Il libro, la lettera, Internet

Le norme sull’informazione sono state fissate in età moderna quando i grandi settori della comunicazione erano due:

  1. La stampa: libri, giornali e periodici. In questo caso abbiamo la comunicazione unidirezionale da uno (o pochi) a molti. La comunicazione avviene attraverso supporti singoli, concreti, numerabili, non riproducibili senza un’attrezzatura complessa.

    È su questa base tecnica che sono state costruite le moderne leggi sui diritti d’autore e sulla libertà di stampa.

    Le stesse leggi sono poi state estese a tutti i supporti fisici, come i dischi ecc., e alle forme di trasmissione broadcasting, come la radio e la televisione, che hanno in comune con la stampa la comunicazione unidirezionale da uno a molti, anche se la trasmissione non avviene su supporti fisici numerabili.

  2. L’altro settore è la posta: un grande servizio pubblico che permette la comunicazione bidirezionale e riservata uno a uno.

    Prima dell’800 esisteva già la lettera, ma farla pervenire a destinazione era sempre una cosa difficoltosa. Con i servizi postali nazionali, e con l’invenzione del francobollo, la posta diventa un servizio alla portata di tutti.

    Sulla base del servizio postale sono state emanate le norme sulla riservatezza della corrispondenza, norme poi estese al telefono e ad altri sistemi analoghi.


L’estensione di queste norme all’informatica e al Web all’inizio hanno puntato su delle forme di semplice analogia.

Internet è stata vista per un certo tempo come una televisione con milioni di canali.

La diffusione del software è stata considerata un’estensione della diffusione della stampa – per questo continua l’affezione ad un supporto ormai obsoleto come il disco ottico.

Le mail anche nel nome richiamano la buona vecchia posta.

I siti di attualità sono stati considerati alla stregua di testate giornalistiche, con tanto di obbligo di registrazione – anche se nessuno è mai riuscito a definire in modo soddisfacente che cosa è una “testata giornalistica” in rete.

Usenet, forum, P2P… be’, qui è un po’ più difficile. Una piazza? un mercato? una bacheca? un suk?

Poiché appunto sono estensioni analogiche di vecchie categorie, la realtà ormai scappa da tutte le parti.


Prendiamo in mano un buon vecchio libro, e pensiamo di che cosa si tratta, da un punto di vista concreto, materiale, prescindendo dalla normativa che ne regola la produzione e la circolazione.

Il libro è prodotto in grandi stabilimenti industriali, con una tiratura predeterminata, e costi proporzionali alla tiratura. Non può essere riprodotto agevolmente con strumenti semplici. Se voglio comunicare ad un amico le informazioni che ho trovato in un libro, la cosa migliore è regalarglielo, o imprestarglielo (operazione che spesso coincide con la prima). Ma dal momento in gliel’ho dato, io rimango senza.

Accendiamo ora il computer, e pensiamo a quando per la prima volta ci è stato spiegato che cos’è un sistema operativo. Dentro la memoria del computer le informazioni sono organizzate sotto forma di file. Le operazioni fondamentali sono: copiare un file, spostare, cancellare

Da un punto di vista tecnico (di nuovo, prescindendo dalla normativa) il computer è essenzialmente questo: una macchina che maneggia informazioni con modalità che ne permettono l’immediata, illimitata e gratuita replicazione e diffusione.

Possiamo girarla come vogliamo, ma a questo ambiente, non a quello del libro, dobbiamo dare una regolamentazione.

Prendiamo ora una lettera (quand’è l’ultima volta che avete scritto una lettera?) Un foglio scritto pazientemente con inchiostro nero – o romanticamente azzurro, verde, marroncino seppia ecc. Una busta, chiusa (lap!), un francobollo (lap!). Si mette nella cassetta, e si aspetta con trepidazione la risposta: due giorni, tre giorni… una settimana… perché non arriva?

Si fa più in fretta con una mail, no? Più o meno è la stessa cosa, a parte che non si usa l’inchiostro verde ecc. e non si compra il francobollo. Se dopo mezz’ora non arriva niente, cominciamo ad innervosirci.

Le due forme di comunicazione hanno un aspetto importante in comune: la riservatezza. Se qualcuno, non autorizzato, apre le nostre lettere, sbircia nella nostra casella di posta, ci secchiamo, e non poco.

Però… la stessa mail può essere mandata a due, tre, trenta… destinatari. Senza fatica, senza spesa. In un click. Ci sono tanti programmini gratuiti per creare una vera newsletter. Siamo passati quasi senza accorgercene ad una comunicazione di tipo broadcasting. È un po’ più complicato, ma sempre alla portata di chiunque, creare una mailing-list. Ciò che ognuno dei corrispondenti scrive, viene letto automaticamente da tutti gli iscritti. È una cosa che con la posta normale non si potrebbe fare – neanche usando un pacco così di francobolli. Siamo passati all’agorà. Tutti parlano con tutti, tutti leggono ad alta voce sulla pubblica piazza le lettere che hanno ricevute e spedite. Questo non ha più niente a che vedere con la vecchia lettera, il francobollo, l’indirizzo svolazzante…

Internet è stata inventata per questo, non per altro. Tutti sono in contatto con tutti. È così che funziona.


Riassumendo:

  1. Stampa: comunicazione unidirezionale, pubblica, da uno (pochi) a molti.
  2. Posta: comunicazione bidirezionale, riservata, da uno a uno.
  3. Internet: comunicazione, tendenzialmente pubblica, da tutti a tutti.

La comunicazione informatica può essere inclusa nei due sistemi precedenti, a patto però di limitarne enormemente le potenzialità.

Le regole fissate nell’800 per le forme 1 e 2 non si adattano alla comunicazione di tipo 3. Sarebbe come costruire il Codice della Strada partendo da norme emanate al tempo in cui si trasportavano le merci su carovane di muli attraverso i valichi transalpini.

Le potenzialità tecniche prima o poi abbattono le normative irrazionali. Con l’invenzione dell’automobile, abbiamo un sistema di trasporto molto più veloce di un mulo. Certo, è necessario imporre, per esempio, un limite di velocità. Ma deve essere un limite coerente con le caratteristiche tecniche del mezzo che vogliamo regolamentare.

C’è una strada in mezzo alla campagna, un bel rettilineo di quattro corsie, pulito, con le righe bianche verniciate di fresco, senza ostacoli. Il limite è di 90kmh. Vabbe’, non pretendiamo che andiate proprio ai 90, magari si spinge un po’, ai 100, ai 110… Chi non l’ha fatto. Ma se tirate fino ai 220, 240, 260, siete proprio dei pazzi. 90 è un limite ragionevole.

Ecco, in quel rettilineo dove tutti vanno a 90 all’ora, o poco più, improvvisamente compare un cartello: LIMITE 20KMH. È una follia. Nove su dieci proseguono senza badarci. “C’era il limite? Ah sì? tu l’hai visto? E di quanto?” Uno su dieci si butta sul freno, inchioda, e si fa tamponare violentemente da quelli che vengono dietro. Un disastro.

È inutile dire: se tutti avessero rispettato il limite non sarebbe successo niente. Invece è successo. Le automobili esistono, e finché non avremo un sistema di trasporto migliore, ci teniamo quelle. Sono state fatte per viaggiare più velocemente di un mulo – anche di un mulo da corsa che va a 20kmh. Non le possiamo disinventare. Non possiamo trasformare il traffico in un’assurdità tecnica solo perché il sindaco di un piccolo comune ha le paranoie.

Il Web e il diritto

Vi sono stati due eventi – uno già di qualche settimana fa, l’altro di questi giorni – che, pur essendo apparentemente limitati a situazioni specifiche, pongono dei grandi interrogativi, a cui sarebbe un gravissimo errore non saper dare una risposta.

Dico subito che questi due eventi hanno in comune un aspetto: che alcune funzioni tradizionalmente proprie dello Stato vengono trasferite a privati, e che in questo trasferimento di competenze seguono regole che sono esattamente l’opposto di quelle che dovrebbero regolare i rapporti fra i cittadini e l’amministrazione pubblica.

È nota la vicenda della tassazione dei supporti di memoria. Prima si è trattato di supporti tradizionali: CD ecc. Poi, qualche settimana fa, la tassazione è stata estesa ad ogni tipo di supporto: comprese le memorie dei telefonini e le unità di back-up. I proventi di questa tassazione dovrebbero compensare i titolari di diritti d’autore, organizzati nella SIAE, dei danni subiti ad opera della pirateria informatica, che si basa appunto sulla possibilità di memorizzare e distribuire opere su supporti elettronici.

Si tratterà di pochi euri, per carità. E i pirati informatici sono così antipatici. Ma se guardiamo alla logica che sta alla base di questo ragionamento, vediamo che si sono affermati due principi completamente nuovi:

  1. Lo Stato agisce come percettore di una tassa a favore non di un servizio pubblico, ma direttamente di un privato. È paradossale, ma altamente significativo, che questa iniziativa sia stata presa da forze politiche che hanno costruito gran parte del loro successo elettorale non solo promettendo una riduzione del carico fiscale, ma presentandosi come eversori di una “dittatura statalista” che avrebbe proprio nel sistema fiscale un pilastro del proprio dominio. Padoa Schioppa fu messo in crode per aver definito “bellissime” la tasse che servono a pagare i servizi pubblici. Ora è “bellissima” una tassa a favore di privati.
  2. La norma parte da un pregiudizio di colpevolezza. Chi compra un supporto di memoria “molto probabilmente” lo userà per conservarci sopra materiale illegale; e in base a questo semplice sospetto, deve essere sottoposto ad una misura punitiva. Di nuovo, è paradossale, e significativo, che una misura di questo genere sia stata presa da forze politiche che hanno fatto del “garantismo” una bandiera. Ma il garantismo vale, evidentemente, solo quando si tratta di reati contro la pubblica amministrazione e il pubblico interesse; quando si tratta di danni nei confronti dei privati, vale la giacobina “loi des suspects”.

L’altra vicenda è quella relativa alla condanna dei dirigenti di Google.

Vorrei premettere alcune parole rispetto alle modalità con cui viene comunicata la vicenda. Si insiste sul fratto che tutto nasce da un video di violenze a carico di un disabile. Ed anche sul fatto che Google da queste attività ricavi un mucchio di quattrini. Sono due modalità tipiche del populismo. Si prende un fatto singolo, un caso estremo, che colpisce fortemente l’emotività, e lo si usa per costruire un criterio generale. Un caso di stupro diventa il criterio e il movente per la politica nei confronti dei Rom ecc. L’altra modalità è individuare nel nemico l’odioso “ricco”. La Repubblica attacca Berlusconi! Ma la Repubblica appartiene al ricchissimo De Benedetti ecc. Ecco la prova che Berlusconi è nel mirino di “poteri forti” ecc.

Google ha permesso la circolazione di un video di violenze a carico di un disabile! Anzi, ci ha guadagnato sopra! È da condannare, no?

La prima cosa che viene in mente è l’art. 21 della Costituzione

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili…

Con questa sentenza viene affermato il principio che in un sistema di comunicazione di tipo “forum”, come Google Video o YouTube, il gestore deve effettuare una censura preventiva dei contenuti. Una censura preventiva che è espressamente vietata dalla Costituzione; ed effettuata da un soggetto privato, non da un magistrato.

(Che la cosa sia molto dubbia è dichiarato già dalla sentenza stessa: i dirigenti di Google sono stati assolti dall’accusa di diffamazione nei confronti della vittima della violenza, ma sono stati condannati in base a quella specie di oggetto misterioso che è la “tutela della privacy”.)

Estendiamo il principio. Il gestore di un servizio è responsabile di ciò che fanno i suoi clienti. Dei delinquenti hanno progettato una rapina riunendosi in un bar. Da condannare i delinquenti, ma anche il proprietario del bar, non vi sembra? Ebbene d’ora in poi i baristi devono guardare bene in faccia i loro clienti, prima di prendere le comande; e se sarà necessario, dovranno accompagnare alla porta quelli che hanno la faccia da delinquente.

È curioso che questo servizio di vigilanza da parte di fornitori privati di un servizio sia preteso in un paese in cui si discute della limitazione delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura.

Alla base di entrambe le decisioni c’è sicuramente un problema culturale. La società fa ancora fatica a comprendere le nuove tecnologie – a comprendere non da un punto di vista strettamente tecnico, intendo. Non è imparando a schiacciare i bottoncini che si impara che cos’è il Web (anche nella scuola, una delle iniziative più deleterie di questi ultimi anni è stata la promozione della cd. ECDL). Manca una riflessione culturale sulle trasformazioni economiche e sociali indotte dalla Rete. Quindi ci si arrabatta, applicando in modo maldestro ai nuovi fenomeni una normativa nata in un contesto completamente diverso – come se si cercasse di regolare la Borsa con le norme dell’Editto di Rotari.

C’è però anche un enorme problema politico. L’esaltazione del Mercato ha portato a concepire l’utopia in cui l’interesse privato prende il posto delle leggi dello Stato. Il Diritto stesso viene privatizzato; la tutela della legalità viene spostata dalle istituzioni agli operatori privati. È l’astrazione di una Società Civile che non ha più bisogno dello Stato; una esercitazione teorica che viene trasformata in un progetto politico concreto.

Ebbene, su queste cose è necessaria una riflessione approfondita.

Giorno del Ricordo

È passata, quasi inosservata, la Giornata del Ricordo.

Qualcuno ha voluto contrapporre ai morti italiani i tantissimi morti jugoslavi.

Io non la liquiderei così facilmente la questione, con un bilancio a due colonne degli ammazzati dall’una e dall’altra parte.

È un fatto che nei libri di storia della scuola italiana (forse di tutto il mondo) la II guerra mondiale è ancora oggetto di enormi rimozioni.

Per quanto riguarda noi, si comincia a vedere qualcosa della guerra d’Etiopia, e della fine miseranda di quell’Impero che era stato annunciato con grandi fanfare. L’Etiopia era l’unico fronte su cui l’Italia operava senza il supporto determinante dell’alleato tedesco, e dopo appena dieci mesi di guerra le truppe italiane lasciarono Addis Abeba senza combattere. (Meglio così. Il povero Amedeo di Savoia ha fatto la cosa più sensata).

Ma una totale rimozione riguarda il fronte più vicino a noi, quello in cui cui le operazioni militari durarono per quasi tutti i cinque anni di guerra: la Jugoslavia. Fu il fronte più impegnativo di tutti, e quello che assorbì la maggior parte delle risorse belliche che l’Italia monarchica e poi repubblichina riuscì a mettere insieme.

Non so quanti libri di storia parlino del Regno di Croazia, sul cui trono (sia pure solo nominale) c’era un certo Aimone di Savoia; della politica di deslavizzazione iniziata fin dagli albori del fascismo (nel 1920 le camicie nere diedero alle fiamme la Casa di Cultura Slovena di Trieste); del confuso sostegno dato dall’Italia contemporaneamente agli Ustascia croati, e ai Cetnici serbi, in un’azione di sterminio incrociato che riuscì a disgustare perfino gli ufficiali delle Wehrmacht; dell’annessione della provincia di Lubiana, rispetto alla quale neanche i più esaltati irredentisti avevano mai espresso alcun interesse.

Allo stesso modo, non so quanti libri di storia parlino diffusamente della rinuncia della sovranità italiana a favore del Terzo Reich su tutte le province orientali, incorporate nell’Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona di Operazioni del Litorale Adriatico) che comprendeva le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana sotto il comando del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer; e dell’Operationszone Alpenvorland (Zona di Operazioni delle Prealpi) comprendente le provincie di Bolzano, Trento e Belluno, sotto il comando del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer.

In questo quadro (non certo per pareggiare una macabra bilancia di morti) si può ricordare anche la tragedia di migliaia di famiglie italiane costrette a lasciare le case che abitavano da una innumerrevole serie di generazioni.


Gauleiter. È il caso di ricordare che il termine Gauleiter indicava il governatore di una regione appartenente al Reich tedesco, non il comandante delle truppe di occupazione in un paese straniero. Torna su ^

Brunetta

‘‘Volevo vincere il premio Nobel per l’economia. Non dico di esserci arrivato vicino, ma … Poi mi sono innamorato della politica e ho dovuto rinunciare al Nobel’’.


Sì, lo so, è vecchia, ma non dobbiamo rischiare di dimenticarcela.

Non dobbiamo dimenticare niente.

Fondamenti di una nuova dottrina politica

Mentre vedo snocciolarsi i nuovi quadri orari della Riforma Epocale, mi rivedo, un pezzetto dopo l’altro, scaricato dal Torrente, Der Unterfall (La Caduta – Gli ultimi giorni di Hitler).

Per carità. C’è un abisso. Ma fa ugualmente pensare.

Il popolo, all’epoca, più civilizzato e istruito del pianeta, si mette nelle mani di un perfetto psicopatico. Lo segue con metodica precisione verso l’autodistruzione. Alla fine, anche se i più – perfino la maggior parte dei fedelissimi – si rendono conto che in quella testa le rotelle girano all’incontrario, il giuramento di fedeltà vale più dell’elementare istinto di conservazione.

Gli Italiani, popolo di Furbi, hanno invece deciso di farsi comandare da un Imbecille.

Non lasciatevi ingannare dal luccichìo dei lustrini. Non basta il successo economico – non basta il potere – per fare di un cretino un intelligente. Mi dispiace deludervi (berlusconiani e antiberlusconiani), ma Silvio è in primis una grandissima testa di cazzo. Tutto il resto viene di conseguenza.

Poiché le teste di cazzo che hanno il potere sono naturalmente spaventate dai confronti, ogni dittatorello cercherà di circondarsi di persone intellettualmente inferiori. Se il Berlusca è una testa di cazzo, figuratevi i suoi ministri.

Figuratevi la Gelmini.

Mi rendo conto che quanto sto per dire è un’eresia dal punto di vista di ogni dottrina storico-politica. Mi dispiace per Machiavelli. Mi dispiace per Marx. Mi dispiace per Gramsci. Ma alle loro teorie manca un tassello fondamentale. La possibilità che il Principe sia un imbecille – e proprio per questo, invincibile.

Un uomo, un sistema del potere, che non è schiacciato dal pesante fardello della Razionalità. Libero dai condizionamenti dell’Intelligenza.

Potete ben dirmi che nella riforma Gelmini si vedono i tagli di Tremonti. Che si vede il diabolico piano del Potere di avere un popolo di ignoranti, per mettere al riparo il Sistema da ogni critica. Un governante perverso e cinico, ma intelligente, non riuscirebbe a combinare un pasticcio simile. Avrebbe un minimo di senso estetico – di schifoso, egoistico senso estetico.

Dominare, distruggere, condizionare, corrompere sì, ma in bel modo. Con stile.

Questi Decreti di Attuazione della Riforma Epocale – approvati da gente che non li ha letti – che non li ha letti perché al momento dell’approvazione non erano ancora stati scritti – questo pedante e piccino togliere un’ora di qua e metterla di là – hanno la stessa faccia ottusa di una povera, eterna Apprendista di Studio Legale, che non ha saputo fare altro che mettere all’insegna della Nuova Scuola quello che è il senso della sua personale esistenza:

Ultimo nella Scuola, primo nella Vita.

Contrordine Padani! Il nuovo orario del Liceo Classico

Questa è la bozza del piano orario dei licei che ho scaricato ieri (Giovedì 4 Febbraio) dal sito dell’INDIRE:

www.mauriziopistone.it/materiali/ClassicoBozza.pdf

Il piano orario presente oggi (Venerdì 5 Febbraio) sullo stesso sito e indicato come “definitivo” è completamente diverso:

www.indire.it/lucabas/lkmw_file/licei2010/// quadri_orari_licei_regolamento_definitivo.pdf

Speriamo che non cambino di nuovo idea


Ultimo minuto!

Oggi 5 Febbraio ore 17:37 i materiali dei Tecnici e Professionali (una bagattella, un milione e mezzo di studenti) sono ancora allo stato di “BOZZA“.

Stay tuned!

Il Liceo di mio figlio

Questo è il Piano dell’Offerta Formativa del Liceo Classico Cavour di Torino, frequentato da mio figlio fino all’anno scorso:

www.lcavour.it/Didattica/Pof/pof.html

(Mio figlio ha frequentato il corso istituzionale; esiste anche un Liceo Musicale, ed un Liceo della Comunicazione. Abbiamo scelto deliberatamente il corso tradizionale nel liceo più conservatore della nostra città).

Ho confrontato alcune cifre con il nuovo piano di studi del Liceo Classico che si trova sul sito

www.indire.it

Inglese:
Liceo Cavour “tradizionale”:            

99* ore per 5 anni =

495 ore

Liceo Gelmini:

99 X 2 anni + 66 X 3 anni =

396 ore

Si perdono

 99 ore

Matematica:
Liceo Cavour “tradizionale”:

99 ore X 3 + 66 X 2 =

429 ore

Liceo Gelmini::

99 X 2 + 66 X 3 =

396 ore

Si perdono

 33 ore

Inoltre il Piano di studi del Liceo Cavour prevedeva, per gli studenti dell’ultimo anno, due “moduli di orientamento” con docenti universitari, in orario curricolare:

– un modulo di 42 ore (3 ore per 14 settimane) di analisi matematica

– un modulo di chimica organica e biochimica di 28 ore (2 ore per 14 settimane)

Mi figlio ha frequentato il modulo di matematica, ed ora è iscritto alla facoltà di Fisica.


(*) Secondo l’uso moderno, ho trasformato l’orario settimanale in ore annuali, calcolate su 33 settimane.

L’Europa deve ritrovare le proprie radici culturali

Le radici culturali dell’Europa sono:

  • piena occupazione
  • welfare state
  • scuola per tutti
  • indifferenza religiosa.

Per secoli l’Europa è stata massacrata da spaventosi conflitti alimentati dalla fede religiosa e dall’estremismo identitario.

Le più grandi potenze europee si sono scontrate come titani per difendere una Messa.

Secoli di guerre tra papisti e antipapisti hanno provocato più morti di Auschwitz.

La cattolica Polonia e la Russia ortodossa hanno rappresentato, l’una per l’altra, l’incarnazione del Male assoluto, ed in entrambi i paesi una lunga tradizione epica celebra gli eroi ed i fasti di quest’odio disumano.

Sempre in Russia, farsi il segno della Croce con due oppure con tre dita è stato il detonatore di una tragica lacerazione.

Ancora pochi anni fa, nell’ex Jugoslavia, tra cattolici, ortodossi e islamici è stata una mattanza che ha fatto inorridire il mondo intero.

Eppure, già ai tempi di Re Luigi un uomo illuminato aveva pronunciato le parole della pace:

Certo, questi sono temi molto importanti, ma noi dobbiamo coltivare il nostro giardino.

Quest’Annuncio è stato per troppo tempo un germe dormiente, fin quando il benessere economico ha risvegliato la piantina – e c’è ancora molto lavoro da fare.

Anche i reietti d’Europa, gli Ebrei, hanno conosciuto questa liberazione.

Duemilacinquecento anni di persecuzioni non sono riusciti a far vacillare la loro fede. Chiusi nei ghetti, ridotti ad uno sparuto drappello di miserabili cenciaioli, hanno sopportati di buon grado torture spaventose pur di non rinunciare ad uno solo dei 613 precetti di Maimonide.

È bastato aprire le porte dei ghetti, permettere l’accesso agli impieghi pubblici, alle professioni, all’Università, perché gli Ebrei dimenticassero in una sola generazione di essere stati Ebrei. C’è voluto l’Olocausto, che ha riassunto in una mezza dozzina di anni venticinque secoli di pogrom, perché se ne ricordassero.

Finalmente tutta l’Europa s’è unificata in un unico Credo:

Ah che bello! Si va a sciare! Fai le valigie, mentre io preparo la macchina!
Ma caro, ti sei già dimenticato che c’è la Cresima / la Confermazione / il Bar Mitzvòth di tuo nipote?
Uffa che palle!


In molte regioni d’Italia, ancora due o tre generazioni fa, gli uomini giravano con la coppola in testa e la lupara in spalla, tenevano le mogli segregate in casa a figliare come coniglie, esibivano di fronte ai turisti i selvaggi rituali di una religiosità arcaica. La salvifica ala del Consumismo ha cancellato tutto ciò.

Oggi nelle nostre strade si aggira il Musulmano. Lo guardiamo con diffidenza, e ci guarda con diffidenza. Ha lo sguardo rancoroso, copre la moglie con pesanti scafandri, coltiva ostinati rituali. Chissà cosa pensa – chissà cosa sta per fare. E soprattutto, fa un mucchio di figli.

Dategli un lavoro fisso e ben pagato, una bella casa, l’automobile, la televisione, le ferie. In un battibaleno si trasformerà in un pacifico Consumista, la moglie vedrà nelle gravidanze solo un danno per la linea e la carriera, e tutt’e due celebreranno il Ramadan con grandi mangiate, avendo ancora in bocca il sapore dell’aperitivo con stuzzichini consumato al bar un’ora prima.


Purtroppo, non c’è mai una conquista per sempre. La Crisi, sapientemente alimentata da chi pensava che stessimo troppo bene, fa vacillare le nostre sicurezze.

Torna a soffiare il vento del fanatismo. Intere regioni d’Italia sono oggi in mano a Ciellini integralisti, a Padagnoli aggressivi. Vogliono convincerci ad agitare il Crocifisso, così come secoli fa il lebbroso agitava la sua campanella, gridando: “Attenzione! State alla larga! Non mi toccate!”

Sono un ottimista, e confido che le persone di buon senso sapranno respingere questa rozza offensiva.

Ma la minaccia più insidiosa viene dall’altra parte. Uomini dalla carità pelosa suggeriscono come rimedio il Dialogo Interreligioso. Guai a farci convincere. Significherebbe mettere ancora una volta il nostro futuro nelle mani di chierici più o meno barbuti d’ogni fede e d’ogni tonaca.

Teniamo alto il nostro vessillo:

Coltivate il vostro giardino!

E vivete in pace!

La maturità dei mediocri

Poiché stanno comparendo sulla stampa nazionale articoli che parlano della “severità” delle nuove norme sull’esame di Stato (l’esame di “maturità” non c’è più da una dozzina d’anni), desidero ripetere qui alcune considerazioni che ho già fatto in altre occasioni.

La nuova severità dovrebbe discendere da due nuove norme:

  1. si ammette all’esame solo chi ha la sufficienza in tutte le materie;
  2. nel calcolo della media per l’assegnazione del credito si tiene conto anche del voto di condotta.

Prendiamo ora l’allievo mediocre, “senza infamia e senza lode”, quello che arriva alla fine del corso di studi più per forza di inerzia che per vero merito.

Questo campione si presenterà allo scrutinio finale del quinto anno con una serie di valutazioni oscillanti tra la sufficienza e la “quasi sufficienza”, e forse un pochino meno.

In soldoni, i valori “grezzi”, comunicati dai docenti delle singole materie, saranno qualche sei, qualche cinquemmezzo, probabilmente almeno un cinque.

I voti finali (è così da sempre) vengono assegnati dal Consiglio di Classe.

Per prima cosa si dovrà quindi decidere se ammettere questo campione all’esame.

Lasciatevelo dire da uno che è nella scuola da più di trent’anni. Nessun Consiglio di Classe dello Stivale lo terrà fuori. Anch’io voterei per l’ammissione senza pensarci due volte. È giusto così. L’allievo non ha meritato, ma neppure demeritato troppo. Già essere arrivato all’ultimo anno, superando una lunga serie di selezioni annuali che nella scuola superiore sono sempre assai più severe di qualunque esame di Stato (in certi casi severissime, una vera decimazione) è cosa non da poco. A scuola è stato un mediocre, ma anche i mediocri hanno diritto a vivere la loro vita. Uscirà dalla scuola con una valutazione bassa, ma uscirà, e il resto dovrà giocarselo da sé. Profilo basso, e camminare.

Quindi, deliberazione finale del Consiglio di Classe: sei in tutte le materie.

Unanimità? Unanimità.

Passiamo al voto di condotta.

Il nostro eroe della mediocrità ha fatto di tutto per non farsi notare. Ha fatto baccano quando gli altri facevano baccano, è stato zitto quando gli altri stavano zitti. Non ha mai ricevuto una sanzione disciplinare grave – non l’ha mai meritata. Certo, non è mai stato un tipo particolarmente collaborativo, ma è difficile che uno così abbia meno di 8 come voto di condotta (la valutazione 6 è data in conseguenza di infrazioni gravi, ripetute e documentate, alla disciplina, la valutazione 7 a chi è sempre stato un turbolento, senza però meritare punizioni pesanti).

Bene, alla fine costui avrà una media superiore al 6, e il punteggio corrispondente di credito.

Con le norme precedenti, sarebbe stato ammesso lo stesso, ma con una media inferiore a 6, e quindi un credito minore.

La Commissione d’Esame sa perfettamente queste cose. Una volta, quando non c’erano i crediti, la Commissione andava a guardare anche le pagelle – ma non le valutazioni dell’ultimo anno, perché si sa che all’ultimo scrutinio dell’ultimo anno si nasconde sempre un bel po’ di spazzatura sotto il tappeto; bensì le valutazioni dei tri/quadrimestri precedenti: perché è lì che il Consiglio di Classe ha sempre nascosto i suoi messaggi cifrati, e chi ha orecchie per intendere intenda.

Anche adesso le pagelle sono a disposizione della Commissione; ma nessuno le guarda, perché tanto non servirebbe a niente. I giochi sono già fatti, e la Commissione si limita a prendere atto del punteggio di credito.

Insomma: questa è una formula d’esame in cui chi va bene va bene, chi va male va male, esattamente come prima. A differenza di prima c’è però qualcuno che ha un piccolo vantaggio: il mediocre.

Niente di male, s’intende. Basta dirlo.

Al Qaida lotta “in nome degli oppressi”?

Questo è il seguito di una discussione su it.politica.sinistra

Tutti dicono di lottare in nome degli oppressi, o del popolo…

eh, ma gli oppressi ci devono essere. E nei paesi in cui AQ fa proseliti, ce ne sono eccome…

dài, ci siamo passati anche noi, e da cent’anni abbondanti. Possibile che non abbiamo imparato la lezione.

Quando Giolitti decise la conquista della Libia, il povero Giovannino Pascoli (poeta che per altro amo moltissimo) se ne uscì con la più clamorosa cazzata del secolo: “la grande proletaria si è mossa”. E l’imperialismo fascista ha sbandierato per vent’anni la lotta contro la grassa Inghilterra che sfrutta i poveri popoli africani.

Trovami una differenza tra Mussolici che dichiara guerra alla plutocrazia degli Stati Uniti d’America, e Bin Laden che attacca le Torri “in nome degli oppressi”.

Be’, una differenza c’è: Mussolini sull’America non è riuscito (fortunatamente) a spedire neanche un petardo. Bin Laden ha ammazzato tremila persone – “in nome degli oppressi”, s’intende. Ed ha provocato una reazione spaventosamente distruttiva nel paese in cui aveva stabilito la propria base, così come gli stupidi razzetti di Hamas hanno ammaccato qualche muro di cinta in Israele, ma hanno quasi raso al suolo Gaza. Non ci vuole molto a capire che proprio questo era l’obiettivo di Hamas: provocare una reazione che giustificasse la prosecuzione di una lotta suicida “in nome degli oppressi”.


Certo che in molti paesi islamici il fascismo ha una grande presa. È tipico delle società in preda ad una crisi di cui non si vede l’uscita affidarsi ad uno squilibrato che agita la bandiera “o noi o loro”.

Non c’è bisogno di essere islamici per questo, è capitato a quasi tutte le nazioni europee ottant’anni fa. Ancora oggi, nel nostro piccolo, nella nostra piccola crisi, è quello che fa la Lega.

Rimane il fatto che i più grandi danni il fascismo islamico continua a farli proprio nei paesi in cui maggiormente si estende la sua attività. Sono pazzi, ma non stupidi. Sanno benissimo che non distruggeranno mai l’America. Né è questo il loro obiettivo. Il loro obiettivo è conquistare il potere nei paesi più poveri, trascinando un miliardo di sfigati in una permanente guerra civile, sempre dietro la bandiera “o noi o loro”. Gli Stati Uniti sono sopravvissuti alle torri Gemelle; non so se i paesi musulmani riusciranno a sopravvivere all’antichissima feroce faida sunniti-sciiti, e a tutte le altre nobili cause “in nome degli oppressi”.