Dialogo d’un Pessimista e di Giacomo Leopardi

Un Pessimista e Giacomo Leopardi s’incontrano per caso su di un colle, di fronte ad una siepe.

Gava via ste ronze ch’a ‘mbreujo!”(*) esclama il Pessimista, rivolto al zappatore in fondo al campo.

Giacomo Leopardi non ribatte. Sa ch’è vano dialogare con un Pessimista.

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Come ognuno avrà capito, in questi giorni sono impegnato nel colloqui d’Esame.

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(*) Togli via codesti rovi, che ingombrano!

 

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #4

Contenuti

(Per intendere quello che ho detto e che dirò, si sappia che io prendo come riferimento quasi esclusivamente la Scuola Superiore, l’unica che conosco per esperienza diretta).

Per anni abbiamo avuto tentativi di riforme basate sui contenitori. Ma il grosso problema della scuola italiana è quello dei contenuti. In tutta la pletora normativa che si è riversata addosso agli insegnanti, con autentico accanimento sadico, la cosa che sembra completamente scomparsa sembrano essere i programmi. Molti addirittura sono convinti che non esistano neanche più. Pensate: non sono mai stati pubblicati sul sito del Ministero, dove invece (se uno ha la pazienza di districarsi in quel caos) si può trovare la più insignificante delle circolari. Si sa vagamente che i Programmi saranno sostituiti da Curricoli, o come diavolo verranno chiamati, o gli OSA: gli ultimi che ho visto, poco prima della fine della gestione Moratti, erano caratterizzati dalla meschina, pletorica pedanteria dei dilettanti (“se fossi io a fare i programmi ci metterei questo… e questo… e questo…”).

Finita l’epoca delle grandi utopie (le grandi sperimentazioni, a partire dai programmi Brocca) si è passati ad un estenuante e dispersivo bricolage, un po’ gestito individualmente dagli insegnanti (questo in realtà si è sempre fatto), un po’ improvvisato dai Collegi Docenti, sempre alla ricerca di novità per la clientela, di aggiornamenti al Nuovo. La sciagurata autogestione del Fondo d’Istituto ha trasformato gli insegnanti in cottimisti, un tanto all’ora, un tanto al corsicino, un tanto a Progetto. Togli un’ora di qua, metti un’ora di là; si inventano assurde “compresenze” per giustificare l’ora in più di questo, tanti euro all’ora, qualche specchietto per le allodole per la clientela, come se ai genitori importasse che si fa un’ora alla settimana in meno di Estrazione di Turaccioli per fare, in compresenza tra l’insegnante di Latte ai Gomiti e quello di Fumo negli Occhi, un progetto di 33 ore annuali di Tecnologia della Masticazione, o di Educazione alla Benevolenza.

Questo è l’ultimo punto d’arrivo della scuola italiana. La Scuola dei Progetti non ha più un progetto.

A questo punto devo precisare una cosa. Da quando intervengo su questi temi, in diversi gruppi di discussione, ricevo la qualifica di “gentiliano”. È vero che io ho fatto (per sei anni) il Liceo Classico, e ho incoraggiato (non obbligato) mio figlio a frequentare lo stesso Istituto che ha visto maturare i miei brufoli. Ma quando penso ad un modello alto di scuola, penso ad un tipo di istituto che ho conosciuto anni dopo, da insegnante: l’Istituto Tecnico Industriale.

Gli ITIS, non il liceo gentiliano, sono stati il fiore all’occhiello della scuola italiana. Erano il giusto equilibrio fra conoscenza e competenza, fra teoria e pratica, fra visione generale del mondo e preparazione al lavoro, fra scuola di massa e scuola di formazione di un’élite capace e responsabile. Soprattutto, erano scuole che giravano intorno ad un progetto razionale, coerente e lungimirante. L’idea di dare una conoscenza complessiva di un settore produttivo, che permettesse sì di andarci a lavorare, ma non con mansioni puramente esecutive, non come manovalanza usa e getta. Lavorare sapendo quello che si fa, e perché si fa. Il lavoro come conoscenza, e la conoscenza come lavoro.

Gli Istituti Tecnici (i migliori, per lo meno) avevano alla loro base una cosa che in Italia si è persa: l’etica del lavoro. Un vero umanesimo, dove il lavoro non è un semplice strumento per soddisfare i bisogni ed i consumi più elementari, ma è esso stesso il soddisfacimento di un bisogno fondamentale dell’uomo. Questa, in fondo è l’essenza del comunismo.

Dato che auspico un nuovo ’68, è chiaro che non sto parlando solo di una riforma della scuola, ma di una vera rivoluzione che deve partire dalla scuola. Certo, gli anni ci hanno insegnato che non si può cambiare il mondo: non sarà la scuola italiana che porterà la pace in Palestina, l’acqua in Africa, l’onestà in Parlamento. Ma vorrei che gli insegnanti cominciassero tutte le mattine il loro lavoro con questo pensiero: devo insegnare ai miei ragazzi che se una cosa va fatta, va fatta bene. Va fatta sapendo quel che si fa. Va fatta che abbia un senso. Va fatta perché va fatta.

Dite che è poco, come Rivoluzione.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #3

Merito

Visto che il tema del dibattito attuale è il merito, e continuo a parlare di “forte motivazione etica”, cominciamo da qui, dagli insegnanti che vorrebbero fare di più e meglio.

Qui si confrontano due visioni completamente opposte del mestiere dell’insegnante. La prima vuole porre l’accento sulla coscienza personale. L’insegnante è il primo che può giudicare quello che può e deve fare in una determinata situazione – a scuola, le situazioni sono tutte diverse, e non sono possibili soluzioni preconfezionate. L’insegnante prende, di volta in volta, le decisioni che ritiene le più opportune – rischiando di sbagliare, s’intende. Ma, come diceva Biagi, sbaglia in proprio, e si assume le proprie responsabilità. Nel rispetto delle norme vigenti (tra l’altro, nel rispetto dei programmi vigenti), ha un ampio margine di discrezionalità; è quella “libertà didattica” che dev’essere molto importante, visto che è tutelata perfino dalla Costituzione.

Il problema di questo sistema è che la libertà, la responsabilità non sono valori quantificabili. Il “merito” non può avere altro premio che quello della propria coscienza, e della stima di quei pochi che ne condividono i valori. Certo, vi deve essere un’adeguata retribuzione delle diverse mansioni, non tutte uguali, che un insegnante può svolgere nella scuola oltre all’attività didattica strettamente intesa; ma l’attività didattica di per sé non è valutabile in modo “oggettivo”. È possibile individuare e anche sanzionare i “cattivi” insegnanti, cioè quelli che si rendono responsabili di vere ed evidenti manchevolezze; ma non è “oggettivamente” misurabile la bravura di un insegnante bravo – neanche di quello che tutti considerano tale. La pubblica fama è un dato oggettivo; ma non esiste un famometro infallibile.

L’altro sistema, è quello della misurazione del “merito”, e degli incentivi. Quelli che sostengono questo sistema, non hanno mai saputo spiegare in modo convincente quale sarebbe il metodo di misurazione di questo “merito”. Ma ammettiamo che lo sia. Se è così, tutta l’attività dell’insegnante è sottoposta ad un processo di valutazione, cioè all’attenzione di valutatori. Quali che siano i criteri di valutazione, sono stati decisi in sedi diverse da quelle in cui si svolge l’attività didattica.

Togliamoci, per favore, dalla testa che i “criteri” di valutazione del merito siano qualcosa che “esiste”. Non siamo arrivati a quest’età per credere a queste fantasie platoniche. Se esiste un criterio di valutazione, è perché qualcuno l’ha deciso. E se esiste una valutazione è perché qualcuno, in base a questo criterio, valuta. La grande forza dei numeri! Una fregatura, come ogni dogma.

Ebbene, immaginiamo un sistema dove il “merito” viene valutato “oggettivamente” e dà luogo ad un “incentivo”. Risultato? Ognuno di noi, invece di pensare a che cosa fare per fare meglio il proprio lavoro, in quella data situazione, in base alle proprie convinzioni e alla propria esperienza, cercherà di fare la cosa che gli assicurerà una migliore valutazione. Il che significa:

  1. evitare il più possibile di prendere decisioni;
  2. evitare come la peste di assumersi delle responsabilità.

Decisioni e responsabilità verranno scaricate sui “valutatori”, e sui loro bei criteri “oggettivi”, fissati da non si sa chi. E immagino che a loro volta i valutatori si preoccuperanno di essere valutati. Risultato: un sistema incapace di prendere decisioni, in cui nessuno si assume la responsabilità di niente.

Naturalmente il primo sistema, quello che si basa sulla professionalità, non si instaura per decreto. Occorre una grande forza culturale. Bisogna che nella scuola esistano dei valori forti e condivisi, su quello che deve essere l’insegnamento; che su questi valori si discuta, perché solo attraverso la discussione possono radicarsi, ma che non possano essere negati. In ogni caso, non può esistere un sistema scolastico che non ponga alla sua base il valore supremo della conoscenza. Sembra incredibile, ma anche su questo ormai siamo ridotti a discutere.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #2

Professionisti

Quando parlo di forte motivazione etica, non intendo un generico altruismo. Non mi interessa l’insegnante missionario. Mi interessa l’insegnante professionista. Ma essere professionisti non significa solo avere conoscenze e padroneggiare procedure. Significa avere chiara visione dello scopo della propria attività. Dedicare, a questo scopo, non necessariamente la vita (non siamo martiri o asceti), ma le proprie energie lavorative. E soprattutto, assumersi le proprie responsabilità. Fare quello che va fatto. Questo è il più grande diritto e il più grande dovere degli insegnanti. Essere dei veri professionisti. Tutto il resto viene di conseguenza; anche il riconoscimento sociale ed economico.

Occorre rivendicare interamente la propria responsabilità professionale. Da diverse parti si tende a svuotare questa professione, a renderla sempre di più un piccolo ingranaggio di una grande macchina burocratica. Fortunatamente non si sentono più tanto i discorsi deliranti di chi voleva sostituire gli insegnanti con macchine ecc.; ma molti (purtroppo anche molti insegnanti) vorrebbero la progressiva parcellizzazione delle attività. Per esempio separare la didattica dalla valutazione. È una boiata pazzesca. La valutazione è parte integrante della didattica. Separare l’insegnamento dalla didattica sarebbe come se in medicina si separasse la diagnosi dalla terapia. A nessuno verrebbe in mente una stupidaggine del genere. E se a qualcuno venisse in mente, i primi ad insorgere sarebbero – giustamente – i medici.

Per un nuovo ’68 degli insegnanti #1

Etica

È di pochi giorni fa la notizia che tutti (o quasi) i Länder tedeschi hanno emanato tassative direttive per ridurre o addirittura eliminare la bocciature dalle scuole. Motivo: le bocciature costano.

http://tinyurl.com/3nel6d

http://tinyurl.com/3zjqx6

Non conosco a sufficienza il sistema scolastico tedesco per poter valutare la portata (e la veridicità) di questa notizia. Diciamo che prendo spunto da questa, e faccio finta che sia vera, come espediente retorico, proprio perché viene da fuori Italia, per di più da un paese dove il governo federale è retto da una grande coalizione di centro destra e centro sinistra a guida democristiana. Questo dovrebbe togliere la voglia di perdersi in beghe di bottega o risse di tifoserie politiche.

Insomma, qui non si tratta di litigare su Berlinguer o Moratti o Fioroni o Gelmini (o Gentile o Don Milani). Si tratta di prendere atto che una iniziativa di questo genere esprime con brutale chiarezza  quando più o meno apertamente, con decisioni più o meno ufficiali, si sta verificando in gran parte del mondo – come ognuno sa, anche in Italia.

Alla base di quelle scelte non c’è una dottrina politica o pedagogica, non c’è il buonismo o il mammismo, non c’è il non uno di meno né la pecorella smarrita né la contestazione studentesca. C’è la brutale forza dei numeri: le bocciature costano.

È questa la fine del ’68, che tanti hanno bellicosamente annunciato, ma solo la soporifera unanimità della Grande Coalizione tedesca ha compiutamente realizzato.

Il ’68, come tutti i grandi fenomeni storici, è stato tante cose insieme, anche tante cose contraddittorie insieme. Ma tra queste tante cose c’era un’idea forte. L’idea che la conoscenza, la cultura fosse il grande motore del movimento sociale. L’idea che la scuola potesse essere il cardine della trasformazione. Su tutto questo è calata una pietra tombale su cui sta scritto: COSTA TROPPO.

È una pura coincidenza che io dica queste cose proprio nel momento in cui viene annunciata la formazione di un nuovo ministero (e, probabilmente, la risurrezione del MIUR, non più Ministero della Pubblica Istruzione). Avrò occasione fra poco di dire alcune cose in polemica diretta con certe prese di posizione della signora Gelmini, ma prima voglio sintetizzare in poche frasi il mio appello.

Auspico un nuovo, grande movimento di rivolta – questa volta non degli studenti, ma degli insegnanti. Auspico che una grande forza di massa imponga all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità di ripartire dalla scuola. Auspico che si rialzi la bandiera della grande utopia liberale e umanitaria della cultura come forza vivificatrice dell’intera società, della scuola come principale strumento di emancipazione dei ceti poveri. Auspico che questo movimento affronti sì anche i problemi materiali e rivendicativi della condizione dei docenti, ma sia in primo luogo un movimento con una forte motivazione etica.

Credevo fosse il Seicento, invece era oggi!

L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.

(Promessi Sposi, cap. I)

Nelle vie della mia città …

Nelle vie della mia città vedo appesi ai portoni piccoli cartelli bianchi con una scritta incerta: “Si affitta solo a piemontesi”.

Nei bar, nei luoghi di lavoro, nelle sale d’aspetto, è diffusa la preoccupazione per questa inattesa invasione, che sembra inarrestabile. Sono meridionali, tanti. Poveri, stracciati, un po’ disperati. Prima arrivano i giovani, più arditi, anche un po’ aggressivi; poi, appena si sono sistemati, fanno venire le loro sterminate famiglie, e si sistemano con i materassi per terra, in sei, otto per stanza.

I discorsi dei buoni cittadini sono pieni di preoccupazione. Si sa come sono i meridionali. Non hanno voglia di lavorare, hanno sempre il coltello in tasca, fanno un mucchio di figli che poi lasciano in mezzo alla strada perché non sanno come mantenerli. C’è una grande insicurezza; una volta si usciva di casa senza neanche chiudere la porta; oggi rischi di rientrare e trovare il meridionale che ti svuota l’alloggio, e magari ti dà una bastonata, o peggio. Le donne hanno paura ad uscire da sole; ed anche gli uomini sanno in che in certi quartieri non è il caso di farsi vedere dopo una certa ora.

Certo, molti lavorano, ma sono ancora peggio, perché tolgono lavoro a tanti nostri giovani, accettano salari da fame, accettano condizioni di lavoro tremende, pericolose, malsane; e così fanno una concorrenza sleale, danneggiano anche noi.

Quelli che sono sistemati da qualche tempo, mandano anche i figli a scuola. Le maestre sono preoccupate, non sanno come trattare con questi bambini che parlano in modo strano, non sanno esprimersi né in italiano né in piemontese, ma solo nel loro incomprensibile dialetto, che dividono le classi in due gruppetti rivali, diffidenti.

Questa è la grande istanza che emerge dalla sensibilità popolare. È una sensibilità diffusa, radicata, condivisa. Non è possibile ignorarla. Ma…

MA…

Ma nessun partito, né grande né piccolo, né di destra né di centro né di sinistra, cerca di trasformare questo sentimento così diffuso, questa domanda così forte, in voti. Non è su questi temi che si combattono le campagne elettorali. La televisione, che esiste da pochi anni, e che ancora pochi hanno, ma ha già un peso fortissimo sulla coscienza comune, non apre ogni telegiornale con la notizia del barese assassino, la banda degli scassinatori napoletani, il siciliano che guidando ubriaco ha travolto e ucciso una bimba. Non si formano le ronde per liberare le strade dai lucani e dai sardi (e pure dai veneti, che non sono meridionali, ma poco ci manca). Non si formulano progetti di legge per espulsioni in massa. Le forze di sinistra non proclamano solennemente che la loro, non quella della destra, è la ricetta sicura per garantire la sicurezza dei cittadini minacciata dal meridionale che delinque.

Orwell e dell’Utri

Un corrispondente ha risposto al mio articolo Ve lo meritate Veltroni sostenendo che Prodi “non ha mai avuto un voto”; la prima volta “è salito al potere dopo elezioni vinte dallo stesso Berlusconi”; quanto alle elezioni del 2006, il cui ricordo è un po’ più fresco, i voti sono per lo meno “dubbi”.

È un modo di pensare chiaramente spiegato da Orwell. Ogni cambiamento del presente impone di cambiare il passato – perché ogni passato che non corrisponde al presente è un “mito”. Berlusconi ha vinto le elezioni del 2008 (ma che vinte, “stravinte”, col suo 47,3%). Di conseguenza, non è possibile che qualche volta le abbia perse! (Tutto sommato, a guardare in questi anni i telegiornali, si è avuto spesso l’impressione che nulla sia mai cambiato nel governo del Paese).

Dell’Utri ha subito annunciato che dopo il 13 aprile sarà necessario cambiare i libri di storia. Se è possibile rovesciare il risultato delle elezioni di 12 anni fa, il cui ricordo dovrebbe essere ancora abbastanza fresco nella mente di chi vi ha partecipato, figuriamoci i pallidi fantasmi della Resistenza. Berlusconi è al governo: quindi Berlusconi ha “sempre” avuto la maggioranza. I fascisti sono tornati al potere: di conseguenza non sono “mai” stati sconfitti, e il 25 Aprile è solo un tragico ma limitato episodio di brutale violenza.

Sarà interessante vedere anche i riflessi internazionali di questa dottrina. Il precedente governo di destra è stato caratterizzato da una forte alleanza con l’America di Bush, segnata dalla partecipazione all’avventura irachena. La vulgata storiografica era, di conseguenza, che gli Americani da soli hanno vinto la II Guerra Mondiale, vicenda segnata da due soli fatti d’arme significativi: El Alamein e lo sbarco in Normandia. Churchill e De Gaulle sono finiti in una piccolissima nota a piè di pagina. Tito, si sa, era un mostro interessato solo a distruggere gli Italiani. Le stesse armate sovietiche se la sono cavata per un pelo perché erano rifornite ed equipaggiate dagli Americani. Vedremo se le cose cambieranno con il nuovo corso Putin-Aeroflot. Chissà se nei prossimi mesi leggeremo che in Russia i comunisti non sono mai stati al potere, che il KGB ha sempre ambito a collaborare amichevolmente con il nostro paese, che i grossi Tupolev russi da sempre sognavano di atterrare a Malpensa, ma ne erano tenuti lontani dal perfido TPS (alleato delle Coop rosse e dei magistrati di sinistra, s’intende).

Nel Sessantotto

Too much and for too long, we seemed to have surrendered personal excellence and community values in the mere accumulation of material things. Our Gross National Product, now, is over $800 billion dollars a year, but that Gross National Product — if we judge the United States of America by that — that Gross National Product counts air pollution and cigarette advertising, and ambulances to clear our highways of carnage. It counts special locks for our doors and the jails for the people who break them. It counts the destruction of the redwood and the loss of our natural wonder in chaotic sprawl. It counts napalm and counts nuclear warheads and armored cars for the police to fight the riots in our cities. It counts Whitman’s rifle and Speck’s knife[1]. And the television programs which glorify violence in order to sell toys to our children. Yet the gross national product does not allow for the health of our children, the quality of their education or the joy of their play. It does not include the beauty of our poetry or the strength of our marriages, the intelligence of our public debate or the integrity of our public officials. It measures neither our wit nor our courage, neither our wisdom nor our learning, neither our compassion nor our devotion to our country, it measures everything in short, except that which makes life worthwhile. And it can tell us everything about America except why we are proud that we are Americans.

Con troppa convinzione, e per troppo tempo, abbiamo rinunciato alla nostra promo­zione personale e ai valori della nostra comunità in favore della semplice accumula­zione di beni materiali. Il nostro Prodotto Nazionale Lordo è ora di 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Prodotto Nazionale Lordo, in base al quale giudichiamo le condi­zioni degli Stati Uniti d’America, comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze che liberano le autostrade dalle stragi del traffico. Comprende serrature speciali per le nostre porte, e prigioni per quelli che le rompono. Comprende l’abbattimento delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nel caos urbanistico. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate usate dalla polizia contro le rivolte urbane. Comprende le armi usate per stragi e delitti. E i programmi televisivi che trasudano violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini. Invece, il Prodotto Nazionale Lordo non calcola la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione e la gioia dei loro giochi. Non include la bellezza della nostra poesia e la durata dei nostri matrimoni, l’intelligenza del dibattito politico o l’onestà dei pubblici amministratori. Non valuta né l’ingegno né il coraggio, né la saggezza, la cultura, l’altruismo, l’amore per il nostro paese. In poche parole: misura tutto, tranne quello che rende la vita degna d’essere vissuta. Ci dice tutto sull’America, tranne il motivo per cui siamo orgogliosi di essere Americani.

 

Robert Kennedy, Discorso all’Università del Kansas, 18 Marzo 1968


[1] Charles Whitman e Richard Speck furono protagonisti di drammatici fatti di cronaca alla metà degli anni ‘60
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Ve lo meritate Veltroni

Romano Prodi è quel disastro di comunicatore che ben sappiamo. Ma è stato uno dei grandi uomini di governo dell’Italia. A distanza di dieci anni ha battuto due volte Berlusconi, che i servitorelli dell’informazione presentavano e continuano a presentare come una specie di supermèn. Entrambe le volte si è trovato ad operare in condizioni difficilissime, ed ha fatto il massimo che si poteva per salvare l’Italia dalla bancarotta. Entrambe le volte è stato buttato giù da partitini alleati quando la sua azione era stata appena abbozzata. Entrambe le volte ha ricevuto dai suoi sostenitori un appoggio che dire tiepido è poco.

Alle ultime elezioni il suo nome non compariva neppure sulla scheda. Mentre dall’altra parte c’era Berlusconi Presidente dappertutto, il (più o meno centro)-sinistra si è presentato con una nuvoletta di simboli che non so cosa potevano rappresentare per gli elettori. Non aveva ancora messo piede a Palazzo Chigi che già era d’obbligo partecipare al coro: Delusione! Gli sono state imposte misure squinternate, un indulto che purtroppo è andato in porto, una legge anti-romeni che fortunatamente qualcuno è riuscito a peggiorare al punto da renderne impossibile l’approvazione – il primo caso nella storia di una legge che cade in Parlamento non per un voto contrario, ma per la sua troppo evidente stupidità. Intanto Santoro mandava in televisione per tre quarti d’ora operai lumbàrd che urlavano Prodi vattene.

Adesso abbiamo Veltroni, un grande comunicatore, un abilissimo tattico. La scelta di presentarsi da solo alle elezioni è stata indubbiamente temeraria, ma alla fine forse funzionerà. Ha messo fuori De Mita, e per questa sola cosa meriterebbe di vincere. Ma naturalmente, ci deve dar sotto con la demagogia. Mille euro di qua, castrazione chimica di là. È possibile che vinca; cosa farà quando sarà al governo, non lo sa nessuno, e sinceramente, non mi sento molto tranquillo.