Un art. 18 per l’Europa

Da un po’ di tempo, comprensibilmente, le discussioni su queste larghe bande toccano i temi della grande finanza.

Banche, banche centrali, titoli, debito, interessi, cambi.

Devo confessare il mio imbarazzo. Di questioni monetarie non ne ho mai masticato un gran che.

Per me l’economia – per quel pochissimo che ne capisco – è una cosa che riguarda la ciccia e il lavoro. Quella che oggi si chiama “economia reale”, per distinguerla da quell’altra, che pur essendo (a quanto pare) “irreale”, ci domina e ci opprime, come ben si compete ad ogni feticcio che si rispetti.

Alla fine di un’età di “riforme”, durata quasi un’intera generazione, il capitalismo è ormai arrivato al vertice della sua ideologia. Il denaro, che nell’economia “reale” genera valore scambiandosi con il lavoro, vive nell’utopia di poter generare altro denaro a prescindere dal lavoro. È un’utopia mostruosa, come tutte le utopie, ma continua ad essere ripetuta e sostenuta da alcune delle migliori menti dell’Occidente. È un’utopia che, come tutte le utopie di questo mondo, ha moltissimi difetti, a partire da uno fondamentale: che non funziona, come ormai ognuno può vedere.

La cosa sconcertante è che anche molti che pensano di essere oppositori dell’attuale sistema si perdono nell’illusione monetaria, pensando di poter risolvere il problema semplicemente invertendo quel meccanismo. Abolizione del debito, roghi di banche, fallimento controllato, scambio tra debito pubblico e risparmio privato, ritorno alle monete nazionali, addirittura progetti più o meno raffinati di sostituire la moneta reale con i soldi del Monopoli – sono tutte scorciatoie che dimenticano il punto fondamentale: che in un’economia di mercato “reale” il capitale deve fare i conti con il lavoro tanto quanto il lavoro deve fare i conti con il capitale.

(A scanso di equivoci ribadisco che in tutto questo non si parla di fuoriuscita dal sistema capitalistico, tema che non è proprio all’ordine del giorno: ma si parla di far uscire il capitalismo dalla sua dimensione ideologica ed utopistica.)

In questo senso dobbiamo intendere le battaglie per i diritti del lavoratori. Non è la difesa dei privilegi di piccole corporazioni o lobbies di lavoratori dipendenti più o meno fannulloni, di “tabù”, di lacere bandiere delle società mediterranee – notoriamente composte da mandolinisti indolenti ed infingardi.

È la difesa delle prospettive di sviluppo dell’intera Europa, la quale ha al suo arco un’unica freccia: la propria specificità storica, e questa assai più che in un’arcaica identità religiosa consiste in una lunghissima tradizione di politiche sociali.

La specificità storica dell’Europa consiste soprattutto in questo: attraverso un travaglio di secoli si è affermato il principio che il lavoro non è semplice strumento per la produzione di una ricchezza che andrà a beneficare pochi privilegiati, ma il lavoro ha una sua dignità, al lavoro deve essere riconosciuta la cittadinanza all’interno di una grande polis di diritti e doveri, il lavoro è quella forza creativa con la quale l’uomo plasma il mondo a sua immagine e somiglianza, e quindi l’uomo lavoratore giustamente rivendica almeno la soddisfazione di alcuni dei suoi bisogni fondamentali.

Sì, potremmo invece fare come le potenze asiatiche. Purché ci rassegniamo a diventare un’appendice del continente asiatico. Vedere lo sviluppo del PIL come un feticcio al quale sacrificare le vite di interi popoli. Perdere totalmente il senso di essere Europei.

Si dice spesso che è stato un errore costruire l’Europa a partire dall’economia. Ma quest’errore, se è veramente tale, ha lontane premesse storiche. L’età del Risorgimento europeo, nella prima metà dell’800, ha visto lo sforzo di creare unioni doganali come premesse delle unioni politiche. Subito dopo c’è stato il ’48, la rivendicazione dei diritti politici, della democrazia, del nuovo “diritto del lavoro”, di una nuova “carta del lavoro”. Questa seconda fase non è stata facile, ha richiesto decenni di lotte, in una prospettiva internazionale che ad un certo punto è stata simboleggiata dalla lotta universale per le otto ore, e la celebrazione del 1° maggio.

Non è stato un errore creare un’Europa economica. Sarebbe però un errore se a questa Europa economica non facesse seguito la lotta per un’Europa dei diritti.

Certo, la difesa dell’art. 18 in una prospettiva puramente italiana è “conservazione”. Di per sé la cosa non è un male, perché se l’innovazione ha la faccia mal rasata di Marchionne, viva la conservazione.

Però, per usare un vecchio linguaggio dei rivoluzionari, la tutela dell’art. 18, per quanto giustificata in un’Europa dove lo slogan è “non possiamo più permetterci lo Stato sociale”, è chiaramente una battaglia difensiva, una battaglia di posizione. E la storia insegna che se non si vuole perdere la guerra si deve passare dalla guerra di posizione alla guerra di movimento, dalle battaglie difensive alla lotta offensiva.

Dalla mia scrivania di insegnante in pensione in un paesino sperduto nel profondo Piemonte, lancio un appello alle forze politiche e sindacali, alle istituzioni europee, per una nuova Carta Europea dei Diritti del Lavoro. La lancio non per megalomania, ma perché so che la stessa esigenza è sentita da milioni di persone in ogni angolo di questo continente. Che la mia debole voce sicuramente si unirà alla voce di milioni di altri Europei, i quali sono ormai pronti a sostenere questa battaglia, poiché è una battaglia giusta, e anche perché – alla fin dei conti – non hanno altro da perdere che la propria disoccupazione.

La vera libertà

Che cosa dicevano quei palloncini arancione, in piazza, ieri?

Da più di vent’anni ci hanno raccontato un sacco di balle, ma la balla più grande, la madre di tutte le balle, è questa.

Ci hanno raccontato che il mercato è l’unica forma possibile di libertà.

E ci hanno raccontato che questo si chiama Liberalismo.

(Quest’ultima cosa io l’ho sempre presa come un affronto personale, perché io sono figlio di un uomo che ha votato liberale per tutta la vita. Io non sono mai stato liberale, ma quando parlate di liberalismo, attenzione a come parlate, perché m’incazzo).

Poi si è andati immediatamente alle conseguenze. La prima è, che se l’unica cosa che conta è il mercato, allora tutto ciò che ha valore deve essere messo in vendita. Anzi, ha valore proprio perché può essere venduto. Se qualcosa non ha un prezzo di mercato, allora non ha valore.

Tutto è in vendita: diritti, salute, scuola, ambiente, territorio, perfino l’acqua. Non cito le minorenni, perché quella è un’invenzione molto più vecchia. Pure il voto è in vendita, ma anche questa è una vecchia, vecchissima invenzione.

Invece non ha valore la dignità, non ha valore la cultura, non ha valore solidarietà. Chi venderebbe dignità, cultura, solidarietà? E chi comprerebbe queste cose? Nessuno. Ecco dimostrato.

La seconda conseguenza è che il denaro è l’essenza del mondo. I soldi. Cash, come dicono i più tonti dei miei allievi. Il denaro è l’unico valore. Il denaro è ciò che dà valore alle cose.

Per questo non esiste il “denaro sporco”. Il denaro non solo è per definizione pulito, ma pulisce. Il denaro santifica.

Gli italiani ci hanno messo vent’anni (ed è un mistero perché ci abbiano messo tanto) per capire, in primo luogo, che non funziona.

Se si mettono i soldi in cima a tutto, non funziona niente. La cosa buffa, è che non funziona neanche l’economia. Quest’Italia che per vent’anni ha pensato che il denaro fosse l’unica cosa importante, sta attraversando la più grave delle crisi economiche. Più parliamo di soldi, più diventiamo poveri.

Il fatto è, che quando parliamo di economia, non parliamo di soldi. Ecco il segreto. Quando parliamo di economia, parliamo di lavoro. Questo è quello che io ho imparato da vecchio filosofo ottocentesco, il quale però a sua volta l’aveva imparato dai grandi liberali, dagli inventori del liberalismo. È il lavoro, la Ricchezza delle Nazioni. Non i soldi.

E poi c’è tutto il resto. Tutto quello che ci portiamo dietro anche se siamo senza soldi. Tutto quello che, se non ce l’abbiamo, non lo potremo mai comprare, neanche con tutti i soldi del mondo. La dignità. La cultura. La partecipazione. La condivisione.

Ecco, questo dicevano i palloncini arancione, in piazza, ieri.

La sfiga ha cambiato di segno

Non è solo il fatto che il grande Vincitore ha ormai dipinta in faccia la maschera del Perdente, e non se la toglierà mai più.

Ma a guardare quei giovani in piazza, mi viene in mente che per quasi vent’anni nei filmetti di serie B (che sono il vero specchio di un paese) vi era la macchietta fissa dello “sfigato di sinistra”. Una macchietta così convincente che persino quelli di sinistra l’avevevano introiettata, inventando il “tafazzismo”.

Pensando a tutti quelli che in queste settimane hanno invaso il Web di filmetti satirici, che si scambiavano messaggi derisori, che tempestavano di prese per il culo i blog di destra, a quelli che ieri erano in piazza coi palloncini; e, dall’altro lato, a tutti quelli che se ne stavano in casa a rodersi, increduli e storditi, a quei balenghi col fazzoletto verde che sono andati da Lerner ad arrampicarsi sui vetri per dire che no, non è successo niente – insomma, chi è adesso che piscia contro vento? Chi sono i tafazzisti?

Naturalmente il berlusconismo non è ancora sconfitto, tenterà il grande botto delle Ardenne, ma è chiaro che non è più trendy, è superato, è solo questione di tempo.

E allora giù legnate sul cane che annega.

La Confindustria applaude l’amministratore della Thyssen condannato per il rogo

Hai voglia essere abituato a tutto, averci fatto il callo, ma l’espressione di solidarietà rivolta dalla signora Marcegaglia all’amministratore delegato della Thyssen, condannato per la morte dei sette operai di Torino, è di quelle cose che riescono ancora a farti saltare sulla sedia.

No, proprio non me l’aspettavo. Si può essere disincantati, “uomini di mondo”, fin che si vuole, ma c’è sempre qualcuno (in questo caso qualcuna) che riesce a darti una botta a tradimento alla bocca dello stomaco che ti lascia senza fiato.

Be’, consoliamoci. Almeno queste parole (che spero non verranno domani liquidate come una gaffe, “è stata male interpretata” ecc.: sarebbe addirittura peggio) portano un po’ di chiarezza. Diciamo pure che chiudono un’epoca. Un’epoca che anch’io avevo accolto come un fatto largamente positivo, anche se era l’espressione di un mondo che non è il mio, anche se ormai sono anni che s’era trasformata in uno stanco luogo comune. L’epoca, dico, cominciata quasi vent’anni or sono, in cui la “società civile”, il mondo dell’imprenditoria, della produzione, il mondo dell’industria, aveva annunciato la sua Rivoluzione, la volontà di prendersi la sua parte di carico dei problemi dell’intera società.

Lasciamo perdere l’esito che ha avuto, nel mondo politico politicante, l’ingresso della cosiddetta “società civile”. Ma oggi anche l’imprenditoria militante, l’imprenditoria che non fa politica in senso stretto, ma la vorrebbe fare in un senso più ampio, come forza propulsiva di una società in trasformazione, ha detto, per bocca della sua rappresentante eletta, che gli industriali non hanno più voglia di farsi carico dei problemi della società. A partire della sicurezza del lavoro. Muoiono sette operai? Be’, l’importante è che gli investimenti non abbiano a soffrirne. Ed ora un bell’applauso al nostro A.D., trattato come se fosse un assassino.

Neanche avesse ammazzato sette persone.


Addio, signora Marcegaglia. Ci mancherà. Ma impareremo presto a fare a meno di lei.

Coerenza

È sera, sono sulla riva del mare, una mezz’oretta dopo la chiusura dello stabilimento.

Finalmente c’è un po’ di calma, comincio a non sopportare più la confusione e il rumore della gente in spiaggia. Certo, ci sono persone simpatiche, come quella ragazza carina della seconda fila… Ho fatto un po’ il galletto con lei, niente di serio, s’intende, ma così, tanto per passare il tempo… Invece altri sono proprio insopportabili, il ragioniere della terza fila, per esempio, che parla sempre di calcio, della macchina nuova, fa battute sulle belle donne che dice di frequentare…

Adesso per fortuna non c’è nessuno, si sente solo il rumore del mare. C’è un po’ di vento, e si alzano le onde.

Però… laggiù, in mare… a qualche decina di metri dalla riva c’è qualcuno… Che imprudenza! con questo tempo si mette a nuotare! Un momento… ma io la conosco… è la ragazza carina della seconda fila… Si agita, sembra che gridi qualcosa. Forse è in difficoltà. Effettivamente mi ha detto di non essere tanto brava nel nuoto, e a quest’ora c’è sempre una forte corrente che spinge al largo. Sì, chiaramente è in difficoltà, e chiama aiuto.

Mi butto in mare, sono – ero – un discreto nuotatore, s-ciaf-s-ciaf, con qualche bracciata le sono vicino. Mi fermo e la guardo. Effettivamente è nei guai, le manca il respiro, tossisce, come se avesse già bevuto un bel po’ d’acqua… Adesso la prendo e la tiro a riva.

Ma… chi c’è un po’ più in là? Il ragioniere antipatico della terza fila! anche lui sembra nei guai. Si sbraccia, grida aiuto. Accidenti! di sicuro non ce la faccio a salvare tutti e due! Sono fuori esercizio, ho già il fiatone, ed è tanto se riesco a portare a riva la ragazza.

Bravo, mi dico! Salvi la ragazza carina e lasci annegare il ragioniere antipatico? Non è che nel tuo gesto eroico c’è un bel po’ di interesse personale, il desiderio, neanche tanto nascosto, di trarre profitto dalla situazione? E il ragioniere antipatico, invece, lo lasci annegare senza tanti rimpianti? Altro che eroismo! Sei un bell’approfittatore!

Adesso che ci penso, mi viene anche un sospetto. Un paio d’ore prima, sulla spiaggia, scherzavo con la ragazza carina, lei diceva di avere paura del mare, io ho detto ma no, non c’è pericolo, non ci sono correnti… Volevo solo fare lo sbruffone, non pensavo che lei potesse credere alle mie parole, e mettersi in una situazione pericolosa. Forse la ragazza sta annegando proprio per colpa mia, e allora, con che faccia, con che autorità morale adesso posso presentarmi come il salvatore, l’eroe della situazione?

È meglio che torni indietro e riconsideri con calma la situazione.

Mi siedo sulla sabbia. Quando mi sono gettato in mare ho preso una decisione troppo precipitosa. Non ho tenuto conto del contesto, non ho considerato le cause remote dell’incidente, il vissuto delle persone coinvolte. Col mio intervento disordinato e dilettantesco avrei condannato a morte sicura il 50% di quelli che avevano chiesto il mio aiuto.

Per prima cosa, non sono certo io quello autorizzato all’intervento. Qui devono intervenire i bagnini. Bagninoooo… Non c’è nessuno, lo stabilimento è chiuso, il personale se ne è andato. Come se la gente annegasse solo in orario di lavoro! Domani scriverò una bella lettera di protesta. Le persone oneste devono farsi sentire, se no siamo tutti complici. Se non ci sono i bagnini, potrebbe intervenire la Guardia Costiera… in fondo, salvare le persone in pericolo è il loro mestiere. Devo telefonare alla Guardia Costiera. Non ho il numero, ma adesso vado a casa, lo troverò di sicuro in Internet. Io non sono certo uno di quelli che guardano la gente che annega senza muovere un dito!

Mi alzo in piedi. Guardo il mare. Nessuno. Chissà che fine hanno fatto la ragazza e il ragioniere? Potrebbero essere annegati, o forse no. Ci sarà sicuramente un’inchiesta, domani leggeremo sui giornali… – ma figuriamoci, come al solito, si insabbierà tutto! La gente non ha coscienza, le autorità sono disposte a qualunque menzogna pur di pararsi il culo! Lavarsene le mani, ecco tutto quello che sanno fare! E invece la salvezza della gente in mare dovrebbe essere responsabilità comune! È una tragedia che tocca la coscienza di ognuno di noi!

L’annegamento in mare. Sembra incredibile, la nostra civiltà di qua, il progresso di là, eppure c’è ancora gente che annega in mare. L’annegamento in mare dovrebbe essere dichiarato un tabù, come l’incesto!

Da questa vicenda ho tratto motivo per alcune serie riflessioni. Adesso vado a casa, metto giù due righe, e le condivido con i miei amici su FaceBook. Bisogna che tutte le persone responsabili si impegnino ad elaborare un piano per l’eliminazione DEFINITIVA di TUTTI gli annegamenti in mare! Non uno di meno!

Come passa il tempo

Sono abbastanza vecchio per ricordarmi l’Italia del 1961.

Sono passati cinquant’anni, e gli enormi palazzoni dell’Esposizione sulle rive del Po sono ancora lì, nessuno li ha buttati giù, e nessuno ha mai trovato veramente un modo per utilizzarli. Memorabili monumenti dell’ingegneria, quasi del tutto inutili.

Mio figlio ha fatto scuola di roccia nel Palazzo a Vela, prima che venisse riutilizzato per le Olimpiadi del 2006. Vi erano pareti artificiali vertiginose. Il palazzo di Nervi si trova su tutti i libri di storia dell’architettura; ma è vuoto, e coperto di ruggine.

Nel 1961 a Roma c’era Andreotti. A Torino c’era la Fiat.

A Torino c’erano anche dei quartieri poco raccomandabili, pieni di immigrati: Porta Palazzo, San Salvario. Le vie della periferia erano piene di prostitute.

La città aveva un 10% circa di abitanti più di oggi. Le strade erano più o meno le stesse. In centro vi erano due grandi corsi dai pomposi nomi celebrativi: Corso Stati Uniti, e Corso Unione Sovietica. Cosa notabile: ci sono ancora, e si chiamano allo stesso modo.

Non c’era la metropolitana, le linee tranviarie erano più o meno le stesse, c’era un po’ meno macchine, ma l’aria era molto più inquinata. Riscaldamento domestico a carbone o a nafta. Niente metano.

La scuola. Nel 1961 facevo la seconda media. Ero fortunato, molti dei miei coetanei frequentavano i “tre corsi” dell’Avviamento, e poi a lavorare a 14 anni.

Poi avrei fatto il mio Liceo, dall’inizio alla fine, in giacca e cravatta. Ma non lasciatevi raccontare delle frottole: a parte l’abbigliamento, era più o meno come adesso.

La gente in casa aveva il frigorifero, la radio, il telefono, qualcuno la televisione. In bianco e nero, con un solo canale. Ma era pur sempre la Rai Tivvù. C’erano Mike Buongiorno, Emilio Fede, Piero Angela.

Se si voleva uscire la sera, si poteva andare al cinema: la scelta era tra superproduzioni americane, oppure commediole italiane, per lo più volgarucce e fatte in economia.

Fuori città, lì sì, c’era una grande differenza. C’erano ancora gli ultimi contadini, quelli che vivevano con sei vacche nella stalla, e il fieno ammucchiato con i forconi nel fienile. Ma sarebbero durati poco.

Nel mondo, c’era un po’ di guerre qua e là. L’uomo non era ancora andato sulla Luna, ma c’erano già missili e aerei supersonici capaci di portare bombe atomiche dall’altra parte del globo.

E soprattutto, il mondo conosceva da anni l’invasione della plastica, onnipresente.

Insomma, immaginiamo una macchina del tempo, che in un attimo porti un uomo del 1961 nel 2011, e un altro dal 2011 al 1961. Le cose sarebbero un po’ diverse, ma quanto ci metterebbero ad adattarsi?

Se proprio uno ci pensa su, tra la nostra vita nel 1961 e quella di oggi, la differenza più grande è che oggi io posso salire in macchina nel primo pomeriggio, e se non mi addormento in autostrada, faccio cena a Lubiana, senza che nessuno mi abbia chiesto chi sei dove vai. Pago il conto con i soldi che ho in tasca, se non ho contanti, esibisco un pezzo di plastica. Cinquant’anni fa, perfino andare da Torino a Mentone comportava un passaggio di frontiera, documenti, cambio, niente da dichiarare?

Ah, dimenticavo: oggi ci portiamo il telefono in tasca.


Prendiamo la stessa macchina del tempo, e facciamo un salto dal 1961 al 1911.

Sono sempre gli stessi cinquant’anni, ma tanto per cominciare, dobbiamo scavalcare cinque guerre.

Per celebrare il 50° dell’Unità, s’è abbattuto un pezzo di Campidoglio per costruire un enorme monumento, già all’epoca definito unanimemente orrendo. Giovanni Pascoli, per l’occasione, ha scritto due sterminati poemi in lingua latina: l’Hymnus in Romam, e l’Hymnus in Taurinos =>.

Al Quirinale c’è un Re appassionato di numismatica, con il suo corteggio di principi di Piemonte, di Genova ecc. La bandiera d’Italia ha lo scudo sabaudo nel centro(*). Non votano ancora le donne, e neppure tutti i maschi.

Le donne portano gonne fino a terra; gli uomini rispettabili si massacrano con uno stretto ed alto colletto rigido, in celluloide, anche in piena estate. Non esiste lo shampoo, non ci si asciuga i capelli col fòn, anche le case borghesi raccolgono, accanto al cesso, un discreto blocchetto di pezzi di carta di giornale, per la necessaria pulizia. Ma nella maggior parte delle case, anche in città, è considerato normale andare a farla in un gabbiotto in cortile. Sempre in cortile, ci sono le fontane per il lavaggio di panni. I regolamenti condominiali vietano di fare il bucato in casa. Niente pannolini per i neonati. Però chi può permetterselo trova già il Borotalco in farmacia.

(Naturalmente, niente plastica. Guardatevi in giro per casa. Anche una casa del 1961. Togliete tutti gli oggetti in qualche materiale sintetico. Dite che cosa vi rimane.)

Mussolini è un giovane deputato socialista. D’Annunzio, inseguito dai creditori, è scappato in Francia. A Parigi si parla ancora di un duello di cui s’è reso protagonista, due anni prima, F.T. Marinetti.

Le città sono decisamente più piccole di adesso. A Torino la campagna comincia, ad ovest, dopo Corso Tassoni; a sud, percorrendo corso Peschiera si vedono ancora, da una parte e dall’altra, vaste aree non edificate.

Sorgono le prime fabbriche. C’è ovviamente la Fiat, in mezzo a dozzine di altre piccole aziende, ancora incerte tra le quattro ruote e il biciclo, oppure, come la gloriosa Chiribiri, tra le automobili e gli aereoplani. Ma sono sicuro che sulla totalità della popolazione italiana, la maggioranza non ha mai visto né un’automobile, né un aeroplano; e forse neanche una bicicletta. E questo, a prescindere dalle differenze tecniche fra i mezzi.

La Fiat fa anche macchine da corsa: il modello più potente ha 14.000 di cilindrata, e tocca i 165 kmh. Gli aerei del 1911, be’, lasciamo perdere. Cinematografo, fonografo, radio, telefono, ecc: diavolerie moderne, chissà se avranno un futuro.

Si va in America con il vapore; per i più, dati costo e lunghezza del viaggio, non ci sarà ritorno.

Le città stanno realizzando l’illuminazione pubblica: ma alcune non si sono ancora decise tra il gas e l’elettricità.

Gli analfabeti sono quasi la metà della popolazione: un po’ più le femmine che i maschi. Quasi il 50% della popolazione attiva lavora nei campi.


Insomma, avete capito dove voglio arrivare. Negli ultimi cent’anni, la storia ha viaggiato a due velocità diversissime. Per i primi cinquant’anni ha cavalcato come una Walkiria col culo pieno di peperoncino; poi, ha poltroneggiato per il secondo mezzo secolo.


(*)Ai tempi del Fascio, tutti avevano in casa una bandiera, da esporre nelle festività di precetto. L’abitudine rimase ancora per qualche anno dopo la guerra, ma ben pochi si erano sobbarcati la spesa di un drappo repubblicano. Alcuni miei zii tiravano fuori quello vecchio, ma lo lasciavano mezzo arrotolato, in modo che la croce di San Maurizio non fosse troppo visibile. Non era nostalgia monarchica, solo tirchieria.

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Zio Michele, Ruby e la lingua di Sodoma e Gomorra

C’è di peggio che ammazzare e violentare (non s’è ancora capito in che ordine) una nipote, sventolare la begonia (propria o altrui) per sfilare ad un vecchio demente qualche migliaio di euri?

Il peccato orrendo di quest’epoca infelice sembra essere linguistico. Un uso contro natura del linguaggio, una Sodoma e Gomorra verbale in cui le parole a tutto servono, meno che a comunicare un significato.

Sono stato io non sono stato io è stata lei non è stata lei perdonami ti perdono non potrò mai perdonarti. Lo conosco non lo conosco non l’ho mai conosciuto lo conosco ma gli voglio bene sono andata non sono andata sono andata ma non ho fatto niente m’ha dato dei soldi non m’ha dato dei soldi. Giuro giuro giuro lo giuro è così non è così, sniff sniff, qui lo do dico qui lo nego mi smentisco mi correggo mi interpreto. Sniff sniff.

Qualcuno si porta avanti con il lavoro: non parlo, ma potrei parlare, parlerò, non oggi, domani (forse) parlerò, vedrete, parlerò di sicuro, se parlerò ve lo farò sapere.

Il linguaggio da strumento della comunicazione e della (la sparo grossa!) conoscenza, diventa un abito che si cambia ad ogni occasione, un gesto intercambiabile di mimèsi, camuffamento, occultamento. Dire le cose come stanno è il vero scandalo, e perfino la Chiesa scopre nell’educazione sessuale il suo più gran nemico. Pessimi attori, nello spettacolo / nella politica / nella vita privata, si agitano per ottenere qualche minuto d’attenzione dalle telecamere, ed improvvisano una commedia di cui non conoscono il copione, probabilmente non sanno neanche se c’è o non c’è un copione, cercano di compiacere il pubblico del momento, recitano una fìc-scion scambiandola per vita vera e vivono la vita vera come se fosse una fìc-scion, un attimo dopo, altro pubblico, altra fìc-scion, un’altra vita altrettanto vera altrettanto finta.

Poveri stronzi patetici, che ballano alla musichetta strimpellata dallo stronzo più patetico di tutti.

Il mercato del lavoro for dummies

La teoria oggi di moda riguardo al mercato del lavoro ha il fascino delle cose semplici. Se c’è disoccupazione, stagnazione, allora bisogna ridurre i salari, ridurre le garanzie dei lavoratori, ridurre la rigidità dell’occupazione. Gli operai pur di lavorare saranno disposti ad accettare condizioni di lavoro meno favorevoli, almeno nell’immediato. Gli imprenditori vedranno in ciò maggiori garanzie per i loro investimenti, fabbriche più governabili, lavoratori più “produttivi”, e faranno maggiori investimenti. Più investimenti, più occupazione; più occupazione, più salario; più salario, più consumi, e quindi più investimenti ecc.; quindi, in breve tempo, anche le condizioni di vita degli operai miglioreranno notevolmente.

Semplice, no?

Questa teoria ha il fascino e l’automatismo di un’altra, il keynesismo for dummies.

Se l’economia ristagna, allora è compito dello Stato rilanciare la domanda, aumentando la spesa pubblica. Certo, questo all’inizio comporterà un aumento del deficit del bilancio dello Stato, che non è mai una bella cosa. Ma se aumenta la spesa pubblica, aumenterà la domanda globale; le industrie aumenteranno la produzione, investimenti, occupazione; cresceranno anche i profitti, e quindi inevitabilmente il gettito fiscale. Il deficit del bilancio sarà colmato in pochi anni, e tutta la società sarà rivitalizzata.

Semplice anche questo!

Già che siamo in giornata di semplificazioni, vediamo un’altra teoria semplicissima, la prima versione del tremontismo – no, non il tremontismo “for dummies”, perché in questo caso la dumminess è alla fonte.

Allora, Giulio Tremonti, uno che cento ne dice e nessuna ne pensa, nella campagna elettorale del 1994 ripeteva trionfante e persuasivo: Fino ad ora si è detto: prima bisogna ripianare il deficit dello Stato, poi si potranno diminuire le tasse. Ma che prima e che dopo! La prima cosa da fare è ridurre le tasse. Se l’imprenditore deve pagare meno tasse, non avrà tanta paura a fare investimenti, avrà maggiori risorse per tentare nuove imprese, assumere nuovo personale ecc. Quindi (ormai l’avrete capito) ecco l’economia che “gira” come una trottola, schizzando benessere su tutta la società, ed anche il bilancio dello Stato, alla fine, ammetterà di averci guadagnato.


Cos’hanno in comune queste tre teorie? La fiducia assoluta che un impulso iniziale, una volta dato l’avvio ad una macchina meravigliosa che va sotto il nome di “moltiplicatore”, metterà in moto una valanga inarrestabile, un automatismo prodigioso che risolverà tutti i nostri problemi.

Ma queste teorie hanno anche un altro punto in comune: che una volta messe alla prova, non funzionano sempre. Spesso funzionano, ma non sempre. Anzi, a voler essere pignoli, sono forse più le volte che non funzionano che le volte che funzionano.

Andando in ordine inverso, il tremontismo for dummies – almeno in Italia – è stato cassato all’origine proprio da Temonti e dagli altri ministri della sua parte politica, che una volta al governo si sono ben guardati dal ridurre le tasse – a parte qualche regalino ai propri orticelli elettorali.

Anche il keynesismo for dummies ha avuto una clamorosa smentita proprio in Italia, dove una lunghissima epoca di spesa pubblica “allegra” o “creativa” che dir si voglia ha lasciato un debito pubblico avvilente, mentre una dopo l’altra le grandi imprese si riducevano ad ammassi di ferraglia.

Quanto la mercato del lavoro for dummies, be’, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Prima piano piano, in modo quasi impercettibile, poi più decisamente, infine con la forza di una frana appenninica, salari, condizioni di lavoro, tutele sindacali, occupazione, nel giro di un buon quarto di secolo hanno visto un’erosione, una deprivazione, un degrado, un crollo che è sotto gli occhi di tutti. La forza propulsiva di questo mercato, tutto favorevole agli imprenditori, non s’è vista. Ormai quando qualcuno dice che in Italia l’economia “non gira” perché i salari sono troppo alti ecc. farebbe ridere, se non ci fosse da piangere.


Mettiamoci il cuore in pace: nei sistemi complessi (e l’economia di una Paese è un sistema complessissimo) non c’è un solo “moltiplicatore” che può spiegare tutto. Anzi, affidarsi ad un solo meccanismo semplice in una situazione complessa molto spesso porta a conseguenze rovinose.

Spiegare i sistemi complessi in base ad unico principio semplice è l’essenza dell’ideologia; tentare di applicare quest’ideologia – contro ogni evidenza dei fatti – per “governare” i sistemi complessi è l’essenza dell’utopia.

Poiché nessuno rinuncia volentieri alle proprie illusioni, chi segue un’utopia (anche l’utopia delle mercato del lavoro for dummies) dirà che la cosa non funziona non perché non funziona, ma perché i salari non sono ancora abbastanza bassi, le tutele non sono ancora abbastanza destrutturate, la flessibilità non è ancora abbastanza flessibile. Di fronte al fallimento delle utopie, gli utopisti diranno sempre: più utopia!

Poi tocca ai non utopisti raccogliere i cocci.


Allora, una non-utopia del mercato del lavoro per non-dummies, su che cosa potrebbe basarsi? Per non fare la figura del pirla, e smentire tutto quello che ho detto finora, vi dico subito che non ho la soluzione in tasca. Ho solo qualche osservazione.

Primo, che la teoria del mercato del lavoro per dummies ha il grosso difetto di essere una teoria puramente quantitativa (quanto lavoro, e quanto costa), mentre oggi il problema drammatico sembra essere quello della qualità del lavoro. “Produttività” del lavoro (mi sembra di averlo già detto in un => recente articolo) non significa raccogliere dodici cassette di pomodori invece che dieci nello stesso tempo. Produttività del lavoro significa tutto quello che dà valore al prodotto oltre al lavoro bruto. Produttività del lavoro significa formazione, istruzione, investimenti, tecnologia, ecc. cioè tutto quello che da vent’anni non facciamo altro che sperperare. Produttività del lavoro significa, checché ne dicano i dummies di tutto il mondo, lavoro meglio retribuito.

Secondo, che tutti i moltiplicatori delle teorie elencate sopra, per vari motivi, di tipo economico e politico, non hanno funzionato tra l’altro perché hanno moltiplicato non gli investimenti, ma i redditi di una minoranza che ha accumulato enormi risorse trasformandole in inespugnabili rendite di posizione. Agevolazioni fiscali, spesa pubblica, bassi salari, hanno permesso ad un’oligarchia politico-finanziaria di trasformare enormi risorse in puro potere, e non in investimenti produttivi.

Terzo, che i sistemi politici oggi dominanti del mondo agiscono prevalentemente nella direzione di tutelare gli interessi di quell’oligarchia; e che in un mondo dominato dalle rendite di posizione questo spesso significa vedere il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori come un pericolo, non come un beneficio sociale, neanche come una possibilità di investimento.

Insomma, se c’è una morale in tutto questo, è che non ci sono ricette bell’e pronte per il mercato del lavoro dell’avvenire, che in un sistema complesso bisogna intervenire con un accorto dosaggio di tutte le strategie disponibili, e che in fondo quello che manca veramente nel mondo occidentale – e in Italia in particolare – è qualcosa che non saprei definire altrimenti che come una maggiore dose di democrazia economico-sociale.

Trent’anni fa

Trent’anni fa la competizione era sul benessere.

I paesi più avanzati, da prendere a modello, erano quelli che garantivano migliori standard di vita alle loro popolazioni. Redditi alti, consumi, sicurezza, posto fisso. Era in atto una gara, tra est e ovest. Prima o poi i cittadini delle società dell’est, si diceva, si sarebbero stufati di vivere in realtà povere, in città che erano immense squallide periferie, senza gioia, senza il luccichio dell’Occidente. Avrebbero chiesto anche loro un pezzo di quel benessere a cui ogni uomo è destinato: ed allora, addio comunismo.

Krushev aveva sfidato su questo gli Stati Uniti: nel giro di vent’anni, disse, la nostra economia sarà al vostro stesso livello, anzi, vi supereremo. Il “mondo libero” rideva di queste spacconate.

Quanto ai cinesi, che con “un pugno di riso” mantenevano un’intera famiglia, erano oggetto di commiserazione un po’ razzista.

Oggi è tutto cambiato. La competizione è sulla povertà. Come certi supermercati dicono “mostrateci un concorrente che vende ad un prezzo più basso del nostro, e noi adegueremo immediatamente i nostri prezzi”, i nostri capitani d’industria sanno sempre mostrare ai loro dipendenti l’esempio di lavoratori stranieri che lavorano di più, per meno soldi, senza protestare, anzi, sono ben contenti. Meno soldi, più lavoro, meno sicurezza, meno benessere.

Istruzione, cultura? Costi inutili. Salute? Se te la puoi permettere. Ambiente? Macché: nucleare. Anzi: carbone! impariamo dai cinesi!

C’è sempre qualcuno più povero che ci mostra la strada: e dobbiamo sforzarci il più possibile per adeguarci al suo livello. Se no, perdiamo la sfida.

Ecco il nostro futuro: la gara a chi accetterà di diventare più povero.

Produttività

Spesso nelle discussioni non ci si capisce perché non ci si mette d’accordo sul significato delle parole.

Una delle difficoltà più grosse, è che a volte certe parole hanno un significato molto diverso da quello che viene attribuito nel corso della conversazione comune.

Una delle parole usate peggio è “produttività”.

Solitamente a questa parola viene dato un significato di questo genere: se c’è un raccoglitore di pomodori che in un’ora raccoglie dieci cassette di pomodori, e un altro che ne raccoglie dodici, il secondo è più “produttivo”.

Se poi quello che ne raccoglie dodici, invece di chiedere quattro euro all’ora, si accontenta di tre, allora è più “produttivo” due volte.

Questo ragionamento non ha niente a che vedere con il significato proprio del termine “produttività”.

La produttività del lavoro è il rapporto fra il valore finale del prodotto e il costo complessivo del lavoro. Valore del prodotto / costo del lavoro. Una frazione, il cui risultato dipende dal numeratore e dal denominatore.

Se un raccoglitore di pomodori raccoglie pomodori più in fretta per una paga inferiore, quello che l’ha assunto può vendere i pomodori ad un costo minore. Su questo si basa la concorrenza tra produttori di pomodori. Abbattere i costi, per abbattere il prezzo del prodotto finale. Minore costo del lavoro, minore valore del prodotto finale. La produttività non è aumentata. Cala il numeratore, cala il denominatore, il risultato può addirittura diminuire.

Quand’è invece che il risultato cresce? Quando cresce quello che c’è sopra la linea di frazione, più di quello che c’è sotto.

Quand’è che il valore del prodotto aumenta di più del costo del lavoro? Quando la produzione si sposta verso settori tecnologicamente più avanzati, in cui il valore del prodotto dipende molto di più dagli investimenti in capitale fisso (macchinari, innovazione, tecnologia ecc.) che dal costo del lavoro.

Naturalmente, per investire in macchinari, tecnologia ecc. bisogna avere manodopera adeguata. Un’azienda che investirà molto in tecnologia avrà fra i suoi dipendenti molti ingegneri, e pochi raccoglitori di pomodori. Molta manodopera qualificata e ben pagata, e poca manodopera poco qualificata e mal pagata.

L’Italia, com’è noto, importa raccoglitori di pomodori, importa colf e badanti, ma esporta manodopera qualificata. Esportiamo laureati, e poiché i laureati che esportiamo vanno all’estero per vivere meglio di come vivrebbero in Italia, per trovare migliori condizioni di lavoro, non peggiori, vuol dire che noi esportiamo i nostri migliori laureati.

Gli industriali piangono, ma è un fatto che in Italia la produzione di diplomati e laureati bravi è superiore alla domanda da parte delle aziende.

L’Italia ha scelto di puntare sul contenimento dei salari: cioè, sul lavoro meno qualificato. Cioè sul lavoro meno produttivo.

Ci siamo nessi in un’assurda gara con i paesi arretrati a chi paga meno i propri dipendenti, cioè a chi abbassa la produttività del proprio lavoro.