Tu non sei Jorge Luis Borges

Il tema delle false attribuzioni letterarie sembra essere infinito.

Dopo la falsa poesia di Hemingway, un personaggio italiano piuttosto noto da noi e all’estero pare che abbia declamato questa poesiola, in uno spagnolo piuttosto maccheronico, di cui si sa solo una cosa: non è di Borges.

Poema a la amistad

No puedo darte soluciones para todos los problemas de la vida,
ni tengo respuestas para tus dudas o temores,
pero puedo escucharte y compartirlo contigo.
No puedo cambiar tu pasado ni tu futuro.
Pero cuando me necesites estaré junto a ti.
No puedo evitar que tropieces.
Solamente puedo ofrecerte mi mano para que te sujetes y no caigas.
Tus alegrías, tus triunfos y tus éxitos no son míos.
Pero disfruto sinceramente cuando te veo feliz.
No juzgo las decisiones que tomas en la vida.
Me limito a apoyarte, a estimularte y a ayudarte si me lo pides.
No puedo trazarte limites dentro de los cuales debes actuar,
pero si te ofrezco el espacio necesario para crecer.
No puedo evitar tus sufrimientos cuando alguna pena te parta el corazón,
pero puedo llorar contigo y recoger los pedazos para armarlo de nuevo.
No puedo decirte quien eres ni quien deberías ser.
Solamente puedo quererte como eres y ser tu amigo.
En estos días pensé en mis amigos y amigas,
entre ellos, apareciste tu.
No estabas arriba, ni abajo ni en medio.
No encabezabas ni concluías la lista.
No eras el numero uno ni el numero final.
Y tampoco tengo la pretensión de ser el primero,
el segundo o el tercero de tu lista.
Basta que me quieras como amigo.

Essere tedeschi a Istanbul

L’altro giorno su Facebook qualcuno si è chiesto perché la strage di turisti ad Istambul (12 gennaio 2015) non ha suscitato da noi nessuna particolare reazione.

Niente “siamo tutti …” boh, che cosa? Istanbuliti? Istanbulesi?

Io ho risposto: perché i morti sono in massima parte tedeschi, e i tedeschi sono antipatici a tutti.

Per questa mia affermazione sono stato pesantemente ripreso.

Ma chi mi ha attaccato non mi sembra che abbia offerto nessun’altra spiegazione.

Allora io insisto.


Il mondo è in fiamme. Una mostruosa creazione politico-militare a due passi da casa nostra sta cercando di ergersi a Stato, uno Stato teocratico e intollerante, e ha mosso guerra in primo luogo a tutti cittadini di quella regione, ma soprattutto ai valori di laicità, umanità e tolleranza che sono il vanto della storia europea.

Contro questo attacco, le istituzione europee, ma anche le forze politiche, la società civile e la cultura mostrano tutta la loro impotenza.

La costruzione di un’Europa veramente unita dovrebbe essere il vanto del XXI secolo, un passo avanti nella storia capace di dare la sua impronta a tutta la vita del resto del mondo.

Ma l’Europa in prima persona offre di sé uno spettacolo veramente degradante.

È evidente a tutti che l’Europa non ha una politica estera, e questo si deve imputare non solo all’inadeguatezza delle persone che di questo dovrebbero occuparsi, ma anche agli effetti di un disorientamento culturale e sociale che è sfociato in una vera e propria campagna di denigrazione verso tutto ciò che è europeo.

In quest’Europa la Germania non è solo la più grande realtà economica, dovrebbe anche essere il modello di quello che potrebbe diventare l’Europa se solo riconoscesse sé stessa. Uno stato sociale invidiabile, una amministrazione efficiente, un ordine che nasce da un diffuso senso civico e non dalla repressione. In Germania, caso ormai unico, i due più grandi partiti storici sono capaci di collaborare senza insultarsi, senza accusarsi reciprocamente di tutto quello che non va, senza che elettori e giornaletti d’ogni conformismo strillino all’“inciucio” e al “tradimento”.

Su questa Germania e sulla personalità che la guida il nostro politico più navigato ha espresso già da qualche anno un giudizio chiaro: “culona inchiavabile”; e questo Verbo è stato fatto proprio dalla folla di nullità a due gambe che da noi ha preso il posto di una classe politica.

Al di fuori della Germania, l’Europa non riesce a dare altro spettacolo di una rumorosa rissa da pollaio. Alcuni dei più grandi leader non propongono al popolo dei loro elettori altra prospettiva che non sia quella di tirare a campare all’infinito accumulando debiti su debiti, e molti di loro vantano in tutta serietà di voler riportare tutto il continente indietro di un’intera epoca storica, alla folla di bandiere, bandierine e banderuole nazionali, macro- e micro-regionali e di paese e di borgata: l’Inghilterra regina dei mari e Napoli borbonica regina della pizza, la Scozia regina dei gonnellini e la Grecia regina dei debiti.

Tutti si odiano, ma hanno un’unica idea chiara, declinata nelle molteplici lingue della Babele continentale: la Merkel è una culona nazista.


In questa grande cagnara una bomba esplode a Istanbul.

La Turchia è una delle porte dell’Inferno, una delle chiavi principali dell’attuale crisi, ma:

  1. la Turchia mostra tali e quali tutte le debolezze e gli squallori della politica europea; è stato rieletto a grande maggioranza alla massima carica un politico meschino e mediocre, che pensa solo a ottenere vantaggi a breve termine, ma è ossessionato da ridicole ambizioni (resuscitare il Sultanato già dominatore dell’Islam) e rancori atavici (l’odio verso il popolo curdo);
  2. l’Europa verso la Turchia non è riuscita a concepire altra idea se non quella di allungarle una qualche mancia di un due o tre miliardi di euro per non si capisce bene quale scopo.

Allora quella bomba ad Istanbul, quella strage di turisti tedeschi, ha mostrato tutta la debolezza di un’Europa che in questi ultimi anni non è riuscita a formulare altra idea se non questa: i tedeschi sono sommamente antipatici a tutti.

Se qualcuno ha un’altra idea, si faccia avanti.

Dobbiamo difendere la millenaria civiltà romana e cristiana

Partiamo pure dalla civiltà cristiana, anche se io non sono un cristiano.

Un punto fermo del cristianesimo, da sempre, per lo meno da San Paolo, è l’idea dell’unità del genere umano. L’idea stessa di “razza” è estranea al cristianesimo; vi sono sì diversi popoli, diverse culture, ma l’unico modo per affrontare il tema della diversità è riconoscere che le cose che abbiamo in comune sono più e più importanti di quelle che ci dividono.

Non mi credete? Allora andate a leggere un po’ di encicliche papali, a partire dalla Maximum Illud di Benedetto XV.

Parliamo adesso della civiltà romana, anche se non sono un romano, ma un torinese – ma anche Torino è una città romana, con le sue vie ad angolo retto, le due porte, una a nord e una ad est, i suoi licei classici e le sue grandi piazze d’armi.

I Romani hanno avuto tutti i difetti di questo mondo, tranne uno: non sono mai stati razzisti. L’Impero Romano è stata la più grande realtà multietnica e multiculturale della storia. E questa è stata la sua grande forza.

Lo strumento principale dell’espansione della civiltà romana è stata l’estensione sistematica della cittadinanza agli stranieri. La cittadinanza romana non veniva concessa per motivi di solidarietà e uguaglianza, concetti completamente estranei alla cultura romana (neanche il più balengo dei leghisti riuscirebbe a dare l’appellativo di “buonista” all’Impero Romano), ma era concepita proprio come mezzo per il rafforzamento dello Stato.

Fin quando l’Impero Romano ha accolto nuove popolazioni nei suoi confini, ed ha trasformato gli stranieri in cittadini, è stato forte.

Ad un certo punto, ha cominciato a dire, ai Goti e ad altre popolazioni nordiche, “potete venire, ma non siete cittadini romani, rimanete stranieri in terra romana”. Tempo cinquant’anni, e l’Impero Romano non esisteva più.

Se i fasci non sono d’accordo, possono andarsene in Gotland, e rimanerci.

Il grande No

Κωνσταντίνος Καβάφης

Kostantinos Kavafis, Alessandria d’Egitto 1863 – 1933

Il No di Metaxas a Mussolini il 28 Ottobre 1940. Il No al referendum del 5 Luglio 2015.

Senza entrare nel merito delle due vicende storiche, questa parola greca, ΟΧΙ, era entrata nella storia e nella memoria di quel paese attraverso i versi del suo più grande poeta moderno.

CHE FECE… IL GRAN RIFIUTO

Σὲ μερικοὺς ἀνθρώπους ἔρχεται μιὰ μέρα
ποὺ πρέπει τὸ μεγάλο Ναὶ ἢ τὸ μεγάλο τὸ Ὄχι
νὰ ποῦνε. Φανερώνεται ἀμέσως ὅπιος τὄχει
ἔτοιμο μέσα του τὸ Ναί, καὶ λέγοντάς το πέρα
πηγαίνει στὴν τιμὴ καί στὴν πεποίθησί του.
Ὁ ἀρνηθεὶς δὲν μετανοιώνει. Ἂν ρωτιοῦνταν πάλι,
ὄχι θὰ ξαναέλεγε. Κι ὅμως τὸν καταβάλλει
ἐκεῖνο τ᾿ ὄχι – τὸ σωστὸ – εἰς ὅλην τὴν ζωή του.

Per certi di noi arriva quel giorno
che c’è da dire il grande Sì, o il grande No.
Subito si fa avanti quello che il Sì ce l’ha già bell’e pronto,
in saccoccia: lo dice, e si fa strada
nella stima e nella considerazione di sé.
Chi s’è negato, non se ne pente. Gli chiedessero di nuovo,
ancora direbbe di no. Eppure lo manda in rovina
quel No – benedetto No! – per tutta la sua vita.

(Traduzione mia. Il titolo in italiano è nell’originale.)

Un commento pascoliano ad Orazio

[a proposito di: L’asclepiadeo maggiore [e l’arte di abbindolare i gonzi]]

da: Giovanni Pascoli, Lyra, 2ª edizione Giusti Editore 1899 p. 208

XXI. – Convivio intimo. – Il convivio è presso Leuconoe il cui animo non è sereno, come serena la bellezza. Così mi giova interpretare il nome della fanciulla, da λευκός e νοῦς, come valesse: se fosse anche nell’animo, candida sarebbe in tutto. Leuconoe è piena di suoi presentimenti e consulta i Chaldaei, i matematici che leggevano l’avvenire nelle costellazioni. Ha forse ella con sé i pinaces dove è computata la fine della vita di lei e di lui? Li mostra ella forse alla fine del simposio che non è riuscito a cacciare la nuvola dalla fronte candida? Nei simposii poteva aver luogo una specie di divinazione, per es., col cottabo e coi tali. E il parlare dell’avvenire con tristezza, abbiamo veduto nel prec. v. 131, e altrove, che era naturale e solito. E il simposio poteva essere nel natalizio o di Leuconoe o di Orazio, onde il discorso sui Chaldaei, poiché la loro arte consisteva (Cic. div. II, 87) in praedictione et in notatione cuiusque vitae ex natali die. Da tutto questo e dal verso 6, deduco che la poesia è conviviale come le precedenti, di cui la prima ([I-XVIII2]) ha lo stesso metro. « Non cercare con codesti illeciti computi sino a quando vivremo io e tu. Meglio è prendere quello che viene. O più d’un inverno ci sia serbato o l’ultimo sia questo, non ci pensare; filtra il vino e poiché la vita è breve non far lunga la speranza. Mentre parliamo è già passato un po’ della nostra parte di vita. Afferra l’oggi e non credere al domani ». Il convivio è d’inverno, anche questo; e figurato presso il mare che fa sentire il suo cupo brontolìo. Anche nel precedente si parla di burrasca. Anche nell’Ora tetra, Epod. [XIII3], mugghia il mare. Ciò deriva da Archilocho e Alcaeo, lupi marini? …


[Note mie]

1 Carm. I, 9 “Vides ut alta stet nive candidum…” al v. 13 “Quid sit futurum cras, fuge quaerere…”

2 Carm. I, 18 “Nullam, Vare, sacra vite prius severis arbore…”

3 Ep. XIII “Horrida tempestas caelum contexit et imbres…”

L’asclepiadeo maggiore

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

Hor. Carm. I 11

Non chiederti, Leucy, quale sorte toccherà a me, e quale a te. E non stare a fare i tarocchi di Babilonia. Non è cosa che ci è dato sapere. Meglio prendere la vita come viene.

Forse conosceremo altri inverni. Forse questo, che manda il mar Tirreno a sbattere contro i sassi, è l’ultimo che ci ha dato il Padreterno. Fatti furba. Versa il vino, e nel giro di pochi attimi taglia il lungo filo della speranza. Mentre ci perdiamo in chiacchiere, il tempo dispettoso se ne va. Vivi alla giornata, non fare nessun conto sul domani.


Questo è, evidentemente, un maldestro esercizio di traduzione, di cui sono tutt’altro che soddisfatto, e che spero riuscirò a migliorare.

Nella primissima versione avevo tradotto Leuconoe con Bianchina: e sono stato giustamente impallinato.

Non che Bianca mi entusiasmi…

[var. 29 gennaio 2015]

Ho deciso: tolgo Bianca, e metto Leucy.

Esiste, giuro.


Nella prima versione il titolo del post era L’asclepiadeo maggiore, e l’arte di abbindolare i gonzi.

Il banale fatto di cronaca che lo aveva ispirato ormai è totalmente dimenticato.

[var. 27 febbraio 2015]

Ho rimosso, su richiesta dell’autore, alcuni commenti. Riporto qui una delle mie risposte a questi.

Il nome della signora mi ha dato molti problemi.
Non so se lei segue it.cultura.linguistica.italiano, riporto qui un mio messaggio in riposta a chi, giustamente, criticava la mia scelta:
“Hai ragione, Bianchina sembra un’utilitaria degli anni ’60.
Non so come si possa tradurre Leuconoe, la lettura usuale leukos “bianco” + nous “mente” non è sicura, in ogni caso intraducibile.
Leuconoe in greco è un demo dell’Attica, ma non c’entra niente. In latino leukon significa “airone bianco”, e prima di Bianchina avevo pensato a “Gabbianella”: scartato. Pensi che “Garzetta” funzionerebbe?
Un nome greco oggi sa di liceo classico; ma all’epoca era una moda banale, come oggi i nomi (pseudo)inglesi. Leuconoe all’epoca era giusto un nome da olgiattina. Che ne dici di Whitney?
No, non va. Non si capisce neanche se è un nome da maschio o da femmina.”

[var. 4 agosto 2017]

Allora diciamolo che se la sono voluta

“… Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui… fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate… Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro…”

I Promessi Sposi I

Scontro di civiltà

Da quando esiste la guerra, esiste una regola che contempla poche eccezioni. Vince chi riesce a trascinare l’avversario sul proprio terreno, chi riesce ad imporre all’avversario la propria modalità di fare la guerra.

Questo vale in senso propriamente strategico, come tecnica militare, ma vale ancora di più in senso politico.

Ottant’anni fa, i nazisti scatenarono una guerra razzista. Combattevano per la supremazia della razza ariana sulle altre razze.

Alla fine i nazisti sono stati sconfitti. A conti fatti, possiamo dire che la loro sconfitta era inevitabile, anche se credevano (e facevano credere) di avere un esercito invincibile.

Ma hanno perso anche perché i loro avversari non hanno combattuto la guerra dei nazisti.

Quelli che hanno combattuto contro il nazifascisti, non si sono mai sognati di fare la guerra contro la razza ariana. Non si sono mai sognati di battersi sul terreno della guerra razzista. Hanno combattuto per la libertà contro la tirannide. E anche per questo – soprattutto per questo – hanno vinto.

I terroristi jihadisti, i nazisti del nostro tempo, vogliono scatenare una guerra di religione. La guerra della religione islamica contro tutte le altre religioni – anche contro tutti i mussulmani che non la pensano come loro, s’intende.

L’errore più grave che si potrebbe fare sarebbe quello di accettare questa guerra. Fare una guerra di religione. Proprio quella che vogliono loro. La guerra dei cristiani contro i mussulmani.

Ma l’Europa le sue guerre di religione le ha già fatte cinque secoli fa; e non è stata una bella pagina della storia europea. Le Crociate le abbiamo fatte nove secoli fa; e le abbiamo perse.

Se si fa una guerra dei cristiani contro i mussulmani, sinceramente non so bene chi potrebbe vincere. Con tutti i mezzi materiali a nostra disposizione, non è questa la guerra per cui siamo preparati.

La nostra guerra deve essere la guerra della libertà contro l’oppressione, la guerra della cultura contro l’ignoranza. La libertà anche per i mussulmani, la cultura anche della tradizione mussulmana.

(Anche la guerra per la libertà di stampa, s’intende. Anche per la libertà di stampare e leggere un giornale “bête et méchant”.)

Questa è la guerra che possiamo vincere. Come settant’anni fa.