La libertà di stampa, e quelli che si adeguano

Per molti, non solo per voci, diciamo così, “della strada”, ma anche per un giornale famoso e prestigioso come il Financial Times, quelli di Charlie Hebdo “se la sono cercata” pubblicando vignette “stupide” ed “offensive”.

Questo dimostra che i terroristi conoscono l’Europa molto meglio di tanti europei.

La libertà di stampa è l’anima dell’Europa. È il principio per cui, se non ti piace un giornale, sei libero di non leggerlo: ma non puoi ammazzare i giornalisti, o metterli in prigione, come è capitato pochi giorni fa in Turchia. Senza questo principio, senza il rispetto rigoroso e inflessibile di questo principio, l’Europa non è più l’Europa.

Se in questo principio inseriamo un criterio di maggiore o minore “opportunità”, è finita. Ammettiamo che la libertà di stampa è una libertà limitata; che c’è qualcuno che ti può dire che una certa notizia, una certa vignetta, se non la pubblichi è meglio. Così, a scanso di grane.

Se cominciamo a dire che la libertà di stampa vale per i giornali “buoni”, e vale un po’ meno per i giornali “cattivi”, abbiamo cancellato gli ultimi duecento anni di storia europea.

Per questo i terroristi hanno attaccato un giornale satirico dichiaratamente “bête et méchant”. Sapevano perfettamente quello che facevano. Hanno attaccato la libertà di stampa distruggendo un giornale che molti (non io, ma non è questo che conta) considerano “inopportuno” e “irresponsabile”.

Invece quelli che dicono che certe cose, se non le pubblichi, è meglio, se non vuoi passare dei guai, è ora che si facciano crescere la barba e tolgano dal frigo il prosciutto e le lattine di birra: si sono già adeguati.

Be’, ci siamo già passati, un’ottantina di anni fa. Poi ne siamo usciti. Con fatica, ma ne siamo usciti.

È ora di ristudiare quella vecchia storia.

Provincialismo

“Non parteciperemo alle operazioni di soccorso nel Mediterraneo. D’altra parte, abbiamo solo un paio di navi e qualche aereo, e il Mediterraneo è grande.”

Queste parole sarebbero poco opportune in bocca ad un sindachello in camicia verde della profonda Padania.

Ma quando a pronunciarle e il Ministro degli Esteri dell’ex dominatrice dei mari, della potenza che col vessillo dei tre leopardi mandava le proprie navi a pattugliare gli oceani del mondo intero, cascano le braccia dallo sconforto.

È sempre sgradevole vedere un’ex grande signora adattarsi ai modi sgangherati di una comare di provincia. E quanto più è grande la caduta, tanto più amaro è lo sconforto. Per di più, qui non si tratta della toilette da indossare al matrimonio di una lontana pronipote – una parente povera, che non merita la mise delle grandi occasioni –, ma di una questione che riguarda la vita e le morte di decine di migliaia di disperati.

Il rifiuto di partecipare all’operazione di salvataggio, la sempre più petulante richiesta di defilarsi da un’Europa in cui l’inglese è pure la lingua di scambio più diffusa, avranno giustificazioni contabili di un certo peso, ma non tali da nascondere l’involgarimento dei costumi, la perdita di ogni bussola morale.

Come unica consolazione, potranno dire di non essere i soli.

In un’Europa distratta e provincialotta, e tutta intenta a rimirare le profondità di 28 ombelichi, chissà che non tocchi di nuovo all’Italia salvare il decoro di un intero continente.

Con buona pace degli inglesi, e dei sindachelli ecc.

Ricordi sul fascismo (10-16 aprile 2014)

Mio padre era nato nel 1919, mia madre nel 1920. Si trovarono dunque a vivere i loro vent’anni in piena II guerra mondiale. Mio fratello è nato nel ‘43 in una cittadina sulla collina di Torino, dove i miei erano “sfollati” per sfuggire ai bombardamenti. Solo mio padre affrontava tutti i giorni il viaggio per andare a Torino a lavorare (io, come mio nonno paterno, mio padre e mio fratello abbiamo avuto una giovinezza caratterizzata da una magrezza quasi patologica: per questo siamo sempre stati giudicati inabili al servizio militare; non così da parte di mia madre: mio nonno ha fatto la I guerra mondiale in Albania, mio zio come alpino in Jugoslavia, e dopo l’8 settembre è finito in campo di concentramento in Polonia).

Insomma, nei ricordi della mia famiglia, il fascismo si presentava come una enorme insensata tragedia.

Il crollo del consenso dovuto alla catastrofica conduzione della guerra dava alla generazione giovane di allora la sensazione di essere gli unici sani di mente in un mondo di pazzi, che per anni avevano accolto con entusiasmo le strampalate promesse di uno psicopatico e di un buffone.

Inevitabilmente, le rievocazioni famigliari dell’era fascista erano condite dalla narrazione di situazioni paradossali, meschinità vergognose – anche di loro stretti conoscenti –, e terminavano con un giudizio perentorio: “il fascismo era solo propaganda: tutte balle”.

Tale giudizio era rafforzato dall’informazione storica diffusa nei decenni successivi; ogni rievocazione del Ventennio comprendeva qualche spezzone di filmati con discorsi del Duce dal balcone, giovani Avanguardisti e Piccole Italiane in marcia coi gagliardetti, e gerarchi impettiti con la nappina del fez che ballonzola sulla fonte. Insomma, una comica meglio di Stanlio e Ollio. Di questo clima, i Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti sono una rievocazione quasi commovente nella sua intensità.

Io sono sempre stato di sinistra, più o meno estrema; i miei, sono stati sempre dei moderati, e non hanno partecipato alla Resistenza. Mio padre ha votato liberale per tutta la sua vita – e così mio zio, l’Alpino, tornato a guerra abbondantemente finita, dopo la Jugoslavia, la prigionia in Polonia, e pure un bel po’ di prigionia in un campo sovietico, poiché per i rossi era pur sempre un soldato di un esercito nemico. Ma questa distanza tra le due estreme di quello che un tempo si chiamava l’Arco Costituzionale dava al mio antifascismo di famiglia un tono quasi ecumenico. Si poteva dissentire su tutto, ma che il fascismo sia stato una montagna di merda non si discuteva.

Aggiungiamo, per terminare questa breve ricostruzione, che in tutti quelli di quella generazione che ho conosciuto vi è la coscienza, confusa ma ferma, che, una volta entrati nella II Guerra Mondiale, per quanto l’esito sia stato doloroso, a conti fatti perdere come abbiamo perso è stata una enorme botta di culo. Settant’anni di arrampicamenti revisionistici sui vetri non sono riusciti a tirare fuori uno straccio di argomento decente per convincermi che la scelta della guerra fosse inevitabile. E perdere per perdere, meglio con gli Americani che distribuiscono cioccolata e sigarette, e una generazione di antifascisti in grado di rimettere in piedi la baracca.

Anzi, forse meglio così in ogni caso. Mussolini poteva starne fuori, come Oliveira ‘O Vicho’ Salazar, e Francisco Franco. Sarebbe morto nel suo letto, ed una torma di ecclesiastici in pompa magna e di vecchi nostalgici in camicia nera l’avrebbero accompagnato all’ultimo riposo. Ma non mi sembra ugualmente che Franco e Salazar siano molto rimpianti, nei loro paesi.

Soprattutto, ci saremmo trascinati fino all’epoca della decolonizzazione un ipertrofico e costosissimo Impero piacentiniano e razzista; e Dio solo sa quante lacrime e quanto sangue ci sarebbe costata la nemesi dell’hybris mussoliniana.


Non ho mai avuto alcun interesse alle discussioni sul “fascismo buono” e il “fascismo cattivo”.

In primo luogo, perché questo significherebbe riaprire il processo al fascismo. Ma non è più tempo. Il processo al fascismo è già stato fatto, parecchi anni fa, e si è concluso con un giudizio che ormai è passato agli atti. Qualunque discorso sul fascismo non può prescindere da questo.

In secondo luogo, una discussione sul “fascismo buono” e il “fascismo cattivo” non ha senso, perché di fascismo ce n’è stato uno solo. Non due. Uno.

Io sono convinto che il fascismo abbia avuto una grande svolta, negli anni intorno al 1938, con le leggi razziali e l’alleanza giugulatoria con il nazismo. Dopo, il fascismo non è più stato quello di prima. Ma il fatto è che questa svolta è stata compiuta da tutto il fascismo. Non ho notizia di personalità importanti che abbiano manifestato opposizione a questa svolta – a parte qualche noticina nel segreto di un diario personale, qualche mugugno a mezza voce.

La fuga c’è stata nel ‘43, quando tutti si sono accorti (con un bel po’ di ritardo) che ormai la guerra era perduta. Ed era il caso di cominciare a pensare a salvare la pelle. Ma è stata una storia squallida: per quelli che hanno cercato di salvare la pelle, come per quelli che non avendo più l’opportunità di accoppare gli Abissini, ed essendo lontani dal posto in cui Tedeschi ed Inglesi continuavano ad accopparsi, tanto per non perdere l’abitudine hanno cominciato ad accoppare gli Italiani.

Ed anche per i tantissimi che hanno cominciato a tenere, come si dice, “un basso profilo”.

Ma ormai la storia non era più la loro storia. La storia era degli altri.


Chiuso senza ripensamenti il fascicolo processuale, possiamo ora studiare il fascismo semplicemente per capire come sono realmente andate le cose, senza doverci più preoccupare di dover portare argomenti all’accusa o alla difesa.

O per lo meno, così dovrebbe essere, perché mi rendo perfettamente conto che in realtà non si raggiungerà mai perfettamente una simile serenità   per lo meno, non nell’arco della mia generazione. Ma questa non è la mia preoccupazione.


“Capire come sono andate veramente le cose” significa però in primo luogo mettersi in testa che di cose ce ne sono state. E grosse.

Dire che “il fascismo era solo propaganda”, come dicevano i miei vecchi, è un modo per esorcizzare un passato imbarazzante, scrollarsi dalle spalle un peso troppo gravoso da portare. Come tutti i giudizi riduttivi, “italiano brava gente”, “una dittatura temperata dall’inosservanza della legge” ecc. Uno strano accidente della storia, che ha avuto conseguenze disastrose, ma che alla fine “non ci appartiene”.

Ridurre il fascismo ad una comica tragedia, ad una tragica farsa, ad una grande rappresentazione a cui tutti si adeguavano per quieto vivere, è una troppo comoda rimozione.


Capire come sono andate le cose significa in primo luogo capire qual era la logica interna di quel periodo. Capire cosa pensava la gente. Capire come vivevano quel periodo, che tipo di rappresentazione mentale si erano fatti di sé e del mondo in cui vivevano.

Questo implica in un certo senso cercare di condividere il loro punto di vista, per quanto questo punto di vista sembri lontano.

La cosa è molto difficile, perché noi sappiamo come è andata a finire. E quindi, capire cos’avevano in testa quelli che ancora non lo sapevano, richiede un forte sforzo di immaginazione. Per quanto possibile, dobbiamo anche noi dimenticarci che sappiamo come è andata a finire.

In questo momento mi sto occupando di un tizio (non ha molta importanza per ora chi sia questo tizio) che non ha mai saputo come è andata a finire. È andato in Africa a conquistare l’Impero, ed è morto prima che l’Impero fosse fondato. Pieno di belle speranze e di entusiasmo, in sella al suo muletto, respirando l’aria frizzante dell’Altopiano.

Devo dire che la sindrome di Stoccolma comincia mordere. Non riesco a non trovarlo simpatico.

È il personaggio ideale per capire la mentalità dell’epoca. Non è stato contaminato dalla conclusione. Una caritatevole sciabolata in pieno corpo gli ha risparmiato di vedersi crollare il mondo addosso, quando il Fondatore dell’Impero ha usato l’Impero come una fiche da giocare sul tavolo verde del grande Risiko. Non gli è toccato dover scegliere tra la fedeltà alla Patria e la fedeltà al Duce. Non gli è toccata soprattutto una vecchiaia squallida e rancorosa, condannato a rimuginare il passato, a spiegare l’inspiegabile, a difendere l’indifendibile.

Poiché lui non ha saputo come è andata a finire, è più facile per lo storico entrare nella finzione narrativa di non sapere come andrà a finire. Come entrare nel bosco con Cappuccetto Rosso e non sapere che il lupo ci mangerà.

10-16 aprile 2014

Paola de Pin, sei su Scherzi a Parte!

Per ora, nessuna reazione da parte del Capo

sul blog la notizia calda continua ad essere il telegiornale autoprodotto, con i due mezzibusti che dicono quanto sono bravi loro e quanto sono stronzi gli altri

sono andato a cercare informazioni su questa Paola de Pin

sul sito del Senato viene indicata come “artigiano”

nel suo paese natale a quel nome risulta intestato un servizio di rigenerazione cartucce

naturalmente, niente da dire sulla persona, né sull’attività, una buona cittadina, onesta lavoratrice, fossero tutti come lei

si rimane un po’ smarriti di fronte a questi Signor Nessuno, a questi Uomini (e Donne) Qualunque proiettati al centro delle Istituzioni, inevitabilmente sotto l’occhio di tutti, inseguiti da giornalisti come cani famelici, poveracci anche loro, una notizia al giorno e hai lo stipendio, se no ciccia

la sensazione che se ne ricava è quella di una specie di reality televisivo, una Candid Camera, dicono al primo che passa per strada “lei ha vinto un milione” e poi la telecamera nascosta mostra al pubblico come reagisce, risate e pubblicità

naturalmente in televisione la cosa è finta, quelli che finiscono nella casa del Grande Fratello non sono veri Uomini Qualunque, sono stati accuratamente selezionati e istruiti da uno staff di professionisti che li ha rivoltati di dentro e di fuori per poter prevedere e programmare le loro reazioni

invece questi 5* sembrano vere vittime di un gioco crudele, prendi una madre di famiglia che mette l’inchiostro nelle cartucce vuote, le dai uno stipendio di 30K euro al mese, adesso vediamo come reagirà la nostra concorrente, quanti soldi sarà capace di restituire tutti i mesi, se si tiene mille euri senza scontrini è FUORI!

Domenica, al Quirinale

Domenica 28 aprile, pochi minuti dopo mezzogiorno, ero a Roma, in coda con altre decine di persone che attendevano l’ultimo turno di visita al palazzo del Quirinale.

Per ingannare l’attesa, alcuni sfogliavano sul telefonino le ultime notizie. Abbiamo quindi ricevuto contemporaneamente la cronaca del giuramento del nuovo Governo, che si svolgeva letteralmente a pochi passi da noi, e la notizia della sparatoria avvenuta a poco più di un chilometro in linea d’aria.

Non so se Luigi Preiti è un pazzo, o solo un disperato; se è vittima o carnefice. Di sicuro è un cretino.

Con l’infallibile intuito, e il cronometrico tempismo di cui solo gli autentici cretini sono capaci, ha individuato, per compiere la sua sparacchiata contro l’odiata casta dei politici, l’unico preciso istante in cui nel palazzo del Governo non c’era nessun Governo. Non il vecchio, che in quel volgere di minuti veniva ufficialmente dichiarato decaduto; non il nuovo, ancora impegnato nelle cerimonie e negli adempimenti d’uso presso quell’altro palazzo. Neanche a Ferragosto o a Capodanno avrebbe avuto la stessa matematica certezza di sparare al bersaglio sbagliato.

Ne hanno fatto le spese due sconosciuti Carabinieri, che avrebbero preferito rimanere tali, cioè sconosciuti; come capita a tutti quelli che in ogni epoca sono coinvolti nell’impresa di qualche cretino che cerca la notorietà con il sistema di Erostrato.

Non sono passate neanche quarantott’ore, e, come era matematicamente prevedibile, altri cretini hanno voluto esprimere la loro ammirazione per l’“uomo in giacca e cravatta”, inalberando la sua foto nel corso della manifestazione del 1° maggio. Anche questi, ben determinati a fare il massimo danno, senza che ne venisse alcun beneficio, né per loro, né per altri.

Fortunatamente, come in genere capita, gli imitatori non hanno avuto lo stesso talento del loro modello, ed hanno solo rovinato la manifestazione, fortunatamente senza né morti né feriti.

In memoria di Margaret Thatcher (Jannacci style)

Quelli che… quelli che lavorano sono solo dei rompicoglioni.

Non quelli che lavorano e pretendono diritti.
Non quelli che lavorano e pretendono un salario.
Non quelli che lavorano e pretendono una pensione.
Non quelli che lavorano e ogni tanto scioperano.
Non quelli che lavorano e si iscrivono ai sindacati.
Non quelli che lavorano e lasciano sporco in giro.
Non quelli che lavorano e si alzano alle cinque di mattina, “perché io sono uno che si alza alle cinque di mattina, io lavoro, mica come tanti…”
Non quelli che lavorano e puzzano di sudore.
Non quelli che lavorano e la sera guardano la partita.
Non quelli che lavorano e “quello lì chissà che lavoro fa…”
Non quelli che lavorano e dicono ai figli “studia, perché io lavoro, e per te studiare è il tuo lavoro”.
Non quelli che lavorano e “quando sarò vecchio tornerò a coltivare la vigna di mio padre”, ma quando sono vecchi guardano la partita come quando lavoravano.
Non quelli che lavorano “ma se vinco al Totocalcio smetto di lavorare”.

No.

Quelli che … quelli che lavorano sono dei rompicoglioni, perché lavorano. Anche se lavorano e non fanno nient’altro, sono dei rompicoglioni. Perché lavorano. Tanto basta per essere dei rompicoglioni.

E basta.

Quanto costa la conoscenza?

Due interventi su it.economia.

Una storiella, con il seguito.

La storiella è di “Albion of Avalon”.

Una ditta ha un macchinario che non funziona e chiama un tecnico. Arriva il tecnico, osserva il macchinario per 1 ora. Poi prende il cacciavite, stringe una vite ed il macchinario riprende a funzionare. Fatto ciò presenta la fattura . 1.000 euro. Il titolare della ditta, che lo aveva osservato per tutto il tempo, si incazza come una iena e dice: “se lei vuole essere pagato mi deve giustificare perché io debba pagare 1.000 euro per un colpo di cacciavite”. Il tecnico gli risponde “il colpo di cacciavite è costato 1 euro. I rimanenti 999 euro sono per il fatto che so dove dare il colpo di cacciavite e lei no”.

Il nostro imprenditore mette la fattura nella cartella Spese per manutenzione, e ne parlerà la sera con gli amici. “Quel figlio di puttana… 1000 euro per un’ora di lavoro… però alla fine sono contento, è giusto pagare uno che sa lavorare, mi ha salvato da un bel guaio, chissà se avessi chiamato un incompetente a che punto sarei adesso…”

Non si chiede come fa quel tizio a saper risolvere i problemi. Aveva bisogno di quell’intervento, ha chiamato la persona giusta, per lui è finita lì.


Raccontiamo ora un’altra storia. In un altro paese, un piccolo imprenditore ha un problema con una macchina utensile, che gli è assolutamente indispensabile, e gli è costata un botto. Arriva nell’officina, e ci sono gli operai che ciondolano attorno alla macchina ferma, scuotono la testa, danno botte sperando che si rimetta a funzionare. Uno si avvicina con un attrezzo chiaramente improprio, comincia a ravanare a caso, il nostro amico deve tirarlo via di brutto prima che faccia un casino.

Va in ufficio, e cerca l’assistenza. Quel famoso omino di cui gli avevano parlato… Ma no, qui nessuno conosce un tizio simile. Chiama le officine specializzate, gli rispondono voci assonnate che chiaramente non capiscono di che cosa parla. Chiama l’assistenza della ditta che gli ha venduto la macchina, ma la producono dall’altra parte del mondo, la filiale locale è in mano a degli incompetenti.

Ah, ci fosse qui quell’omino! Ma non c’è.

A questo punto il nostro imprenditore comincia a farsi delle domande.

Quando le cose funzionano, nessuno si chiede perché funzionano. Funzionano, se non funzionano paghi uno perché te le faccia funzionare. Normale.

Ma se le cose non funzionano, e non c’è speranza che tornino a funzionare in tempo utile, allora uno comincia a chiedersi perché. Perché anche sventolando per strada 1000 euro non si trova nessuno capace di far funzionare quella macchina? Eppure in quel paese ci sono dei morti di fame che per molto meno ti venderebbero la moglie, la madre e tutta la famiglia, ma non c’è verso di trovare uno col cacciavite magico.

Ecco il grande paradosso. In un mondo dominato dal denaro, hai bisogno di qualcosa, ma non puoi averla neanche pagando.

Il nostro imprenditore, disperato, decide di andare a farsi una birra. Esce, si aggira per strade sporche, in mezzo a mucchi di spazzatura. Sono tutti morti di fame, ma tutti hanno la macchina, e guidano come dei dementi. Non rispettano nessuna regola, quando non riescono ad andare avanti – ed anche quando vanno avanti tranquillamente, suonano ostinatamente il clackson. In mezzo al traffico avanzano faticosamente i mezzi pubblici: emanano un fumo acre, mandano un penoso rumoraccio di ferraglia, sono molto mal ridotti, e non c’è nessuno che si occupi della manutenzione. Quando si guastano, e non è sufficiente dare qualche bottarella qua e là a caso per farli ripartire, vengono lasciati ad arrugginire nei cortili delle autorimesse.

Passa davanti ad una scuola elementare. Dalle finestre sente la maestra che pronuncia ad alta voce una frase dopo l’altra. Una scolaresca di forse 40 bambini ripete in coro le frasi della maestra. L’imprenditore guarda dalle finestre. L’aula è poverissima, anche se tenuta con una certa dignità. Una piccola lavagna, e qualche foglio di carta appeso alle pareti, con scritte e disegni infantili, come arredo didattico. I bambini non sembra che abbiano libri, al massimo, ma non tutti, un piccolo quadernetto, su cui scrivono a fatica con un mozzicone di matita. Il nostro imprenditore si allontana, seguito dal coro dei bambini che ripete le parole della maestra.

Il nostro imprenditore comincia a pensare che non sia un caso se nessuno sa riparargli la macchina. Se un paese ha una mentalità tecnologica diffusa, comportamenti razionali per educazione, una testa abituata ad affrontare i problemi, gente che si fa delle domande e si sforza di trovare una risposta, una scuola che offre stimoli e chiede iniziativa e comprensione, non saranno tutti geni, ma nel mucchio qualcuno che sa fare le cose salta fuori sempre.

Il nostro imprenditore pensa ai famosi 1000 euro. 1000 euro per una riparazione di un’ora, son tanti: ma son 1000 euro, non la fine del mondo. Visto e piaciuto, preso e pagato; ecco lì la macchina riparata, ed ecco qui la fattura.

Ma una società capace di produrre quegli omini col cacciavite, quanto costa?

L’accisa

Here is a brand new Italian word that has come into fashion in the last few months: l’accisa. I came across this word for the first time last November, just after the floods which brought so much damage to Liguria and Toscana, when the President of the Regione Toscana announced the introduction of un’accisa sulla benzina per pagare i danni creati dall’alluvione (an accisa on fuel to pay for the damage created by the floods). Then again just a few days ago the Government announced another accisa of two cents on fuel to help the population of Emilia Romagna which was hit by the earthquakes of 20th and the 29th of May. However, according to my Vocabolario della Lingua Italiana Treccani, accisa is actually an obsolete word.

Quanto sopra viene da un blog di linguistica, ed è stato citato nel gruppo di discussione sulla lingua italiana.

Mi sono permesso di rispondere, nel mio inglese maccheronico,

the term may be found in several languages: Latin accensare > Dutch accijns > French accise > Italian accisa > Engl. excise > Germ. Akzise (old form for Verbrauchssteuer) ecc.

en.wikipedia.org/wiki/Excise_tax_in_the_United_States

Agli italici lettori potrei aggiungere che se Monti avesse annunciato l’introduzione di una nuova Excise Tax, avrebbe suscitato gridolini di ammirazione in tutti i bocconolatri.

Ottusità ideologica

Non c’è niente come l’ideologia capace di ottundere l’intelligenza anche di persone di grande valore.

Il ministro Fornero, sulla cui competenza tecnica non sono in grado di fare rilievi, si è lasciata andare a dichiarazioni che dimostrano solo il suo livore verso una realtà che non si adatta a piegarsi alla sua ideologia. I risultati sono stati disastrosi.

Non si può parlare di “caramelle” a proposito di cittadini che, dopo una vita di lavoro, hanno sottoscritto un accordo con l’azienda e l’ente pubblico in base alle norme vigenti in quel momento, e che ora, in seguito al cambiamento delle norme, hanno la prospettiva di rimanere per anni senza lavoro e senza pensione. Chi occupa quel posto deve misurare le parole. Si tratta di elementare sensibilità istituzionale. Se si è fatto un errore, si corregga, senza ostinarsi in una diabolica perseveranza.

Solo furore ideologico può spiegare espressioni come «è impensabile … che in una società come la nostra … si possano iniziare e concludere carriere, da 17 a 57 anni, sempre nella stessa realtà aziendale». Ma chi gliel’ha detto?

Quando l’Italia era una grande potenza industriale, esistevano grandi aziende, che si facevano vanto di avere un personale stabile, e questo non per graziosa concessione, ma perché consideravano il legame tra i lavoratori e l’azienda una garanzia su cui poter contare per uno sviluppo costante. A Torino, gli “Anziani Fiat” erano un’istituzione, un po’ patetica e paternalistica, ma che esprimeva l’identità di una grande forza produttiva, non certo di una “cittadella del privilegio”.

Oggi, e lo vediamo benissimo, nel clima di smobilitazione che domina il nostro sistema economico, tutto questo non è più possibile. Ma questo è il problema, non è la soluzione. Ed un “tecnico” non può permettersi di confondere le due cose.

La storia della cultura moderna è piena di esempi di ideologie che per un certo tempo si sono spacciate per verità “scientifiche”. Tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900 il “darwinismo sociale” e la “scienza delle razze umane” hanno giustificato immani e disumani disastri. È necessario che oggi siano in primo luogo gli uomini di cultura e di scienza ad opporsi alle pretese di questa sorta di “darwinismo economico” che si chiama “liberismo”, e che pretende di essere “scienza”, quando è solo una rovinosa ideologia.

Mi ha telefonato un amico

Lo conosco da quando avevamo vent’anni. Ha un negozietto a pochi isolati da dove abitavo fino al 2006. Allora ci vedevamo quasi tutti i giorni, adesso le poche volte che vado a Torino sono sempre preso da vari impegni, appena ho finito salto in macchina e me ne torno in collina.

Il suo, più che un negozio, è una specie di ritrovo, dove ci si ferma a parlare del più e del meno.

Ma dice che da un po’ non riesce ad avere pace. Tutti quelli che entrano gli parlano della TAV, e pretendono da lui che prenda una posizione netta, a favore o contro, se no son guai. Sono esaltati, fanatici. Conosce gente della Val Susa. Pare che ormai là la situazione sia invivibile, una contrapposizione esasperata che ha diviso famiglie, amicizie. Non si riesce a parlare d’altro, a pensare ad altro.

Mi ha chiesto, un po’ timoroso, cosa ne pensavo. Ho risposto che io sono, sia pure con molti dubbi, a favore. Ma soprattutto mi sembra assurdo che su questa cosa si debba per forza dividere il mondo in buoni da una parte e cattivi dall’altra.

Si è un po’ tranquillizzato. Abbiamo cominciato a parlare d’altro.

Abbiamo deciso che è ora di vederci di nuovo.