Ancora sullo studio del latino

Su it.istruzione.scuola la questione del “Liceo delle Scienze Applicate”, che dovrebbe sostituire il “Liceo Scientifico Tecnologico” ha riaperto la vecchia questione dello studio del latino. Un vecchio amico, “Al-Farid”, ha toccato il tasto sempre sensibile dei ricordi:

Non a caso un testo cardine è appunto l’“Analisi logica” del Tantucci, testo che chi ha studiato latino ben ricorda.

Ho ancora in libreria la mia copia della Sintassi latina del Tantucci: un fascicolo sbrindellato di fogli staccati, che avevo già comprato usato – probabilmente usato più di una volta.

Quando ho voluto riprende il latino da grande, ho usato il Bonfante: il tipo è un mezzo nazista, ma come glottologo sa il fatto suo.


Del liceo classico ho patito l’insegnamento disastroso della matematica, un handicap al quale non ho mai saputo porre rimedio.

Con mio figlio credo che abbiamo azzeccato quasi tutte le mosse: musica dai cinque ai dodici anni (musica musica, neh, non attività ludico-musicali); buone scuole pubbliche (elementari, medie, liceo classico), tutte ragionevolmente conservatrici.

Dei docenti, due tipi un po’ originali, alle medie e per i primi tre anni di superiori; gente che insegnava matematica vera (ammesso che io sappia che cos’è la matematica vera) non banali calcoli ripetitivi.

Decisamente sotto livello gli insegnanti di italiano. Inutilmente pedante quella delle medie; completamente squilibrati quello del ginnasio (che faceva anche latino, fortunatamente non greco), e quello dell’ultimo anno del liceo. Tutti noi abbiamo esperienze di almeno un insegnante disastroso; averne incontrati due di seguito, in una materia fondamentale, è una vera sfiga. Ma di quelle sfighe però che non puoi prevedere né controllare.

Decisamente sopra la media l’insegnante di greco del ginnasio, più che dignitosi (quasi) tutti gli altri. Un buon insegnante, qualunque sia la materia che insegna, è un’esperienza che ti rimane impressa per tutta la vita. Uno su tanti ti capiterà, altrimenti, è un guaio irrimediabile.

Grazie a Dio mio figlio ha finito il liceo prima dei disastri della Gelmini. Con quel poco di autonomia che c’era, facevano matematica potenziata nel liceo, inglese quinquennale, un corso supplementare facoltativo di analisi matematica in terza liceo.

Adesso è iscritto a Fisica, e si trova bene.


Non ho mai creduto al Latino che insegna a ragionare. Il latino non è né più né meno logico di qualunque altra lingua. L’insegnamento tradizionale dell’ “analisi logica” è un mostro metodologico, logico, linguistico: al massimo può avere un valore mnemonico per il principiante, o per il tardo. “Nella frase attiva il soggetto compie l’azione, nella frase passiva il soggetto subisce l’azione” è una formuletta che può aiutare all’inizio, basta non chiedersi mai che cosa significa “compie” e “subisce”.


Non trovo nulla di più fastidioso delle discussioni sugli insegnamenti che “servono”. È un ragionamento da apprendista cuoco: l’aglio serve sempre, se non ce l’hai in cucina, è un disastro. Invece con lo zafferano ci fai solo il risotto alla milanese, lo compri solo quando ne hai bisogno.


Il latino – e il greco – non sono lingue “antiche”. Il latino non sta all’italiano come il gotico al tedesco, l’anglosassone all’inglese. Il latino e il greco sono lingue di una cultura che l’Europa ha sempre mantenuto in vita come parte della sua anima. Puoi vivere senza Beowulf, non puoi vivere senza Ulisse – Ulisse non è il bisnonno di tuo bisnonno, è sempre accanto a te.

Non puoi neanche vivere senza l’Ecclesiaste, ma dobbiamo rassegnarci al fatto che della triade umanistica (che ancora per Leopardi era un dogma) l’ebraico è stato abbandonato ta tempo.

Naturalmente, il problema è se conoscere i testi in lingua originale, o per lo meno, avere una minima idea della lingua in cui sono stati scritti (nessuno esce dal liceo classico in grado di leggere l’Odissea in greco). Io sono in grado di leggere almeno una parte della letteratura francese in originale (Stendhal sì, Céline no); un po’ meno in inglese e tedesco; neanche una parola di russo. Ma non è stato tempo perso studiare un po’ di quelle lingue.


Quello che gli apprendisti cucinieri non riescono a capire, è che il nostro cervello(*) è fatto di interconnessioni, quindi anche l’educazione deve essere interconnessa. Devi imparare anche cosa che “non ti servono” per lo stesso motivo per cui un ciclista non può limitarsi a potenziare i muscoli delle gambe. L’importante non è “a cosa serve” una certa materia, ma quanto sono ampie le aree cerebrali che interessi con una certa materia. È questo il senso delle materie di interesse generale “teoriche”, “poco pratiche”, “che non ti verranno mai chieste in un colloquio di lavoro”: la musica, la matematica, le lingue moderne e antiche.

Questo varia a seconda delle età. Soprattutto nell’infanzia le aree cerebrali sono fra di loro potentemente interconnesse, anzi, queste mainterconnessioni sono in tumultuoso sviluppo, e l’apprendimento di materie di interesse generale ha un valore formativo enorme. È questa l’importanza della musica, della matematica, delle lingue – l’ideale sarebbe che tutti i bambini crescessero in un mondo bilingue, purtroppo sotto questo punto di vista la scomparsa dei dialetti è stato un disastro.


È importante imparare cose “che non ri servono” proprio perché non ti servono, per avere un’idea del mondo cerebrale che c’è al di fuori dela specializzazione alienante del lavoro che svolgerai per quarant’anni. Anche se passi la vita a progettare rubinetti per doccia, devi sapere che oltre ai rubinetti per doccia esistono le chiese romaniche e i cacciatori boscimani, i buchi neri e l’Edipo Re, l’Arte della Fuga e la topologia. Se no sei come un paralitico in carrozzella seduto davanti ad un compiùter – mica ti servono le gambe per usare il compiùter, no?


Tanto per scandalizzarvi, tra le cose che “servono nella vita” e che io vorrei limitare parecchio, vi è anche il training catto-terzomondista. Insegnare a non copiare è più importante dell’ “educazione alla pace”, cercare su tre vocabolari la corretta traduzione di un termine ostico è più importante degli esercizi spirituali sulla fame.

Il senso di responsabilità sociale deve fondarsi sulla consapevolezza delle relazioni fra le cose, non su una generica compassione.



(*) parlo di “cervello” in senso metaforico, s’intende

Il libro, la lettera, Internet

Le norme sull’informazione sono state fissate in età moderna quando i grandi settori della comunicazione erano due:

  1. La stampa: libri, giornali e periodici. In questo caso abbiamo la comunicazione unidirezionale da uno (o pochi) a molti. La comunicazione avviene attraverso supporti singoli, concreti, numerabili, non riproducibili senza un’attrezzatura complessa.

    È su questa base tecnica che sono state costruite le moderne leggi sui diritti d’autore e sulla libertà di stampa.

    Le stesse leggi sono poi state estese a tutti i supporti fisici, come i dischi ecc., e alle forme di trasmissione broadcasting, come la radio e la televisione, che hanno in comune con la stampa la comunicazione unidirezionale da uno a molti, anche se la trasmissione non avviene su supporti fisici numerabili.

  2. L’altro settore è la posta: un grande servizio pubblico che permette la comunicazione bidirezionale e riservata uno a uno.

    Prima dell’800 esisteva già la lettera, ma farla pervenire a destinazione era sempre una cosa difficoltosa. Con i servizi postali nazionali, e con l’invenzione del francobollo, la posta diventa un servizio alla portata di tutti.

    Sulla base del servizio postale sono state emanate le norme sulla riservatezza della corrispondenza, norme poi estese al telefono e ad altri sistemi analoghi.


L’estensione di queste norme all’informatica e al Web all’inizio hanno puntato su delle forme di semplice analogia.

Internet è stata vista per un certo tempo come una televisione con milioni di canali.

La diffusione del software è stata considerata un’estensione della diffusione della stampa – per questo continua l’affezione ad un supporto ormai obsoleto come il disco ottico.

Le mail anche nel nome richiamano la buona vecchia posta.

I siti di attualità sono stati considerati alla stregua di testate giornalistiche, con tanto di obbligo di registrazione – anche se nessuno è mai riuscito a definire in modo soddisfacente che cosa è una “testata giornalistica” in rete.

Usenet, forum, P2P… be’, qui è un po’ più difficile. Una piazza? un mercato? una bacheca? un suk?

Poiché appunto sono estensioni analogiche di vecchie categorie, la realtà ormai scappa da tutte le parti.


Prendiamo in mano un buon vecchio libro, e pensiamo di che cosa si tratta, da un punto di vista concreto, materiale, prescindendo dalla normativa che ne regola la produzione e la circolazione.

Il libro è prodotto in grandi stabilimenti industriali, con una tiratura predeterminata, e costi proporzionali alla tiratura. Non può essere riprodotto agevolmente con strumenti semplici. Se voglio comunicare ad un amico le informazioni che ho trovato in un libro, la cosa migliore è regalarglielo, o imprestarglielo (operazione che spesso coincide con la prima). Ma dal momento in gliel’ho dato, io rimango senza.

Accendiamo ora il computer, e pensiamo a quando per la prima volta ci è stato spiegato che cos’è un sistema operativo. Dentro la memoria del computer le informazioni sono organizzate sotto forma di file. Le operazioni fondamentali sono: copiare un file, spostare, cancellare

Da un punto di vista tecnico (di nuovo, prescindendo dalla normativa) il computer è essenzialmente questo: una macchina che maneggia informazioni con modalità che ne permettono l’immediata, illimitata e gratuita replicazione e diffusione.

Possiamo girarla come vogliamo, ma a questo ambiente, non a quello del libro, dobbiamo dare una regolamentazione.

Prendiamo ora una lettera (quand’è l’ultima volta che avete scritto una lettera?) Un foglio scritto pazientemente con inchiostro nero – o romanticamente azzurro, verde, marroncino seppia ecc. Una busta, chiusa (lap!), un francobollo (lap!). Si mette nella cassetta, e si aspetta con trepidazione la risposta: due giorni, tre giorni… una settimana… perché non arriva?

Si fa più in fretta con una mail, no? Più o meno è la stessa cosa, a parte che non si usa l’inchiostro verde ecc. e non si compra il francobollo. Se dopo mezz’ora non arriva niente, cominciamo ad innervosirci.

Le due forme di comunicazione hanno un aspetto importante in comune: la riservatezza. Se qualcuno, non autorizzato, apre le nostre lettere, sbircia nella nostra casella di posta, ci secchiamo, e non poco.

Però… la stessa mail può essere mandata a due, tre, trenta… destinatari. Senza fatica, senza spesa. In un click. Ci sono tanti programmini gratuiti per creare una vera newsletter. Siamo passati quasi senza accorgercene ad una comunicazione di tipo broadcasting. È un po’ più complicato, ma sempre alla portata di chiunque, creare una mailing-list. Ciò che ognuno dei corrispondenti scrive, viene letto automaticamente da tutti gli iscritti. È una cosa che con la posta normale non si potrebbe fare – neanche usando un pacco così di francobolli. Siamo passati all’agorà. Tutti parlano con tutti, tutti leggono ad alta voce sulla pubblica piazza le lettere che hanno ricevute e spedite. Questo non ha più niente a che vedere con la vecchia lettera, il francobollo, l’indirizzo svolazzante…

Internet è stata inventata per questo, non per altro. Tutti sono in contatto con tutti. È così che funziona.


Riassumendo:

  1. Stampa: comunicazione unidirezionale, pubblica, da uno (pochi) a molti.
  2. Posta: comunicazione bidirezionale, riservata, da uno a uno.
  3. Internet: comunicazione, tendenzialmente pubblica, da tutti a tutti.

La comunicazione informatica può essere inclusa nei due sistemi precedenti, a patto però di limitarne enormemente le potenzialità.

Le regole fissate nell’800 per le forme 1 e 2 non si adattano alla comunicazione di tipo 3. Sarebbe come costruire il Codice della Strada partendo da norme emanate al tempo in cui si trasportavano le merci su carovane di muli attraverso i valichi transalpini.

Le potenzialità tecniche prima o poi abbattono le normative irrazionali. Con l’invenzione dell’automobile, abbiamo un sistema di trasporto molto più veloce di un mulo. Certo, è necessario imporre, per esempio, un limite di velocità. Ma deve essere un limite coerente con le caratteristiche tecniche del mezzo che vogliamo regolamentare.

C’è una strada in mezzo alla campagna, un bel rettilineo di quattro corsie, pulito, con le righe bianche verniciate di fresco, senza ostacoli. Il limite è di 90kmh. Vabbe’, non pretendiamo che andiate proprio ai 90, magari si spinge un po’, ai 100, ai 110… Chi non l’ha fatto. Ma se tirate fino ai 220, 240, 260, siete proprio dei pazzi. 90 è un limite ragionevole.

Ecco, in quel rettilineo dove tutti vanno a 90 all’ora, o poco più, improvvisamente compare un cartello: LIMITE 20KMH. È una follia. Nove su dieci proseguono senza badarci. “C’era il limite? Ah sì? tu l’hai visto? E di quanto?” Uno su dieci si butta sul freno, inchioda, e si fa tamponare violentemente da quelli che vengono dietro. Un disastro.

È inutile dire: se tutti avessero rispettato il limite non sarebbe successo niente. Invece è successo. Le automobili esistono, e finché non avremo un sistema di trasporto migliore, ci teniamo quelle. Sono state fatte per viaggiare più velocemente di un mulo – anche di un mulo da corsa che va a 20kmh. Non le possiamo disinventare. Non possiamo trasformare il traffico in un’assurdità tecnica solo perché il sindaco di un piccolo comune ha le paranoie.

Il Web e il diritto

Vi sono stati due eventi – uno già di qualche settimana fa, l’altro di questi giorni – che, pur essendo apparentemente limitati a situazioni specifiche, pongono dei grandi interrogativi, a cui sarebbe un gravissimo errore non saper dare una risposta.

Dico subito che questi due eventi hanno in comune un aspetto: che alcune funzioni tradizionalmente proprie dello Stato vengono trasferite a privati, e che in questo trasferimento di competenze seguono regole che sono esattamente l’opposto di quelle che dovrebbero regolare i rapporti fra i cittadini e l’amministrazione pubblica.

È nota la vicenda della tassazione dei supporti di memoria. Prima si è trattato di supporti tradizionali: CD ecc. Poi, qualche settimana fa, la tassazione è stata estesa ad ogni tipo di supporto: comprese le memorie dei telefonini e le unità di back-up. I proventi di questa tassazione dovrebbero compensare i titolari di diritti d’autore, organizzati nella SIAE, dei danni subiti ad opera della pirateria informatica, che si basa appunto sulla possibilità di memorizzare e distribuire opere su supporti elettronici.

Si tratterà di pochi euri, per carità. E i pirati informatici sono così antipatici. Ma se guardiamo alla logica che sta alla base di questo ragionamento, vediamo che si sono affermati due principi completamente nuovi:

  1. Lo Stato agisce come percettore di una tassa a favore non di un servizio pubblico, ma direttamente di un privato. È paradossale, ma altamente significativo, che questa iniziativa sia stata presa da forze politiche che hanno costruito gran parte del loro successo elettorale non solo promettendo una riduzione del carico fiscale, ma presentandosi come eversori di una “dittatura statalista” che avrebbe proprio nel sistema fiscale un pilastro del proprio dominio. Padoa Schioppa fu messo in crode per aver definito “bellissime” la tasse che servono a pagare i servizi pubblici. Ora è “bellissima” una tassa a favore di privati.
  2. La norma parte da un pregiudizio di colpevolezza. Chi compra un supporto di memoria “molto probabilmente” lo userà per conservarci sopra materiale illegale; e in base a questo semplice sospetto, deve essere sottoposto ad una misura punitiva. Di nuovo, è paradossale, e significativo, che una misura di questo genere sia stata presa da forze politiche che hanno fatto del “garantismo” una bandiera. Ma il garantismo vale, evidentemente, solo quando si tratta di reati contro la pubblica amministrazione e il pubblico interesse; quando si tratta di danni nei confronti dei privati, vale la giacobina “loi des suspects”.

L’altra vicenda è quella relativa alla condanna dei dirigenti di Google.

Vorrei premettere alcune parole rispetto alle modalità con cui viene comunicata la vicenda. Si insiste sul fratto che tutto nasce da un video di violenze a carico di un disabile. Ed anche sul fatto che Google da queste attività ricavi un mucchio di quattrini. Sono due modalità tipiche del populismo. Si prende un fatto singolo, un caso estremo, che colpisce fortemente l’emotività, e lo si usa per costruire un criterio generale. Un caso di stupro diventa il criterio e il movente per la politica nei confronti dei Rom ecc. L’altra modalità è individuare nel nemico l’odioso “ricco”. La Repubblica attacca Berlusconi! Ma la Repubblica appartiene al ricchissimo De Benedetti ecc. Ecco la prova che Berlusconi è nel mirino di “poteri forti” ecc.

Google ha permesso la circolazione di un video di violenze a carico di un disabile! Anzi, ci ha guadagnato sopra! È da condannare, no?

La prima cosa che viene in mente è l’art. 21 della Costituzione

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili…

Con questa sentenza viene affermato il principio che in un sistema di comunicazione di tipo “forum”, come Google Video o YouTube, il gestore deve effettuare una censura preventiva dei contenuti. Una censura preventiva che è espressamente vietata dalla Costituzione; ed effettuata da un soggetto privato, non da un magistrato.

(Che la cosa sia molto dubbia è dichiarato già dalla sentenza stessa: i dirigenti di Google sono stati assolti dall’accusa di diffamazione nei confronti della vittima della violenza, ma sono stati condannati in base a quella specie di oggetto misterioso che è la “tutela della privacy”.)

Estendiamo il principio. Il gestore di un servizio è responsabile di ciò che fanno i suoi clienti. Dei delinquenti hanno progettato una rapina riunendosi in un bar. Da condannare i delinquenti, ma anche il proprietario del bar, non vi sembra? Ebbene d’ora in poi i baristi devono guardare bene in faccia i loro clienti, prima di prendere le comande; e se sarà necessario, dovranno accompagnare alla porta quelli che hanno la faccia da delinquente.

È curioso che questo servizio di vigilanza da parte di fornitori privati di un servizio sia preteso in un paese in cui si discute della limitazione delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura.

Alla base di entrambe le decisioni c’è sicuramente un problema culturale. La società fa ancora fatica a comprendere le nuove tecnologie – a comprendere non da un punto di vista strettamente tecnico, intendo. Non è imparando a schiacciare i bottoncini che si impara che cos’è il Web (anche nella scuola, una delle iniziative più deleterie di questi ultimi anni è stata la promozione della cd. ECDL). Manca una riflessione culturale sulle trasformazioni economiche e sociali indotte dalla Rete. Quindi ci si arrabatta, applicando in modo maldestro ai nuovi fenomeni una normativa nata in un contesto completamente diverso – come se si cercasse di regolare la Borsa con le norme dell’Editto di Rotari.

C’è però anche un enorme problema politico. L’esaltazione del Mercato ha portato a concepire l’utopia in cui l’interesse privato prende il posto delle leggi dello Stato. Il Diritto stesso viene privatizzato; la tutela della legalità viene spostata dalle istituzioni agli operatori privati. È l’astrazione di una Società Civile che non ha più bisogno dello Stato; una esercitazione teorica che viene trasformata in un progetto politico concreto.

Ebbene, su queste cose è necessaria una riflessione approfondita.

Fondamenti di una nuova dottrina politica

Mentre vedo snocciolarsi i nuovi quadri orari della Riforma Epocale, mi rivedo, un pezzetto dopo l’altro, scaricato dal Torrente, Der Unterfall (La Caduta – Gli ultimi giorni di Hitler).

Per carità. C’è un abisso. Ma fa ugualmente pensare.

Il popolo, all’epoca, più civilizzato e istruito del pianeta, si mette nelle mani di un perfetto psicopatico. Lo segue con metodica precisione verso l’autodistruzione. Alla fine, anche se i più – perfino la maggior parte dei fedelissimi – si rendono conto che in quella testa le rotelle girano all’incontrario, il giuramento di fedeltà vale più dell’elementare istinto di conservazione.

Gli Italiani, popolo di Furbi, hanno invece deciso di farsi comandare da un Imbecille.

Non lasciatevi ingannare dal luccichìo dei lustrini. Non basta il successo economico – non basta il potere – per fare di un cretino un intelligente. Mi dispiace deludervi (berlusconiani e antiberlusconiani), ma Silvio è in primis una grandissima testa di cazzo. Tutto il resto viene di conseguenza.

Poiché le teste di cazzo che hanno il potere sono naturalmente spaventate dai confronti, ogni dittatorello cercherà di circondarsi di persone intellettualmente inferiori. Se il Berlusca è una testa di cazzo, figuratevi i suoi ministri.

Figuratevi la Gelmini.

Mi rendo conto che quanto sto per dire è un’eresia dal punto di vista di ogni dottrina storico-politica. Mi dispiace per Machiavelli. Mi dispiace per Marx. Mi dispiace per Gramsci. Ma alle loro teorie manca un tassello fondamentale. La possibilità che il Principe sia un imbecille – e proprio per questo, invincibile.

Un uomo, un sistema del potere, che non è schiacciato dal pesante fardello della Razionalità. Libero dai condizionamenti dell’Intelligenza.

Potete ben dirmi che nella riforma Gelmini si vedono i tagli di Tremonti. Che si vede il diabolico piano del Potere di avere un popolo di ignoranti, per mettere al riparo il Sistema da ogni critica. Un governante perverso e cinico, ma intelligente, non riuscirebbe a combinare un pasticcio simile. Avrebbe un minimo di senso estetico – di schifoso, egoistico senso estetico.

Dominare, distruggere, condizionare, corrompere sì, ma in bel modo. Con stile.

Questi Decreti di Attuazione della Riforma Epocale – approvati da gente che non li ha letti – che non li ha letti perché al momento dell’approvazione non erano ancora stati scritti – questo pedante e piccino togliere un’ora di qua e metterla di là – hanno la stessa faccia ottusa di una povera, eterna Apprendista di Studio Legale, che non ha saputo fare altro che mettere all’insegna della Nuova Scuola quello che è il senso della sua personale esistenza:

Ultimo nella Scuola, primo nella Vita.

L’Europa deve ritrovare le proprie radici culturali

Le radici culturali dell’Europa sono:

  • piena occupazione
  • welfare state
  • scuola per tutti
  • indifferenza religiosa.

Per secoli l’Europa è stata massacrata da spaventosi conflitti alimentati dalla fede religiosa e dall’estremismo identitario.

Le più grandi potenze europee si sono scontrate come titani per difendere una Messa.

Secoli di guerre tra papisti e antipapisti hanno provocato più morti di Auschwitz.

La cattolica Polonia e la Russia ortodossa hanno rappresentato, l’una per l’altra, l’incarnazione del Male assoluto, ed in entrambi i paesi una lunga tradizione epica celebra gli eroi ed i fasti di quest’odio disumano.

Sempre in Russia, farsi il segno della Croce con due oppure con tre dita è stato il detonatore di una tragica lacerazione.

Ancora pochi anni fa, nell’ex Jugoslavia, tra cattolici, ortodossi e islamici è stata una mattanza che ha fatto inorridire il mondo intero.

Eppure, già ai tempi di Re Luigi un uomo illuminato aveva pronunciato le parole della pace:

Certo, questi sono temi molto importanti, ma noi dobbiamo coltivare il nostro giardino.

Quest’Annuncio è stato per troppo tempo un germe dormiente, fin quando il benessere economico ha risvegliato la piantina – e c’è ancora molto lavoro da fare.

Anche i reietti d’Europa, gli Ebrei, hanno conosciuto questa liberazione.

Duemilacinquecento anni di persecuzioni non sono riusciti a far vacillare la loro fede. Chiusi nei ghetti, ridotti ad uno sparuto drappello di miserabili cenciaioli, hanno sopportati di buon grado torture spaventose pur di non rinunciare ad uno solo dei 613 precetti di Maimonide.

È bastato aprire le porte dei ghetti, permettere l’accesso agli impieghi pubblici, alle professioni, all’Università, perché gli Ebrei dimenticassero in una sola generazione di essere stati Ebrei. C’è voluto l’Olocausto, che ha riassunto in una mezza dozzina di anni venticinque secoli di pogrom, perché se ne ricordassero.

Finalmente tutta l’Europa s’è unificata in un unico Credo:

Ah che bello! Si va a sciare! Fai le valigie, mentre io preparo la macchina!
Ma caro, ti sei già dimenticato che c’è la Cresima / la Confermazione / il Bar Mitzvòth di tuo nipote?
Uffa che palle!


In molte regioni d’Italia, ancora due o tre generazioni fa, gli uomini giravano con la coppola in testa e la lupara in spalla, tenevano le mogli segregate in casa a figliare come coniglie, esibivano di fronte ai turisti i selvaggi rituali di una religiosità arcaica. La salvifica ala del Consumismo ha cancellato tutto ciò.

Oggi nelle nostre strade si aggira il Musulmano. Lo guardiamo con diffidenza, e ci guarda con diffidenza. Ha lo sguardo rancoroso, copre la moglie con pesanti scafandri, coltiva ostinati rituali. Chissà cosa pensa – chissà cosa sta per fare. E soprattutto, fa un mucchio di figli.

Dategli un lavoro fisso e ben pagato, una bella casa, l’automobile, la televisione, le ferie. In un battibaleno si trasformerà in un pacifico Consumista, la moglie vedrà nelle gravidanze solo un danno per la linea e la carriera, e tutt’e due celebreranno il Ramadan con grandi mangiate, avendo ancora in bocca il sapore dell’aperitivo con stuzzichini consumato al bar un’ora prima.


Purtroppo, non c’è mai una conquista per sempre. La Crisi, sapientemente alimentata da chi pensava che stessimo troppo bene, fa vacillare le nostre sicurezze.

Torna a soffiare il vento del fanatismo. Intere regioni d’Italia sono oggi in mano a Ciellini integralisti, a Padagnoli aggressivi. Vogliono convincerci ad agitare il Crocifisso, così come secoli fa il lebbroso agitava la sua campanella, gridando: “Attenzione! State alla larga! Non mi toccate!”

Sono un ottimista, e confido che le persone di buon senso sapranno respingere questa rozza offensiva.

Ma la minaccia più insidiosa viene dall’altra parte. Uomini dalla carità pelosa suggeriscono come rimedio il Dialogo Interreligioso. Guai a farci convincere. Significherebbe mettere ancora una volta il nostro futuro nelle mani di chierici più o meno barbuti d’ogni fede e d’ogni tonaca.

Teniamo alto il nostro vessillo:

Coltivate il vostro giardino!

E vivete in pace!

Ceci tuera cela
La conoscenza nell’età dell’Internet

In un episodio notissimo di Notre Dame de Paris, il perverso monaco Claude Frollo, indicando da una parte un libro a stampa, dall’altra la grande cattedrale, mormora enigmatico: “Ceci tuera cela” (Questo ucciderà quello).

Il turpe arcidiacono voleva dire che la vecchia sapienza simbolica, incarnata nel grande “libro di pietra”, sarebbe stata sostituita dalla nuova scienza razionalistica, impressa dai caratteri mobili. Naturalmente non voleva dire che le cattedrali sarebbero state distrutte, né che la gente avrebbe cessato di frequentarle. Ma che il rapporto della società con la conoscenza, e la natura stessa della conoscenza, avrebbero visto un profondo cambiamento…

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Parole, parole, parole

Per il messaggio precedente sono stato ripreso, anche con la testimonianza da linguisti illustri. Ohibò! “Stronzo!” si può dire! si può dirissimo! È nobile vocabolo longobardo (“escremento di cane di forma cilindrica” lo definisce il prof. Bonfante nel suo Latini e Germani in Italia).

Anche “cancro” è parola antichissima, “ti venga un cancro” è un’espressione forte, ma normalmente usata nel linguaggio corrente.

Quindi il Ministro La Russa ha fatto bene a dire a un tizio mai visto né conosciuto “Ed io spero che le venga un cancro…”!

Viviamo in un clima di violenza verbale senza precedenti. Io frequento abitualmente un gruppo di discussione,
it.istruzione.scuola, in cui alcuni tizi di destra imperversano con kilometrici messaggi, alternando sconclusionate lodi al Berlusca a tiritere di insulti ai non berlusconiani. È una specie di matra autoipnotico, in cui auguri di pronta ma dolorosa morte sono condimento indispensabile alle loro sputacchianti esternazioni. Oggi apro le gnùs, e uno di questi se ne esce con due messaggi. In uno estende l’augurio di tumore mortale a tutti i “komunisti” (e vi risparmio gli epiteti appiccicati a questo termine); nell’altro augura alle donne malmenate a Milano nel corso di una manifestazione femminista di essere, nientemeno! prontamente portate in caserma dai tutori dell’Ordine e stuprate per le vie brevi.

Due messaggi su due, il 100% della comunicazione, era di questo tenore.

Non venitemi a parlare di “linguaggio quotidiano”, di “non politicamente corretto”, di “trasgressione”… Siamo troppo vicini all’ex Jugoslavia per non sapere che dall’augurio di stupro allo stupro etnico, dall’augurio di morte alle fosse comuni, dalla trasgressione verbale alla macelleria etnica il passo è breve. Chi abitualmente augura la morte a destra e a manca protetto da un nick non troverà molto strano distribuire generosamente la morte ai vicini di casa protetto dalla divisa di una qualche improvvisata milizia.

Tentativo di dire qualcosa di serio sui dialetti e la scuola

Puoi accedere a questa pagina con l’url breve tinyurl.com/dialettiascuola

[La solita proposta strampalata di una parlamentare padagnola ha suscitato, nei gruppi di discussione sulla scuola e la lingua italiana, una polemica un po’ sconclusionata sui dialetti e le culture locali. Poiché si tratta di argomenti a me molto cari, mi dispiace, come sempre, che tutto finisca in vacca perché il tema viene proposto da chi cerca solo la rissa con provocazioni razziste.
Ho cercato quindi di affrontare la questione in modo un po’ più serio.
]

Nella sua ultima opera, Il linguaggio d’Italia, Giacomo Devoto ha dato la sintesi della sua straordinaria carriera di ricercatore nel campo della storia linguistica italiana. È un libro di grandissima densità e quindi non sempre di agevole lettura, ma ricchissimo di informazioni e affascinante per il rigore dell’argomentazione.

La storia della lingua italiana del ‘900 è condensata in un succinto capitoletto, all’interno del quale (in meno di due paginette) si trovano alcune sorprendenti osservazioni sull’influenza del sistema scolastico sull’evoluzione linguistica.

Il Devoto parte dalla riforma Gentile del 1923 (che l’autore non qualifica mai come "fascista"). La cosa più significativa in questa riforma è l’importanza data ai dialetti nella scuola elementare, con l’intento di "allontanarsi in modo drastico dalla visione autoritaria". Ne sono testimonianza quei libretti, di cui io ho trovato alcuni esemplari sulle bancarelle, di "esercizi di traduzione dal piemontese all’italiano"; libretti che il Devoto chiama "libri di lettura che facessero da ponte fra il parlare genuino e lo scritto".

Ma si noti. I dialetti non sono visti dal Devoto come uno strumento di collegamento tra il mondo in cui vive il bambino e il mondo della scuola – il dialetto come prima lingua veicolare – ma come strumento di educazione del gusto e della "creatività". Ed effettivamente, quei libretti contengono non conversazioni quotidiane, riferimenti a termini di uso comune, ma testi con una qualche pretesa di dignità letteraria: pagine d’autore, poesie e canzoni popolari selezionate in base ad una certa validità di gusto. È l’educazione al bel parlare ed al bello scrivere che si matura attraverso il modello di una cultura tradizionale – che come ogni tipo di cultura tende all’equilibrio e alla dignità delle forme.

Questa riforma gentiliana durò pochissimo. Dopo un paio d’anni il regime fascista "deviato verso una organizzazione dello stato in senso rigorosamente accentratore" mise al bando i dialetti.

Le conseguenze, per il Devoto, furono nefaste. La creatività, non avendo più "il modello o il termine di confronto dei dialetti" rimase senza guida; la successiva imponente espansione del sistema scolastico rese drammatica la mancanza di un legame tra un insegnamento grammaticale-normativo, mai assimilato veramente da nessuno scolaro, e lo spontaneismo anarchico.

La conclusione è ottimistica – ma notate, il testo è del ’74, il processo di degenerazione da allora è spaventosamente avanzato.

Di fronte a questa lingua letteraria, fondata su modelli temperati e aperti, il dialetto non è destinato ad essere né un marchio di inferiorità, né un simbolo romantico di gentili età scomparse, né un malinteso simbolo di degenerazioni autonomistiche o separatistiche. Esso rimane valido come legittimo termine di confronto, permanente, antidogmatico nei confronti della lingua letteraria. È una alternativa, liberatrice, alla spersonalizzazione e banalizzazione irradiante dalla lingua letteraria, generalizzata nell’uso.