete? Forse non fare più guerre? Ma non avete proprio nessun programma che non sia solo la negazione del programma del Führer! Il Führer dice “guerra” e voi sapete solo dire “paaaaaaace”! Ecco perchè più nessuno vi ascolta, più nessuno vi vota! Perché non avete un programma, non avete risposte, avete solo parole! Ma ora basta! Basta con le parole! Noi saremo il governo dei fatti, non delle parole! Una bella guerra, i piani sono già pronti, e Adolf Hitler sarà il Führer del mondo intero!

Sds: Ma voi siete dei pazzi… Hitler è un pazzo…

N: Ecco, me l’aspettavo, i soliti insulti! Quando non sapete cosa dire, quando non avete proposte concrete da fare, sapete solo insultare! Ma noi ce ne freghiamo dei vostri insulti, anzi, ci fanno piacere! Ah ah ah! Perché più ci insultate, più la gente scopre il vostro gioco, e dà più fiducia a Hitler! Vi siete degli illusi, se pensate che l’antihitlerismo vi faccia guadagnare dei voti! Insultateci, insultateci quanto volete, e vedrete che Hitler sarà il Führer per i prossimi cinquant’anni!

L’economia della scuola. Capitolo primo.

Ragionare per metafore può essere efficace dal punto di vista espositivo, ma dal punto di vista logico è quasi sempre capzioso.

In ogni caso, anche le metafore possono essere più o meno efficaci.

Una delle metafore più sciocche è quella della "scuola azienda".

Ci sono tantissimi motivi per cui ragionamenti di tipo aziendale non possono essere applicati alla scuola, provo ad enunciarvene uno.

Nella scuola non si possono fare economie di scala. Si possono fare economie di scala nell’edilizia scolastica, ed in alcuni altri aspetti marginali, ma nella didattica no. Anzi, dal punto di vista dell’insegnamento vero e proprio, è più probabile che si verifichino delle diseconomie di scala.

In altri termini, nella scuola si possono ragionevolmente perseguire tre obiettivi:

  1. il miglioramento della qualità dell’istruzione
  2. l’allargamento del sistema scolastico, e quindi l’aumento del numero dei diplomati
  3. la riduzione dei costi.

Ma non si possono perseguire questi tre obiettivi insieme. Si deve fare una scelta. Si decide quale deve essere l’obiettivo prioritario, ed in conseguenza di questa scelta almeno un altro obiettivo deve essere completamente abbandonato, e anche il raggiungimento del terzo può incontrare delle difficoltà.

Com’è noto, quasi cinquant’anni fa la società italiana si avviò verso la scolarizzazione di massa. Il primo atto fu la riforma della scuola media. Seguirono altre trasformazioni, con una loro storia particolare, che però nel complesso corrispondevano ad un’evoluzione comune a tutti i paesi avanzati.

Com’è evidente, questa scelta comportò un aumento dei costi. Forse anche un peggioramento della qualità dell’istruzione, anche se in questo caso sicuramente bisogna fare la tara dell’effetto ottico per cui tutto quello che c’era una volta era meglio ecc.

Oggi la scelta è la riduzione dei costi. Certo, ognuno ha la sua lista personale di sprechi che si potrebbero eliminare nella scuola, come in ogni struttura organizzata, soprattutto se è molto grande. Ma la riduzione dei costi che ci viene proposta va ben al di là di una semplice razionalizzazione della spesa.

È possibile che una società decida un’operazione di questo genere, purché sappia a cosa va incontro. Ridurre i costi, significa rinunciare o alla qualità dell’istruzione, o all’aumento del numero dei diplomati, o a entrambe le cose insieme.

Chi dice che si può avere un maggior numero di diplomati, meglio preparati, ad un costo minore, è un millantatore.

Populismo

Su it.cultura.linguistica.italiano un mesetto fa qualuno ha chiesto una definizione di “populismo”. Io ho provato a dare questo piccolo contributo, che oggi ripropongo qui:

Come spesso accade ai i termini politici, anche “populismo” assume 
nell’uso corrente significati diversi da quelli originari (populismo 
russo).

Per me i punti caratterizzanti sono quattro:

  1. Si indica come “popolo” un’entità indifferenziata, che ha un unico 
carattere, un’unica identità, identici valori. Chi non condivide 
quest’identità e questi valori è “nemico del popolo” (con tutte le 
varianti possibili: ebreo, komunista, intellettuale, radical-chic…) 
Nei confronti del “popolo” sono possibili solo due atteggiamenti 
opposti: identificazione totale, oppure esclusione.
  2. L’esistenza di “nemici del popolo” non è occasionale, ma 
indispensabile. La categoria di “popolo” è così vaga che non può essere 
definita in sé stessa, ma si costruisce e si rafforza nella continua e 
forte contrapposizione contro gli “altri”. “Noi” e “loro” è categoria 
fondamentale del populismo. Se “loro”, i nemici, non sono a 
disposizione, il populismo non ha mai difficoltà ad inventarsene.
    Una variante del “nemico del popolo” sono i “ricchi”: sfuttatori, 
privilegiati… Questo non esclude d’altra parte che alcuni ricchissimi 
possano essere visti come amici, anzi, venerati come espressione 
dell’autentica natura del popolo e della sua forza creativa – nei loro 
confronti, i “nemici” sono sfigati invidiosi.
    (I veri populisti non si preoccupano mai della coerenza logica delle 
loro scelte. La logica è roba da intellettuali. Il “popolo” ragiona col 
cuore – o i coglioni – non col cervello.)
  3. Poiché il “popolo” esprime in modo uniforme ed immediato la propria 
volontà, le mediazioni politiche ecc. sono un ingombro insopportabile. È 
il principio dell’“anti-politica”, che privilegia azioni dirette: fatti 
e non parole, prima picchiare e poi domandare, datecelo nelle mani che 
facciamo giustizia noi… Estesa all’ambito nazionale, l’anti-politica 
si esprime nel disprezzo verso le istituzioni e le procedure della 
democrazia parlamentare, tutta roba da spazzare via con una sana e 
vitale ventata di rivolta.
  4. Poiché le istituzioni sono un inutile impiccio, e la politica è 
sempre una cosa sporca, il populismo si esprime nella delega totale 
della volontà del “popolo” ad un Capo carismatico, che da una parte è 
“uno come noi”, ma dall’altra anche un uomo eccezionale che ha sempre 
ragione ecc. È lui il politico anti-politico, che farà piazza pulita del 
vecchio e superato apparato dei parolai inconcludenti. Del Capo si 
ammira il “fare”: qualunque azione possa essere interpretata come 
manifestazione di una superiore capacità di azione o di dominio, viene 
ammirata, senza alcuno scrupolo di tipo morale. Fra le virtù del capo, 
spesso si annovera l’aggressività sessuale, che è oggetto di un 
autentico culto.(1)

Una caratteristica interessante del populismo è che si tratta di un 
atteggiamento che non coinvolge solo i ceti popolari e le persone di 
modesta istruzione, ma spesso esercita un irresistibile fascino anche 
presso settori colti. L’intellettuale si sente in colpa di essere tale, 
teme la “torre d’avorio”, prova un’irresistibile nostalgia verso la 
semplice purezza delle persone umili, nei confronti delle quali 
l’istruzione appare come una ignobile caduta ed una manifestazione di 
sordido egoismo. Questo senso di colpa e di inferiorità si manifesta 
nell’adesione fanatica al capo carismatico, agli ideali più scombinati; 
per l’intellettuale convertito al populismo il non dover più pensare, 
l’affidarsi con fede cieca al fabbricatore di slogan è un sollievo 
ristoratore; condividere gli stessi entusiasmi della folla osannante e 
sbavante è una macerazione che porterà alla fine l’anima purificata alla 
totale confidente adesione all’oggetto desiderato. 
I danni che questa categoria di intellettuali può provocare sono 
incalcolabili.

Prima versione: Maggio 2009



(1) Quando pubblicai la prima versione di questo articolo, qualcuno mi disse che era una descrizione troppo modellata sulla figura di Silvio Berlusconi.

In realtà avevo tenuto presente tutt’altro personaggio – e di ben diversa levatura: Benito Mussolini.

Ormai non ha giù nessun interesse un paragone tra queste due figure di leader populisti. Oggi ce ne sono altri, che – almeno – su questo punto – sembrano seguire modelli diversi.

Ma tutto il resto dell’analisi, sul populismo in generale, sul leader populista in particolare, mi sembra clamorosamente confermata.

Soprattutto oggi, che l’ultimo bastione dell’anti-populismo, il PD, è stato trionfalmente espugnato.

Aprile 2015

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Le chiappe di Noemi

“Enrico C” ha scritto su it.politica.sinistra:

Però, santi numi, parliamo di politica concreta, non delle chiappe di Noemi!

Dichiaro qui pubblicamente al mondo intero, a destra e a manca, che delle chiappe di Noemi non me ne frega una beata mazza.

Però ci sono dei casi personali che, oltre un certo limite, diventano dei casi politici. Quando questo succede, c’è una grave responsabilità del ceto politico in generale, non del personaggio in particolare.

Io non ho ancora l’età di Berlusconi, ma so per esperienza famigliare che cosa significa invecchiare. Si può invecchiare bene, o male. È un normale fatto della vita. Io spero comunque di non invecchiare *così* male. Però se capitasse anche a me di andarmene in giro con la bottega dei pantaloni sbottonata, spero che chi mi sta intorno avrà l’umanità di descrivermi con delicatezza i vantaggi di una certa palazzina tutta bianca e pulita immersa nella tranquillità della campagna.

Purtroppo, nel centro destra s’è fatta una religione dell’accanimento terapeutico, e continuano a mandare avanti un personaggio ormai palesemente in rapido declino personale. Quel che indigna è, in primo luogo, la disumanità di questo trattamento, anche se è riservato ad una persona che ho sempre detestato. Ma non possiamo fare a meno di notare che Berlusconi, come ogni capo carismatico animato da uno smisurato delirio di onnipotenza, finirà divorato dal mostro che lui stesso ha creato: un movimento politico che si identifica con la sua persona, crollerà con il suo declino personale.