Insomma, mi spiegate come funziona sto cazzo di Fèis Bùch?

Sono diventato amico di tutta la mia ultima classe del linguistico. E fin qui vabbe’.

Ogni tanto mi arriva una richiesta di amicizia da parte di Lollo Birillo. A volte il nome vagamente mi dice qualcosa, a volte no. Magari è uno che ho conosciuto anni fa, poi mi sono dimenticato.

Mi scrivesse “Ciau, sono il tuo vecchio amico Lollo, da bambini giocavamo insieme alle figu nei giardinetti di Corso Svizzera, ti ricordi di me? Io ero quello col berrettino rosso che ti fregava le figu, tu eri quello che frignava sempre”. No. Richiesta di amicizia di Lollo Birillo. Prendere o lasciare.


Ho ricevuto una richiesta di amicizia di Mauricio Pistone, Argentina, di professione Proprietario di un Complejo de cabañas a orillas del lago Los Molinos, Córdoba. Argentina.

C’è una sua foto, in piedi, con la mano orgogliosamente appoggiata ad una motocicletta. La foto è minuscola, non riesco a distinguere la marca della motocicletta.


Insomma, avrete capito che il tema d’esame sull’Internet non avrei saputo svolgerlo.

Numeri, e stranieri

Dal rapporto INAIL pubblicato in questi giorni emerge che nel 2008 sono stati denunciati 44 casi di incidenti sul lavoro ogni 1000 lavoratori stranieri contro 39/1000 per gli italiani.

È probabile che il dato relativo agli stranieri sia sottostimato, a causa di una maggior frequenza di incidenti non denunciati. È quindi significativo il numero degli incidenti mortali, che sono molto più difficili da nascondere. Infatti, mentre per quanto riguarda il totale degli incidenti quelli a carico dei lavoratori stranieri sono il 16,4%, nel caso degli incidenti mortali il dato sale al 25%.

Da questi dati si può ricavare una conclusione molto chiara.

Gli stranieri sono molto più distratti degli italiani.

E non dite che questi sono discorsi razzisti: sono numeri, eh.

Populismo

Su it.cultura.linguistica.italiano un mesetto fa qualuno ha chiesto una definizione di “populismo”. Io ho provato a dare questo piccolo contributo, che oggi ripropongo qui:

Come spesso accade ai i termini politici, anche “populismo” assume 
nell’uso corrente significati diversi da quelli originari (populismo 
russo).

Per me i punti caratterizzanti sono quattro:

  1. Si indica come “popolo” un’entità indifferenziata, che ha un unico 
carattere, un’unica identità, identici valori. Chi non condivide 
quest’identità e questi valori è “nemico del popolo” (con tutte le 
varianti possibili: ebreo, komunista, intellettuale, radical-chic…) 
Nei confronti del “popolo” sono possibili solo due atteggiamenti 
opposti: identificazione totale, oppure esclusione.
  2. L’esistenza di “nemici del popolo” non è occasionale, ma 
indispensabile. La categoria di “popolo” è così vaga che non può essere 
definita in sé stessa, ma si costruisce e si rafforza nella continua e 
forte contrapposizione contro gli “altri”. “Noi” e “loro” è categoria 
fondamentale del populismo. Se “loro”, i nemici, non sono a 
disposizione, il populismo non ha mai difficoltà ad inventarsene.
    Una variante del “nemico del popolo” sono i “ricchi”: sfuttatori, 
privilegiati… Questo non esclude d’altra parte che alcuni ricchissimi 
possano essere visti come amici, anzi, venerati come espressione 
dell’autentica natura del popolo e della sua forza creativa – nei loro 
confronti, i “nemici” sono sfigati invidiosi.
    (I veri populisti non si preoccupano mai della coerenza logica delle 
loro scelte. La logica è roba da intellettuali. Il “popolo” ragiona col 
cuore – o i coglioni – non col cervello.)
  3. Poiché il “popolo” esprime in modo uniforme ed immediato la propria 
volontà, le mediazioni politiche ecc. sono un ingombro insopportabile. È 
il principio dell’“anti-politica”, che privilegia azioni dirette: fatti 
e non parole, prima picchiare e poi domandare, datecelo nelle mani che 
facciamo giustizia noi… Estesa all’ambito nazionale, l’anti-politica 
si esprime nel disprezzo verso le istituzioni e le procedure della 
democrazia parlamentare, tutta roba da spazzare via con una sana e 
vitale ventata di rivolta.
  4. Poiché le istituzioni sono un inutile impiccio, e la politica è 
sempre una cosa sporca, il populismo si esprime nella delega totale 
della volontà del “popolo” ad un Capo carismatico, che da una parte è 
“uno come noi”, ma dall’altra anche un uomo eccezionale che ha sempre 
ragione ecc. È lui il politico anti-politico, che farà piazza pulita del 
vecchio e superato apparato dei parolai inconcludenti. Del Capo si 
ammira il “fare”: qualunque azione possa essere interpretata come 
manifestazione di una superiore capacità di azione o di dominio, viene 
ammirata, senza alcuno scrupolo di tipo morale. Fra le virtù del capo, 
spesso si annovera l’aggressività sessuale, che è oggetto di un 
autentico culto.(1)

Una caratteristica interessante del populismo è che si tratta di un 
atteggiamento che non coinvolge solo i ceti popolari e le persone di 
modesta istruzione, ma spesso esercita un irresistibile fascino anche 
presso settori colti. L’intellettuale si sente in colpa di essere tale, 
teme la “torre d’avorio”, prova un’irresistibile nostalgia verso la 
semplice purezza delle persone umili, nei confronti delle quali 
l’istruzione appare come una ignobile caduta ed una manifestazione di 
sordido egoismo. Questo senso di colpa e di inferiorità si manifesta 
nell’adesione fanatica al capo carismatico, agli ideali più scombinati; 
per l’intellettuale convertito al populismo il non dover più pensare, 
l’affidarsi con fede cieca al fabbricatore di slogan è un sollievo 
ristoratore; condividere gli stessi entusiasmi della folla osannante e 
sbavante è una macerazione che porterà alla fine l’anima purificata alla 
totale confidente adesione all’oggetto desiderato. 
I danni che questa categoria di intellettuali può provocare sono 
incalcolabili.

Prima versione: Maggio 2009



(1) Quando pubblicai la prima versione di questo articolo, qualcuno mi disse che era una descrizione troppo modellata sulla figura di Silvio Berlusconi.

In realtà avevo tenuto presente tutt’altro personaggio – e di ben diversa levatura: Benito Mussolini.

Ormai non ha giù nessun interesse un paragone tra queste due figure di leader populisti. Oggi ce ne sono altri, che – almeno – su questo punto – sembrano seguire modelli diversi.

Ma tutto il resto dell’analisi, sul populismo in generale, sul leader populista in particolare, mi sembra clamorosamente confermata.

Soprattutto oggi, che l’ultimo bastione dell’anti-populismo, il PD, è stato trionfalmente espugnato.

Aprile 2015

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Piccola storia di sanità

“k**” ha scritto su it.istruzione.scuola:

Un’insegnante ieri sera a Annozero: “Beata lei che ha Papi, noi tutti vorremmo avere uno che ci può dare una mano, magari uno zio medico che ci fa fare le visite prima…..”

Lunedì 4 vado dal mio medico, mi faccio visitare, e ricevo le richieste per esami e visite specialistiche.

Martedì 5 sono all’Asl di Chieri (TO). Esami del sangue e delle urine: c’è una marea di gente, ma il Poliambulatorio è una specie di catena di montaggio. Entro alle 8, alle 8,30 sono fuori.

Quel giorno stesso prenoto la visita cardiologica: codice B (Breve), che non è U (Urgente), vuol dire prenotazione per giovedì 7, ore 9,30.

Giovedì arrivo qualche minuto prima, giusto per pagare il ticket al Punto Giallo. Alle 9,30 sono già sul lettino con gli elettrodi appiccicati alla pelle, alle 10 ho già fatto l’ecografia, la dottoressa si gira verso il compiùter e mi prenota in ospedale un ellettrocardiogramma sotto sforzo per Venerdì 15 (attenzione: dal Poliambulatorio mi fa direttamente la prenotazione in ospedale). Alle 10,15 sono fuori, con il referto. Ah, ho dimenticato la giustificazione per l’assenza. Torno, con la faccia contrita. Prima delle 11 sono a casa. Ho chiesto un permesso per un giorno intero, sono un po’ pentito, avrei potuto fare le ultime due ore.


Se le insegnanti che vanno da Santoro invece di strillare Papi e Zio pretendessero di avere quello che è normalissimo avere e che è possibilissimo avere, le cose andrebbero un po’ meglio per tutti.


Se i politici, invece di strillare “ah, i mali della sanità…” solo per far finanziare la clinica del cognato, si preoccupassero di far funzionare le cose come è normale che funzionino e come è possibile che funzionino, le cose andrebbero un po’ meglio per tutti.


Sono imbecilli come quell’insegnante che ci regaleranno altri vent’anni di Berlusca.

Scuola e povertà

Stando ad un corrispondente di it.cultura.sinistra, Franceschini a Ballarò avrebbe detto che “in Italia ci sono pochissimi laureati perchè il modello berlusconiano è di un successo fatto di soldi e tv e potere.”

Io ho risposto che quella frase mi sembrava una cagata – chi ha visto quella trasmissione mi farà sapere se Franceschini l’ha davvero pronunciata.

Richiesto di dare un mio parere sulla questione, prima ho detto che non me la sentivo di rispondere con una frase di due righe – i famosi cinque secondi televisivi. Poi ci ho pensato un po’ su, e in un paio di giorni ho messo insieme questa lunga sbrodolatura.

Non sono sicuro di saper dare una risposta esauriente. Ma tanto per cominciare metterei il fenomeno con relazione con il processo di impoverimento della società italiana, e l’esaurimento della classe media colta; processo di discesa sociale che dura ormai da quasi una generazione, e che secondo la Banca d’Italia ha avuto il punto più basso nel ’93, per poi stagnare fino ad oggi.

(L’indicazione di quella data, da parte della Banca d’Italia, è stata comprensibilmente suggerita dal desiderio di non entrare in una imbarazzante polemica; ma è vero che si tratta di una degenerazione sociale di cui il berlusconismo è molto più una conseguenza che una causa.)

La crisi del ceto medio e del lavoro dipendente qualificato, e l’emergere di quella che pomposamente si chiama Piccola Impresa, ma più propriamente sarebbe da indicare come Italia bottegaia, ha spostato le prospettive di ascesa sociale dei poveri dalla carriera nelle professioni verso le arti dell’arrangiarsi: l’evasione fiscale, contributiva ecc. Il lavoro dipendente è comunemente connotato come la banale ricerca del posto fisso, traguardo da raggiungersi più con relazioni di tipo familare-clientelare che con le capacità e le competenze: insomma, una roba da femmine e bamboccioni. La campagna terroristica contro i sindacati (responsabili di tutti i mali), i dipendenti pubblici – tra cui gli insegnanti (fannulloni!), i salariati garantiti in genere (scaldasedie, mentre l’Italia che lavora si alza alle quattro del mattino) è solo la manifestazione folkloristica di una società che nei bassi livelli vede una feroce selezione darwiniana, mentre nei livelli medio-alti è ultragarantita da solide relazioni paramafiose.

La scuola è strapazzata da questa situazione, e nella visione comune è stretta fra la vecchia illusione del “pezzo di carta” e la cinica consapevolezza che poi, alla fine, quello che conta veramente è la raccomandazione. Se a questo aggiungiamo il furibondo odio bottegaio verso il culturame e gli intellettuali (questo sì, abbondantemente alimentato dai modelli televisivi) il cerchio si chiude.


La crisi della scuola è in una relazione sinergica con questa degenerazione sociale. I tentativi di riforma, che si sono succeduti attraverso i governi – tentativi sempre più “epocali”, risolutivi, ma con una sempre più marcata impostazione ideologica e dilettantesca, fino all’ultimo deprimente pasticcio gelminiano – sono falliti perché hanno toccato solo la superficie del problema (si può  essere contemporaneamente “epocali” e superficiali: la storia d’Italia è piena di insignificanti “svolte storiche”).

Ho già raccontato più volte che mio padre era un chimico, ed aveva passato la vita a escogitare mescole di gomma. Quando venne a sapere che avevo avuto una cattedra in un (allora) noto ITIS per chimici industriali di Torino, mi disse con ammirazione: “Quella è una scuola da dove escono dei periti che in certe cose ne sanno più di un laureato”.

L’ascesa economica dell’Italia nel dopoguerra poggiava sulle solide basi di una Scuola superiore di forte contenuto culturale e professionale – non il Liceo gentiliano di cui alcuni continuano a ruminare. Periti, ragionieri, geometri, erano figure forti, prodotte da una scuola altamente selettiva, ma che almeno in parte rispondeva al dettato costituzionale dei “capaci e meritevoli”. A quell’epoca non circolava ancora la leggenda che la scuola è irreparabilmente indietro, indietro, rispetto al “mondo del lavoro”, e le aziende si rivolgevano agli Istituti Tecnici per avere non solo bravi diplomati da assumere immediatamente, ma trovare competenze professionali e dotazioni tecniche di cui non disponevano in proprio.

Questa scuola fu solo marginalmente sfiorata dal ’68 (che paradossalmente non ha mai elaborato una riforma della scuola). Ciò che ha scosso, non allora, ma nei decenni successivi, le fondamenta della scuola superiore, è stata, in primo luogo, la deindustrializzazione (a che serve una scuola per Periti Chimici se in Italia l’industria chimica è il cimitero degli elefanti?). In secondo luogo l’attacco alle professioni in quanto tali. Quella che sugli schermi televisivi è la demolizione dei magistrati, dei medici, degli insegnanti, dei “tecnocrati” e degli “intellettuali” ecc., nella dura realtà è il dissanguamento del ruolo dei tecnici intermedi, sempre più sospinti verso un sottoproletariato divorato dalla precarietà.

In Italia le cose sono quasi sempre fatte per burla, e se si fa qualcosa, si fa il contrario di quel che si dice. Questa è una rara eccezione. Trent’anni fa si è cominciato a dire con sempre maggiore insistenza che in Italia salari e stipendi sono troppo alti, e i lavoratori dipendenti sono troppo tutelati. Nei decenni seguenti s’è attuato un attacco sistematico, brutale, coerente e continuativo contro salari e diritti. A quest’attacco non poteva non seguire una progressiva squalificazione e dequalificazione della scuola. Quando sui giornali cominciò a prendere vita il mito del Nord-Est, cominciò anche a circolare la battuta: se vuoi comprarti una Ferrari a venticinque anni, devi lasciare la scuola a quindici. L’idea di costruirsi un futuro a scuola, con lo studio, divenne oggetto di derisione. E si capisce. Se assumi un tecnico capace, c’è poco da fare, devi pagarlo da tecnico. Se assumi uno stronzo qualunque, poi dargli una paga di merda.

La scuola e la politica hanno contrastato molto debolmente questo processo. Le uniche vere riforme della scuola superiore che si sono realizzate nel dopoguerra (i Programmi Brocca per i Licei e i tecnici, il Progetto 92 per i professionali), pur con i loro lati indubbiamente positivi, nascevano da una visione troppo ottimistica della realtà sociale e scolastica: l’utopia di coniugare sapere e saper fare, cultura e lavoro, scienza e umanesimo, era una grande idea, ma viaggiava un po’ come una mongolfiera su un panorama sociale sempre più degradato. La riforma universitaria del 3+2 (riforma “europea”, pensate un po’!) ha avuto un effetto opposto a quello desiderato. Invece di “democraticizzare” un’Università ancora troppo d’élite, ha svuotato di contenuti la Scuola superiore, ridotta ad un lunghissimo prolungamento della scuola media; e con le stolide chiacchiere della scuola vicino al mondo del lavoro, della competizione che è il sale della vita ecc. ha portato le Università a dotarsi di corsi di studio sempre più frammentati, parcellizzati, improbabili.


Insomma, ecco la famosa risposta in cinque secondi: In Italia la scuola è a pezzi per via dei bassi salari!

Nuovo infame caso di stupro!

Una bambina di soli quattro anni è stata violentata da un cinquantasettenne di Varese!

La popolazione si chiede come sia possibile che un varesotto così pericoloso fosse ancora in circolazione. Moltissimi hanno dichiarato la loro disponibilità a partecipare a ronde per l’individuazione e la segnalazione dei gruppi di varesotti potenzialmente pericolosi. La polizia ha assicurato la massima vigilanza.

Purtroppo la tensione ha provocato dei deplorevoli casi di intolleranza. Un gruppo di giovani col volto coperto ha fatto irruzione in una bocciofila abitualmente frequentata da varesotti, ha devastato i locali e colpito parecchi di loro con spranghe di ferro. I feriti sono stati portati immediatamente in commissariato per l’identificazione, poi i più gravi sono stati accompagnati al Pronto Soccorso. Sul luogo dell’aggressione sono stati trovati volantini di Forza Nuova.

Nella zona adesso c’è grande tensione. Sui muri sono comparse scritte “OCCHIO PER OCCHIO”. Il sindaco ha invitato alla calma: “Noi non siamo razzisti, e deploriamo queste violenze. Chiediamo però di essere protetti da queste persone, che non rispettano le nostre leggi e aggrediscono le nostre famiglie. Sappiamo che spesso vivono in condizioni deplorevoli, e siamo disposti ad aiutarli, ma a casa loro”.

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=329930

Paradossi

Il primo paradosso dell’individualismo

In una società in cui tutti pensano che sia giusto metterlo nel culo al prossimo, ci si aspetterebbe, per un semplice fatto probabilistico, che il 50% circa lo metta in culo all’altro 50%.

Oppure che ognuno un po’ lo metta, un po’ lo prenda – così, a rotazione.

L’esperienza invece dimostra che in questi tipi di società meno del 10% della popolazione lo mette nel culo a tutti gli altri – sempre.

Il secondo paradosso dell’individualismo

In una società in cui la grande maggioranza pensa che i legami di solidarietà siano una fregatura, e che la cosa migliore sia perseguire il proprio interesse fottendosene degli altri, quelli che prevalgono appartengono per lo più a piccole minoranze capaci di stabilire solidi rapporti di solidarietà e cooperazione fra di loro, a danno degli altri.

Nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (1943)

 

1 – La Nazione Italiana è un organismo politico ed economico nel quale compiutamente si realizza la stirpe […]

73 – Presupposto della politica demografica è la difesa della famiglia, nucleo essenziale della struttura sociale dello Stato.

La Repubblica la attua […] col divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matrimonio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri […]

89 – La cittadinanza italiana si acquista e si perde alle condizioni e nei modi stabiliti dalla legge, sulla base del principio che essa è titolo d’onore da riconoscersi e concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana.

In particolare la cittadinanza non può essere acquistata da appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore.

90 – I sudditi di razza non italiana non godono del diritto di servire l’Italia in armi, né, in genere, dei diritti politici: godono dei diritti civili entro i limiti segnati dalla legge, secondo il criterio della loro esclusione da ogni attività, culturale ed economica, che presenti un interesse pubblico, anche se svolgentesi nel campo del diritto privato.

In quanto non particolarmente disposto vale per essi, in quanto applicabile, il trattamento riservato agli stranieri […]

Credevo fosse il Seicento, invece era oggi!

L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.

(Promessi Sposi, cap. I)