Marchionne da Fazio

Ho ascoltato con molta attenzione le parole di Marchionne, e ci sono parecchie cose che continuano a sfuggirmi.

Lui dice che le fabbriche in Italia sono ingovernabili. Sarà, ma che vuol dire? e perché?

Non credo che uno possa dire che negli ultimi anni – diciamo pure: gli ultimi vent’anni, se non di più – sono stati caratterizzati da una forte conflittualità sindacale. Difficile scaricare la colpa sulla FIOM, che – dice lo stesso Marchionne – vede l’adesione di un operaio su otto.

Si è parlato della richiesta di passare da due pause di venti minuti a tre pause di dieci minuti. Dieci minuti al giorno. È in questi dieci minuti che si concentra il gap di efficienza del lavoro in Italia?

Dice che un solo stabilimento in Polonia, con settemila operai, produce tanto quanto cinque stabilimenti in Italia, con ventimila operai. Un rapporto di quasi tre a uno! Vuol dire che in Italia gli operai ogni ora lavorano venti minuti, e per quaranta minuti si girano i pollici? È la solita storia dell’italiano lazzarone?

Queste sono le domande che avrei fatto volentieri a Marchionne, se fossi stato presente.

Non c’ero, e quindi non le ho fatte.

Letturina salesiana

Ragazzi, oggi vi voglio parlare di un terribile peccato.

È una cosa veramente paurosa, credo che vi farà molta impressione, ma bisogna conoscere il male per evitarlo.

È il tunnel del berlusconismo.

Vedo che molti di voi impallidiscono. La fama di questa peste è arrivata anche nel nostro Oratorio.

Per spiegarvi meglio che cos’è, vi racconto una storia, una storia molto comune, che potrebbe capitare anche a voi.

Conoscevo una volta un povero ragazzo, si chiamava Gianfranco.

Come molti di voi, era un po’ monello, ma aveva il cuore buono e la mente limpida, non aveva mai compiuto un’azione veramente cattiva. Solo, non aveva quella buona qualità senza la quale tutte le altre sono come fondamenta erette sulla sabbia: la prudenza.

Un giorno si trovò di fronte al tunnel del berlusconismo. Ne aveva sentito molto parlare, sapeva che tanti altri giovani erano stati rovinati da promesse fallaci, da subdole lusinghe. Ma lui era convinto di essere più forte, di saper dominare le tentazioni e gli inganni del Maligno. Imprudentemente entrò nel tunnel, sciaguratamente si unì a quel popolo perduto.

Cercai più volte di farlo recedere da quel vizio ripugnante. Ma lui rispondeva sempre: “Non sono berlusconiano! Posso smettere quando voglio!”

Quanto si ingannava! E in che misero stato s’è ridotto!

Oggi non può più prendere il sole a Montecarlo senza che gli crolli addosso il Giornale. Va in un mobilificio a comprare una cucina, ed è scosso da terribili conati di Feltri.

Cosa farà? Il suo futuro sembra senza speranza. Gli rimangono, come trista compagnia, le smorfie di Bocchino, le lagrime Della Vedova. Veramente, una vita rovinata.

Figlioli, state attenti! Già la mia buona Mamma, quand’ero bambino, mi diceva sempre: “Toca nen ij bërluscon se ‘t veule nen vnì bòrgno!”(*) E quel giovinetto tanto buono che viveva qui con noi, ed ora è in Paradiso, il savio Domenico, il giorno della sua prima Comunione scrisse sul quaderno dei suoi pensieri: “La morte ma non berlusconi!”


(*) Non toccare i berlusconi se non vuoi diventare cieco

Pomigliano

Il referendum a Pomigliano non serviva a ratificare un accordo sindacale. Non era neanche un vero referendum.

Un vero referendum si vince con il 51%. O sì, o no. Fine della discussione.

Il referendum di Pomigliano doveva dimostrare che in Italia non esiste più la classe operaia. Esistono gli operai, sì, ma non esiste la classe operaia.

Gli operai del Nord sono degli zombie in camicia verde che amano il padrone e odiano gli zingari.

Gli operai del Sud sono dei cafoni con il cappello in mano, disposti a qualunque umiliazione per un posto di lavoro.

La sinistra in Italia è formata da pochi irriducibili intellettuali, che non hanno più nessun contatto con la realtà.

Questo si voleva dimostrare. E per dimostrare questo, occorreva una maggioranza bulgara. Non bastava il 51%. Non è bastato neanche il 62%. Bisognava dimostrare che il no non esiste

Ecco perché un referendum vinto con una maggioranza di quasi due terzi per loro è una sconfitta. Perché è stato un vero referendum. Perché la gente ha potuto scegliere, e ha scelto.

Se qualcuno avesse chiesto il mio parere prima, avrei detto che era meglio non andare a votare. Non si volta per l’abolizione dei diritti costituzionali.

Mi sarei sbagliato.

È bene che siano andati a votare. È bene che siano stati sconfitti, ma sconfitti in un vero referendum, in una vera consultazione democratica.

Quindi, onore agli operai di Pomigliano. Anche a quelli che hanno votato Sì. Hanno dimostrato che in Italia esiste ancora una classe operaia pensante, esiste ancora una sinistra, esiste ancora una possibilità di democrazia.

È possibile dirlo? (Piccolo coming out sul federalismo)

Non so se è possibile dirlo, ma anche se non è possibile, lo dico lo stesso.

Io sono contro il federalismo.

Non lo dico per astratti motivi ideologici.

Lo dico per tanti motivi storici e politici concreti, ma soprattutto per aver visto con i miei occhi la paurosa proliferazione, in nome della “sussidiarietà”, di piccole e piccolissime lobby, di piccoli e piccolissimi centri di spesa, di piccoli e piccolissimi centri di potere, che proprio perché numerosissimi, e piccolissimi, e placidamente immersi in quella palude grigia che si estende sempre di più tra pubblico e privato, sono al di fuori di ogni controllo, di ogni trasparenza, di ogni responsabilità.

Lo dico perché il federalismo, come si sta attuando tra noi, non si risolve in una semplificazione della macchina amministrativa, ma al contrario, nella moltiplicazione dei centri decisionali, e quindi di norme potenzialmente contraddittorie; e contemporaneamente resta in vita tutta la precedente macchina, a partire dalle province, enti di cui confesso di non essere mai riuscito a capire l’utilità.

Lo dico perché vivo la realtà della scuola, e lì è particolarmente evidente la totale confusione e sovrapposizione di competenze, tra progetti comunitari, regionali e provinciali; calendari regionali e provinciali e comunali e di istituto. Vedo la patologica proliferazione di “agenzie” di ogni genere; vedo che mentre si mette in discusione il valore legale dei titoli di studio, ad essi si vorrebbero sovrapporre “certificazioni” di ogni genere, rilasciate dagli enti più improbabili. Vedo il crescere incontrollato della neolingua della “sussidiarietà”, con alcuni vocaboli che dovrebbero far venire il brivido nella schiena di tutti benpensanti, come “surroga”, cioè l’idea che uno possa fare qualcosa che non è il proprio mestiere, al posto di qualcun altro (ma non è detto neanche che sia il mestiere di quell’altro). O “accreditamento”, per cui la scuola di Stato deve andare bene non allo Stato ma alla Regione, per fare cose che non si capisce bene a che titolo sono compito dello Stato – o forse della Regione.

Questa è una mia piccola presa di posizione personale, ma mi farebbe piacere sapere se qualcuno è d’accordo con me.

Ripartire dal quel 61,3%

Una delle cose più stupefacenti del nostro paese, è che perfino quando si parla di Riforme istituzionali, si ha l’impressione di vivere in un mondo virtuale.

Si parla della Grande Riforma, come se fosse qualcosa di collocato in un imprecisato futuro.

Invece la Grande Riforma c’è già stata, in un passato neanche tanto lontano. Approvata dal Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005, è stata sottoposta al voto dei cittadini il 25 e 26 giugno 2006, ottenendo un bel 61,3% di NO.

Un 61,3% di cittadini, che non sono andati a votare per questo o quel partito, per questo o quel lìder, ma per la nostra Costituzione repubblicana.

È stupefacente che questo fatto, che sicuramente nei decenni futuri (quando si uscirà dalla Realtà Virtuale, e si tornerà alla Realtà Reale) sarà ricordato come uno dei pasaggi decisivi di questa fase della storia d’Italia, sia stato completamente dimenticato.

È una colpa imperdonabile degli attuali dirigenti delle forze di (centro)-sinistra, che non abbiano il coraggio, la lungimiranza, la lucidità di dire con forza che è a quel 61,3% di cittadini italiani che bisogna dare una prospettiva per il futuro.

Un futuro, in primo luogo, democratico e repubblicano.

Considerazioni finali sulle elezioni del 27 e 28 marzo

1. Grillo

Inutile stare a piangere su Grillo.

In ogni elezione, da trent’anni a questa parte, c’è stata una certa dose di… possiamo chiamarlo “qualunquismo di sinistra”? Insomma, quella roba che “tanto sono tutti uguali”, “fanno tutti schifo allo stesso modo”.

C’è stata quasi sempre una qualche lista che è “contro tutti”, “contro i professionisti della politica” ecc. Una volta è stata una qualche lista di sinistra estrema, un’altra volta i radicali, oggi è stato Grillo, la prossima volta vedrete che sarà qualcun altro. È un dato costante, non possiamo cambiarlo ed è inutile rovinarsi il fegato.


2. Chi ha vinto?

Ormai l’elettorato ragiona in termini bipolari. Non c’è più spazio per il proporzionalismo. Prima si decide se votare di qua o di là, poi, all’interno di uno dei due schieramenti, si decide quale lista votare. Non si può ragionare per somme algebriche delle singole liste. Andare a fare chissà quale ragionamento sugli spostamenti all’interno delle coalizioni è ozioso.

Per questo Berlusconi ha ragione di essere contento. Lo schieramento di destra ha vinto, e lui è lo schieramento di destra. Berlusconi non è il PDL. Berlusconi è Berlusconi, cioè una bizzarra chimera che tiene insieme scissionisti e ultranazionalisti, liberisti e statalisti, ultracattolici ed ex radicali, ultramoderati ed eversori. La nomenclatura delle liste non ha per lui la minima importanza – per ora. Ce l’avrà per i suoi successori, quando gli alleati oggi tenuti insieme a forza si prenderanno a sprangate.

Casini invece si trova col culo per terra. Il suo progetto è fallito: non perché ha avuto l’un per cento in più o in meno, ma perché l’idea di rappresentare un Centro che fa da ago della bilancia non ha funzionato. Mi dispiace per lui, ma si deve mettere in testa che oggi, in Italia, il Centro non esiste.


3. Il territorio

Il dato più importante delle ultime elezioni è il dato territoriale (lascio perdere qui Campania e Calabria, dove temo che il voto sia fortemente influenzato da altri fattori). Non nord e sud, non questa o quella regione. Berlusconi ha adottato la strategia di Mao Tse Tung: le campagne che accerchiano le città.

In Piemonte la Bresso ha stravinto in provincia di Torino, ha straperso in tutte le altre.

Nel Lazio ha vinto la Polverini, ma nella circoscrizione di Roma la Bonino ha fatto il 51%, a Roma città (la città del Papa!) ha fatto il 54%.

(Prima di sputare addosso alla radicale abortista e bestemmiatrice, ricordiamoci sempre che alle ultime comunali quel picio di Rutelli era riuscito a far vincere Alemanno in una città che alle politiche e alle provinciali aveva votato per il centrosinistra.)

Il Lombardia Formigoni ha stravinto, ma a Milano è solo un pelino sopra il 50%.

Il Veneto va trinfalmente alla Lega, ma Venezia (che non è solo la città delle gondole, ma comprende il grande complesso industriale di Mestre) ha di nuovo un sindaco di centrosinistra.

Anche in Puglia Vendola ha vinto a Bari e Taranto col 51%, a scalare nelle città minori.

Perfino nella provincia dell’Aquila, dove ha vinto la destra, nelle quattro circoscrizioni dell’Aquila città la Pezzopane (PD) è andata tra il 53 e il 57%

Insomma, Berlusconi è riuscito a vincere usando l’arma della divisione. E la divisione territoriale non è che l’aspetto elettorale della divisione sociale. È riuscito a convincere le diverse categorie sociali che potranno scaricare il peso della crisi su qualcun altro. Ha detto ai lavoratori autonomi che la crisi la pagheranno i lavoratori dipendenti (i “fannulloni”). Ha detto ai lavoratori dipendenti che la crisi la pagheranno gli immigrati. Ha detto ai marsicani che il terremoto lo pagheranno gli aquilani. Agli immigrati non ha detto niente perché non votano. Ma il giorno che dovessero votare, vedrete che riuscirà a vendere qualcosa anche a loro.

La strategia ha funzionato nei centri minori, dove di immigrati ce ne sono pochi, ed gli operai sono divisi in tante minuscole aziende, senza nessun tipo di coesione sociale. Non ha funzionato nei grandi centri, dove l’immigrazione è più forte, ma meglio metabolizzata, e dove il peso della crisi sui ceti più deboli è più visibile – non più forte: più visibile.

Ma alla fine, tirando le somme, la strategia ha funzionato.

Il libro, la lettera, Internet

Le norme sull’informazione sono state fissate in età moderna quando i grandi settori della comunicazione erano due:

  1. La stampa: libri, giornali e periodici. In questo caso abbiamo la comunicazione unidirezionale da uno (o pochi) a molti. La comunicazione avviene attraverso supporti singoli, concreti, numerabili, non riproducibili senza un’attrezzatura complessa.

    È su questa base tecnica che sono state costruite le moderne leggi sui diritti d’autore e sulla libertà di stampa.

    Le stesse leggi sono poi state estese a tutti i supporti fisici, come i dischi ecc., e alle forme di trasmissione broadcasting, come la radio e la televisione, che hanno in comune con la stampa la comunicazione unidirezionale da uno a molti, anche se la trasmissione non avviene su supporti fisici numerabili.

  2. L’altro settore è la posta: un grande servizio pubblico che permette la comunicazione bidirezionale e riservata uno a uno.

    Prima dell’800 esisteva già la lettera, ma farla pervenire a destinazione era sempre una cosa difficoltosa. Con i servizi postali nazionali, e con l’invenzione del francobollo, la posta diventa un servizio alla portata di tutti.

    Sulla base del servizio postale sono state emanate le norme sulla riservatezza della corrispondenza, norme poi estese al telefono e ad altri sistemi analoghi.


L’estensione di queste norme all’informatica e al Web all’inizio hanno puntato su delle forme di semplice analogia.

Internet è stata vista per un certo tempo come una televisione con milioni di canali.

La diffusione del software è stata considerata un’estensione della diffusione della stampa – per questo continua l’affezione ad un supporto ormai obsoleto come il disco ottico.

Le mail anche nel nome richiamano la buona vecchia posta.

I siti di attualità sono stati considerati alla stregua di testate giornalistiche, con tanto di obbligo di registrazione – anche se nessuno è mai riuscito a definire in modo soddisfacente che cosa è una “testata giornalistica” in rete.

Usenet, forum, P2P… be’, qui è un po’ più difficile. Una piazza? un mercato? una bacheca? un suk?

Poiché appunto sono estensioni analogiche di vecchie categorie, la realtà ormai scappa da tutte le parti.


Prendiamo in mano un buon vecchio libro, e pensiamo di che cosa si tratta, da un punto di vista concreto, materiale, prescindendo dalla normativa che ne regola la produzione e la circolazione.

Il libro è prodotto in grandi stabilimenti industriali, con una tiratura predeterminata, e costi proporzionali alla tiratura. Non può essere riprodotto agevolmente con strumenti semplici. Se voglio comunicare ad un amico le informazioni che ho trovato in un libro, la cosa migliore è regalarglielo, o imprestarglielo (operazione che spesso coincide con la prima). Ma dal momento in gliel’ho dato, io rimango senza.

Accendiamo ora il computer, e pensiamo a quando per la prima volta ci è stato spiegato che cos’è un sistema operativo. Dentro la memoria del computer le informazioni sono organizzate sotto forma di file. Le operazioni fondamentali sono: copiare un file, spostare, cancellare

Da un punto di vista tecnico (di nuovo, prescindendo dalla normativa) il computer è essenzialmente questo: una macchina che maneggia informazioni con modalità che ne permettono l’immediata, illimitata e gratuita replicazione e diffusione.

Possiamo girarla come vogliamo, ma a questo ambiente, non a quello del libro, dobbiamo dare una regolamentazione.

Prendiamo ora una lettera (quand’è l’ultima volta che avete scritto una lettera?) Un foglio scritto pazientemente con inchiostro nero – o romanticamente azzurro, verde, marroncino seppia ecc. Una busta, chiusa (lap!), un francobollo (lap!). Si mette nella cassetta, e si aspetta con trepidazione la risposta: due giorni, tre giorni… una settimana… perché non arriva?

Si fa più in fretta con una mail, no? Più o meno è la stessa cosa, a parte che non si usa l’inchiostro verde ecc. e non si compra il francobollo. Se dopo mezz’ora non arriva niente, cominciamo ad innervosirci.

Le due forme di comunicazione hanno un aspetto importante in comune: la riservatezza. Se qualcuno, non autorizzato, apre le nostre lettere, sbircia nella nostra casella di posta, ci secchiamo, e non poco.

Però… la stessa mail può essere mandata a due, tre, trenta… destinatari. Senza fatica, senza spesa. In un click. Ci sono tanti programmini gratuiti per creare una vera newsletter. Siamo passati quasi senza accorgercene ad una comunicazione di tipo broadcasting. È un po’ più complicato, ma sempre alla portata di chiunque, creare una mailing-list. Ciò che ognuno dei corrispondenti scrive, viene letto automaticamente da tutti gli iscritti. È una cosa che con la posta normale non si potrebbe fare – neanche usando un pacco così di francobolli. Siamo passati all’agorà. Tutti parlano con tutti, tutti leggono ad alta voce sulla pubblica piazza le lettere che hanno ricevute e spedite. Questo non ha più niente a che vedere con la vecchia lettera, il francobollo, l’indirizzo svolazzante…

Internet è stata inventata per questo, non per altro. Tutti sono in contatto con tutti. È così che funziona.


Riassumendo:

  1. Stampa: comunicazione unidirezionale, pubblica, da uno (pochi) a molti.
  2. Posta: comunicazione bidirezionale, riservata, da uno a uno.
  3. Internet: comunicazione, tendenzialmente pubblica, da tutti a tutti.

La comunicazione informatica può essere inclusa nei due sistemi precedenti, a patto però di limitarne enormemente le potenzialità.

Le regole fissate nell’800 per le forme 1 e 2 non si adattano alla comunicazione di tipo 3. Sarebbe come costruire il Codice della Strada partendo da norme emanate al tempo in cui si trasportavano le merci su carovane di muli attraverso i valichi transalpini.

Le potenzialità tecniche prima o poi abbattono le normative irrazionali. Con l’invenzione dell’automobile, abbiamo un sistema di trasporto molto più veloce di un mulo. Certo, è necessario imporre, per esempio, un limite di velocità. Ma deve essere un limite coerente con le caratteristiche tecniche del mezzo che vogliamo regolamentare.

C’è una strada in mezzo alla campagna, un bel rettilineo di quattro corsie, pulito, con le righe bianche verniciate di fresco, senza ostacoli. Il limite è di 90kmh. Vabbe’, non pretendiamo che andiate proprio ai 90, magari si spinge un po’, ai 100, ai 110… Chi non l’ha fatto. Ma se tirate fino ai 220, 240, 260, siete proprio dei pazzi. 90 è un limite ragionevole.

Ecco, in quel rettilineo dove tutti vanno a 90 all’ora, o poco più, improvvisamente compare un cartello: LIMITE 20KMH. È una follia. Nove su dieci proseguono senza badarci. “C’era il limite? Ah sì? tu l’hai visto? E di quanto?” Uno su dieci si butta sul freno, inchioda, e si fa tamponare violentemente da quelli che vengono dietro. Un disastro.

È inutile dire: se tutti avessero rispettato il limite non sarebbe successo niente. Invece è successo. Le automobili esistono, e finché non avremo un sistema di trasporto migliore, ci teniamo quelle. Sono state fatte per viaggiare più velocemente di un mulo – anche di un mulo da corsa che va a 20kmh. Non le possiamo disinventare. Non possiamo trasformare il traffico in un’assurdità tecnica solo perché il sindaco di un piccolo comune ha le paranoie.

Il Web e il diritto

Vi sono stati due eventi – uno già di qualche settimana fa, l’altro di questi giorni – che, pur essendo apparentemente limitati a situazioni specifiche, pongono dei grandi interrogativi, a cui sarebbe un gravissimo errore non saper dare una risposta.

Dico subito che questi due eventi hanno in comune un aspetto: che alcune funzioni tradizionalmente proprie dello Stato vengono trasferite a privati, e che in questo trasferimento di competenze seguono regole che sono esattamente l’opposto di quelle che dovrebbero regolare i rapporti fra i cittadini e l’amministrazione pubblica.

È nota la vicenda della tassazione dei supporti di memoria. Prima si è trattato di supporti tradizionali: CD ecc. Poi, qualche settimana fa, la tassazione è stata estesa ad ogni tipo di supporto: comprese le memorie dei telefonini e le unità di back-up. I proventi di questa tassazione dovrebbero compensare i titolari di diritti d’autore, organizzati nella SIAE, dei danni subiti ad opera della pirateria informatica, che si basa appunto sulla possibilità di memorizzare e distribuire opere su supporti elettronici.

Si tratterà di pochi euri, per carità. E i pirati informatici sono così antipatici. Ma se guardiamo alla logica che sta alla base di questo ragionamento, vediamo che si sono affermati due principi completamente nuovi:

  1. Lo Stato agisce come percettore di una tassa a favore non di un servizio pubblico, ma direttamente di un privato. È paradossale, ma altamente significativo, che questa iniziativa sia stata presa da forze politiche che hanno costruito gran parte del loro successo elettorale non solo promettendo una riduzione del carico fiscale, ma presentandosi come eversori di una “dittatura statalista” che avrebbe proprio nel sistema fiscale un pilastro del proprio dominio. Padoa Schioppa fu messo in crode per aver definito “bellissime” la tasse che servono a pagare i servizi pubblici. Ora è “bellissima” una tassa a favore di privati.
  2. La norma parte da un pregiudizio di colpevolezza. Chi compra un supporto di memoria “molto probabilmente” lo userà per conservarci sopra materiale illegale; e in base a questo semplice sospetto, deve essere sottoposto ad una misura punitiva. Di nuovo, è paradossale, e significativo, che una misura di questo genere sia stata presa da forze politiche che hanno fatto del “garantismo” una bandiera. Ma il garantismo vale, evidentemente, solo quando si tratta di reati contro la pubblica amministrazione e il pubblico interesse; quando si tratta di danni nei confronti dei privati, vale la giacobina “loi des suspects”.

L’altra vicenda è quella relativa alla condanna dei dirigenti di Google.

Vorrei premettere alcune parole rispetto alle modalità con cui viene comunicata la vicenda. Si insiste sul fratto che tutto nasce da un video di violenze a carico di un disabile. Ed anche sul fatto che Google da queste attività ricavi un mucchio di quattrini. Sono due modalità tipiche del populismo. Si prende un fatto singolo, un caso estremo, che colpisce fortemente l’emotività, e lo si usa per costruire un criterio generale. Un caso di stupro diventa il criterio e il movente per la politica nei confronti dei Rom ecc. L’altra modalità è individuare nel nemico l’odioso “ricco”. La Repubblica attacca Berlusconi! Ma la Repubblica appartiene al ricchissimo De Benedetti ecc. Ecco la prova che Berlusconi è nel mirino di “poteri forti” ecc.

Google ha permesso la circolazione di un video di violenze a carico di un disabile! Anzi, ci ha guadagnato sopra! È da condannare, no?

La prima cosa che viene in mente è l’art. 21 della Costituzione

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili…

Con questa sentenza viene affermato il principio che in un sistema di comunicazione di tipo “forum”, come Google Video o YouTube, il gestore deve effettuare una censura preventiva dei contenuti. Una censura preventiva che è espressamente vietata dalla Costituzione; ed effettuata da un soggetto privato, non da un magistrato.

(Che la cosa sia molto dubbia è dichiarato già dalla sentenza stessa: i dirigenti di Google sono stati assolti dall’accusa di diffamazione nei confronti della vittima della violenza, ma sono stati condannati in base a quella specie di oggetto misterioso che è la “tutela della privacy”.)

Estendiamo il principio. Il gestore di un servizio è responsabile di ciò che fanno i suoi clienti. Dei delinquenti hanno progettato una rapina riunendosi in un bar. Da condannare i delinquenti, ma anche il proprietario del bar, non vi sembra? Ebbene d’ora in poi i baristi devono guardare bene in faccia i loro clienti, prima di prendere le comande; e se sarà necessario, dovranno accompagnare alla porta quelli che hanno la faccia da delinquente.

È curioso che questo servizio di vigilanza da parte di fornitori privati di un servizio sia preteso in un paese in cui si discute della limitazione delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura.

Alla base di entrambe le decisioni c’è sicuramente un problema culturale. La società fa ancora fatica a comprendere le nuove tecnologie – a comprendere non da un punto di vista strettamente tecnico, intendo. Non è imparando a schiacciare i bottoncini che si impara che cos’è il Web (anche nella scuola, una delle iniziative più deleterie di questi ultimi anni è stata la promozione della cd. ECDL). Manca una riflessione culturale sulle trasformazioni economiche e sociali indotte dalla Rete. Quindi ci si arrabatta, applicando in modo maldestro ai nuovi fenomeni una normativa nata in un contesto completamente diverso – come se si cercasse di regolare la Borsa con le norme dell’Editto di Rotari.

C’è però anche un enorme problema politico. L’esaltazione del Mercato ha portato a concepire l’utopia in cui l’interesse privato prende il posto delle leggi dello Stato. Il Diritto stesso viene privatizzato; la tutela della legalità viene spostata dalle istituzioni agli operatori privati. È l’astrazione di una Società Civile che non ha più bisogno dello Stato; una esercitazione teorica che viene trasformata in un progetto politico concreto.

Ebbene, su queste cose è necessaria una riflessione approfondita.

Brunetta

‘‘Volevo vincere il premio Nobel per l’economia. Non dico di esserci arrivato vicino, ma … Poi mi sono innamorato della politica e ho dovuto rinunciare al Nobel’’.


Sì, lo so, è vecchia, ma non dobbiamo rischiare di dimenticarcela.

Non dobbiamo dimenticare niente.

Fondamenti di una nuova dottrina politica

Mentre vedo snocciolarsi i nuovi quadri orari della Riforma Epocale, mi rivedo, un pezzetto dopo l’altro, scaricato dal Torrente, Der Unterfall (La Caduta – Gli ultimi giorni di Hitler).

Per carità. C’è un abisso. Ma fa ugualmente pensare.

Il popolo, all’epoca, più civilizzato e istruito del pianeta, si mette nelle mani di un perfetto psicopatico. Lo segue con metodica precisione verso l’autodistruzione. Alla fine, anche se i più – perfino la maggior parte dei fedelissimi – si rendono conto che in quella testa le rotelle girano all’incontrario, il giuramento di fedeltà vale più dell’elementare istinto di conservazione.

Gli Italiani, popolo di Furbi, hanno invece deciso di farsi comandare da un Imbecille.

Non lasciatevi ingannare dal luccichìo dei lustrini. Non basta il successo economico – non basta il potere – per fare di un cretino un intelligente. Mi dispiace deludervi (berlusconiani e antiberlusconiani), ma Silvio è in primis una grandissima testa di cazzo. Tutto il resto viene di conseguenza.

Poiché le teste di cazzo che hanno il potere sono naturalmente spaventate dai confronti, ogni dittatorello cercherà di circondarsi di persone intellettualmente inferiori. Se il Berlusca è una testa di cazzo, figuratevi i suoi ministri.

Figuratevi la Gelmini.

Mi rendo conto che quanto sto per dire è un’eresia dal punto di vista di ogni dottrina storico-politica. Mi dispiace per Machiavelli. Mi dispiace per Marx. Mi dispiace per Gramsci. Ma alle loro teorie manca un tassello fondamentale. La possibilità che il Principe sia un imbecille – e proprio per questo, invincibile.

Un uomo, un sistema del potere, che non è schiacciato dal pesante fardello della Razionalità. Libero dai condizionamenti dell’Intelligenza.

Potete ben dirmi che nella riforma Gelmini si vedono i tagli di Tremonti. Che si vede il diabolico piano del Potere di avere un popolo di ignoranti, per mettere al riparo il Sistema da ogni critica. Un governante perverso e cinico, ma intelligente, non riuscirebbe a combinare un pasticcio simile. Avrebbe un minimo di senso estetico – di schifoso, egoistico senso estetico.

Dominare, distruggere, condizionare, corrompere sì, ma in bel modo. Con stile.

Questi Decreti di Attuazione della Riforma Epocale – approvati da gente che non li ha letti – che non li ha letti perché al momento dell’approvazione non erano ancora stati scritti – questo pedante e piccino togliere un’ora di qua e metterla di là – hanno la stessa faccia ottusa di una povera, eterna Apprendista di Studio Legale, che non ha saputo fare altro che mettere all’insegna della Nuova Scuola quello che è il senso della sua personale esistenza:

Ultimo nella Scuola, primo nella Vita.