Un art. 18 per l’Europa

Da un po’ di tempo, comprensibilmente, le discussioni su queste larghe bande toccano i temi della grande finanza.

Banche, banche centrali, titoli, debito, interessi, cambi.

Devo confessare il mio imbarazzo. Di questioni monetarie non ne ho mai masticato un gran che.

Per me l’economia – per quel pochissimo che ne capisco – è una cosa che riguarda la ciccia e il lavoro. Quella che oggi si chiama “economia reale”, per distinguerla da quell’altra, che pur essendo (a quanto pare) “irreale”, ci domina e ci opprime, come ben si compete ad ogni feticcio che si rispetti.

Alla fine di un’età di “riforme”, durata quasi un’intera generazione, il capitalismo è ormai arrivato al vertice della sua ideologia. Il denaro, che nell’economia “reale” genera valore scambiandosi con il lavoro, vive nell’utopia di poter generare altro denaro a prescindere dal lavoro. È un’utopia mostruosa, come tutte le utopie, ma continua ad essere ripetuta e sostenuta da alcune delle migliori menti dell’Occidente. È un’utopia che, come tutte le utopie di questo mondo, ha moltissimi difetti, a partire da uno fondamentale: che non funziona, come ormai ognuno può vedere.

La cosa sconcertante è che anche molti che pensano di essere oppositori dell’attuale sistema si perdono nell’illusione monetaria, pensando di poter risolvere il problema semplicemente invertendo quel meccanismo. Abolizione del debito, roghi di banche, fallimento controllato, scambio tra debito pubblico e risparmio privato, ritorno alle monete nazionali, addirittura progetti più o meno raffinati di sostituire la moneta reale con i soldi del Monopoli – sono tutte scorciatoie che dimenticano il punto fondamentale: che in un’economia di mercato “reale” il capitale deve fare i conti con il lavoro tanto quanto il lavoro deve fare i conti con il capitale.

(A scanso di equivoci ribadisco che in tutto questo non si parla di fuoriuscita dal sistema capitalistico, tema che non è proprio all’ordine del giorno: ma si parla di far uscire il capitalismo dalla sua dimensione ideologica ed utopistica.)

In questo senso dobbiamo intendere le battaglie per i diritti del lavoratori. Non è la difesa dei privilegi di piccole corporazioni o lobbies di lavoratori dipendenti più o meno fannulloni, di “tabù”, di lacere bandiere delle società mediterranee – notoriamente composte da mandolinisti indolenti ed infingardi.

È la difesa delle prospettive di sviluppo dell’intera Europa, la quale ha al suo arco un’unica freccia: la propria specificità storica, e questa assai più che in un’arcaica identità religiosa consiste in una lunghissima tradizione di politiche sociali.

La specificità storica dell’Europa consiste soprattutto in questo: attraverso un travaglio di secoli si è affermato il principio che il lavoro non è semplice strumento per la produzione di una ricchezza che andrà a beneficare pochi privilegiati, ma il lavoro ha una sua dignità, al lavoro deve essere riconosciuta la cittadinanza all’interno di una grande polis di diritti e doveri, il lavoro è quella forza creativa con la quale l’uomo plasma il mondo a sua immagine e somiglianza, e quindi l’uomo lavoratore giustamente rivendica almeno la soddisfazione di alcuni dei suoi bisogni fondamentali.

Sì, potremmo invece fare come le potenze asiatiche. Purché ci rassegniamo a diventare un’appendice del continente asiatico. Vedere lo sviluppo del PIL come un feticcio al quale sacrificare le vite di interi popoli. Perdere totalmente il senso di essere Europei.

Si dice spesso che è stato un errore costruire l’Europa a partire dall’economia. Ma quest’errore, se è veramente tale, ha lontane premesse storiche. L’età del Risorgimento europeo, nella prima metà dell’800, ha visto lo sforzo di creare unioni doganali come premesse delle unioni politiche. Subito dopo c’è stato il ’48, la rivendicazione dei diritti politici, della democrazia, del nuovo “diritto del lavoro”, di una nuova “carta del lavoro”. Questa seconda fase non è stata facile, ha richiesto decenni di lotte, in una prospettiva internazionale che ad un certo punto è stata simboleggiata dalla lotta universale per le otto ore, e la celebrazione del 1° maggio.

Non è stato un errore creare un’Europa economica. Sarebbe però un errore se a questa Europa economica non facesse seguito la lotta per un’Europa dei diritti.

Certo, la difesa dell’art. 18 in una prospettiva puramente italiana è “conservazione”. Di per sé la cosa non è un male, perché se l’innovazione ha la faccia mal rasata di Marchionne, viva la conservazione.

Però, per usare un vecchio linguaggio dei rivoluzionari, la tutela dell’art. 18, per quanto giustificata in un’Europa dove lo slogan è “non possiamo più permetterci lo Stato sociale”, è chiaramente una battaglia difensiva, una battaglia di posizione. E la storia insegna che se non si vuole perdere la guerra si deve passare dalla guerra di posizione alla guerra di movimento, dalle battaglie difensive alla lotta offensiva.

Dalla mia scrivania di insegnante in pensione in un paesino sperduto nel profondo Piemonte, lancio un appello alle forze politiche e sindacali, alle istituzioni europee, per una nuova Carta Europea dei Diritti del Lavoro. La lancio non per megalomania, ma perché so che la stessa esigenza è sentita da milioni di persone in ogni angolo di questo continente. Che la mia debole voce sicuramente si unirà alla voce di milioni di altri Europei, i quali sono ormai pronti a sostenere questa battaglia, poiché è una battaglia giusta, e anche perché – alla fin dei conti – non hanno altro da perdere che la propria disoccupazione.

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