Scontro di civiltà

Da quando esiste la guerra, esiste una regola che contempla poche eccezioni. Vince chi riesce a trascinare l’avversario sul proprio terreno, chi riesce ad imporre all’avversario la propria modalità di fare la guerra.

Questo vale in senso propriamente strategico, come tecnica militare, ma vale ancora di più in senso politico.

Ottant’anni fa, i nazisti scatenarono una guerra razzista. Combattevano per la supremazia della razza ariana sulle altre razze.

Alla fine i nazisti sono stati sconfitti. A conti fatti, possiamo dire che la loro sconfitta era inevitabile, anche se credevano (e facevano credere) di avere un esercito invincibile.

Ma hanno perso anche perché i loro avversari non hanno combattuto la guerra dei nazisti.

Quelli che hanno combattuto contro il nazifascisti, non si sono mai sognati di fare la guerra contro la razza ariana. Non si sono mai sognati di battersi sul terreno della guerra razzista. Hanno combattuto per la libertà contro la tirannide. E anche per questo – soprattutto per questo – hanno vinto.

I terroristi jihadisti, i nazisti del nostro tempo, vogliono scatenare una guerra di religione. La guerra della religione islamica contro tutte le altre religioni – anche contro tutti i mussulmani che non la pensano come loro, s’intende.

L’errore più grave che si potrebbe fare sarebbe quello di accettare questa guerra. Fare una guerra di religione. Proprio quella che vogliono loro. La guerra dei cristiani contro i mussulmani.

Ma l’Europa le sue guerre di religione le ha già fatte cinque secoli fa; e non è stata una bella pagina della storia europea. Le Crociate le abbiamo fatte nove secoli fa; e le abbiamo perse.

Se si fa una guerra dei cristiani contro i mussulmani, sinceramente non so bene chi potrebbe vincere. Con tutti i mezzi materiali a nostra disposizione, non è questa la guerra per cui siamo preparati.

La nostra guerra deve essere la guerra della libertà contro l’oppressione, la guerra della cultura contro l’ignoranza. La libertà anche per i mussulmani, la cultura anche della tradizione mussulmana.

(Anche la guerra per la libertà di stampa, s’intende. Anche per la libertà di stampare e leggere un giornale “bête et méchant”.)

Questa è la guerra che possiamo vincere. Come settant’anni fa.

La libertà di stampa, e quelli che si adeguano

Per molti, non solo per voci, diciamo così, “della strada”, ma anche per un giornale famoso e prestigioso come il Financial Times, quelli di Charlie Hebdo “se la sono cercata” pubblicando vignette “stupide” ed “offensive”.

Questo dimostra che i terroristi conoscono l’Europa molto meglio di tanti europei.

La libertà di stampa è l’anima dell’Europa. È il principio per cui, se non ti piace un giornale, sei libero di non leggerlo: ma non puoi ammazzare i giornalisti, o metterli in prigione, come è capitato pochi giorni fa in Turchia. Senza questo principio, senza il rispetto rigoroso e inflessibile di questo principio, l’Europa non è più l’Europa.

Se in questo principio inseriamo un criterio di maggiore o minore “opportunità”, è finita. Ammettiamo che la libertà di stampa è una libertà limitata; che c’è qualcuno che ti può dire che una certa notizia, una certa vignetta, se non la pubblichi è meglio. Così, a scanso di grane.

Se cominciamo a dire che la libertà di stampa vale per i giornali “buoni”, e vale un po’ meno per i giornali “cattivi”, abbiamo cancellato gli ultimi duecento anni di storia europea.

Per questo i terroristi hanno attaccato un giornale satirico dichiaratamente “bête et méchant”. Sapevano perfettamente quello che facevano. Hanno attaccato la libertà di stampa distruggendo un giornale che molti (non io, ma non è questo che conta) considerano “inopportuno” e “irresponsabile”.

Invece quelli che dicono che certe cose, se non le pubblichi, è meglio, se non vuoi passare dei guai, è ora che si facciano crescere la barba e tolgano dal frigo il prosciutto e le lattine di birra: si sono già adeguati.

Be’, ci siamo già passati, un’ottantina di anni fa. Poi ne siamo usciti. Con fatica, ma ne siamo usciti.

È ora di ristudiare quella vecchia storia.

Il keynesismo for dummies, e i cinque primati dell’economia italiana

1. Da decenni circola nel nostro paese una pseudo dottrina economica che potremmo chiamare “keynesismo for dummies”.

Secondo questa dottrina, qualunque spesa pubblica, alimentata dal deficit di bilancio, “sono comunque soldi che girano”, e che “fanno girare l’economia”.

È una dottrina che ha il grande fascino della semplicità.

Di questa dottrina esistono due versioni: una di destra, ed una di sinistra, altrettanto diffuse, e sostenute dai loro seguaci con pari energia.

È appena il caso di dire che John Maynard Keynes non si è mai sognato di dire una simile frescaccia. La teoria di Keynes è sintetizzata in una formula matematica, che si chiama “moltiplicatore”, e che si fonda su alcuni concetti non del tutto immediati, come la “propensione al consumo”, la “propensione al risparmio” ecc.

È inutile che ora mi metta a spiegare questa formula, perché “tanto la gente non capisce”.

Mi limiterò ad alcune riflessioni molto pratiche sulla versione “for dummies” del keynesismo.


2. Il keynesismo for dummies ha una cosa in comune con le grandi teorie macroeconomiche (parlo di teorie economiche vere, tra cui anche il keynesismo non for dummies). Le teorie macroeconomiche parlano di grandissimi aggregati, per esempio la spesa pubblica, il prelievo fiscale, la domanda ecc., e quindi devono essere prese con grandi cautele, perché è sempre in agguato il pericolo di sommare banane con carciofi e fare le statistiche di Trilussa. Il keynesismo for dummies, come il vero keynesismo, si basa su una grandissima semplificazione, per cui tutti i soldi spesi dallo Stato vanno a finire nelle tasche dei cittadini, i quali decidono in modo abbastanza omogeneo di spenderne una percentuale più o meno grande per soddisfare i loro bisogni, e questi sono appunto i “soldi che girano”.

Quando si applicano modelli così generali a situazioni concrete, bisogna sempre vedere se questo tipo di semplificazione porta a risultati conseguenti.

Se voglio studiare i movimenti di un’automobile che corre su una strada, può essere utile, almeno in certi casi, considerare tutta la massa del veicolo concentrata nel suo baricentro, ed applicare a questo le leggi del moto inerziale ecc.

Se applico lo stesso tipo di modello ad uno sciame di api impazzite, difficilmente ottengo un risultato utile.


3. L’Italia un pochino assomiglia ad uno sciame di api impazzite. Ma soprattutto è un colabrodo. Fra tutti i paesi industrializzati, l’Italia ha una lunga serie di primati. Cominciamo con tre:

  • 1. il più elevato debito pubblico;
  • 2. la più alta evasione fiscale;
  • 3. la più forte corruzione.

Il debito pubblico non è, come credono i k-dummies, una fissazione da ragionieri. Debito pubblico significa pagamento degli interessi sul debito, un flusso costante di denaro che esce dalle casse dello Stato (e quindi dalle tasche dei contribuenti) e va verso i detentori dei titoli – che per oltre la metà sono collocati all’estero.

Evasione fiscale e corruzione sono fenomeni di massa – lasciamo perdere il piagnisteo populista dei “grandi evasori” che giustificherebbero l’esistenza dei “piccoli”. Si tratta, come e più del pagamento degli interessi sul debito, di un enorme flusso di ricchezza finanziaria a cui non corrisponde la creazione di ricchezza reale. Che siano flussi legali (interessi) o illegali (evasione e corruzione), dal punto di vista economico sono ugualmente situazioni di “rendita”: concetto che forse appartiene a teorie economiche un po’ vecchiotte, ma che descrive abbastanza bene la situazione.

Insomma, tutti quei soldi che “girano” e che dovrebbero “far girare l’economia”, a forza di girare prima o poi vanno a finire nei tre pozzi senza fondo degli interessi sul debito, dell’evasione fiscale e della corruzione. Una piccola parte tornerà forse a girare, ma sappiamo tutti che il grosso sarà perduto per sempre.

Da un’intera generazione assistiamo al mistero di un’economia in cui lo Stato spende, ma chissà perché (dicevano i commentatori televisivi di una volta) “il cavallo non beve”. Girano i soldi, ma l’economia non gira. Il deficit riversa sull’economia un torrente di soldi, ma un torrente ben più grosso ne esce, muovendosi in senso ostinato e contrario verso cavità carsiche insondabili. E più è abbondante la corrente in entrata, più è forte il flusso in uscita. Cosa che i k-dummies – e anche parecchi keynesisti non dummies – non riescono a spiegarsi. Perché se si parla solo di grandi aggregati – soldi spesi dallo Stato – e non si va a guarda in modo un po’ più analitico dove vanno a finire i singoli flussi di denaro, le grandi generalizzazioni, anche le formule matematiche si perdono nelle cavità carsiche.


4. Avevo parlato di primati italiani. Vediamone altri due:

  • 4. il più forte consumo di suolo;
  • 5. i più bassi salari.

Forse è meno intuitivo capire la relazione fra questi primati e gli altri tre, e soprattutto con il keynesismo – for dummies o non for dummies che sia.

Ma spero che sia chiaro a tutti che anche questi due appartengono ad un sistema Italia che da una generazione intera ha deciso di attuare strategie al ribasso.

Consumo di suolo vuol dire, nella specificità italiana, una intensissima attività edilizia, con tecnologie grezze, e scarsa attenzione all’effettiva domanda del mercato. L’Italia è il paese delle palazzine incompiute, degli scheletri di cemento, dei cartelli VENDESI che intristiscono fra le erbacce, dei capannoni industriali che per decenni non hanno mai ospitato industrie. È così da parecchio prima dell’ultima crisi, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è accentuato, sia per l’inevitabile sopraggiungere di una crisi di sovrapproduzione, sia per il prevalere di motivazioni speculative rispetto a quelle produttive. La trasformazione di un terreno agricolo in edificato viene considerata di per sé un guadagno; una costruzione anche invenduta o addirittura incompiuta viene considerata una riserva sicura di valore; alcuni sperano che un capannone industriale inutilizzato possa essere dato in garanzia per ottenere un finanziamento. Un’infinità di piccoli investitori, disorientati per le oscillazioni dell’economia, e scarsamente informati, tengono alta una domanda di tipo speculativo, soprattutto quando si tratta di trovare una collocazione a capitali di origine dubbia. Vi possono essere oscillazioni congiunturali a questo fenomeno, come oggi, ma il quadro sostanzialmente non cambia.

D’altra parte, l’edilizia è l’attività in cui maggiormente si manifestano fenomeni di lavoro nero e di evasione fiscale e contributiva, creando con gli altri settori dell’economia sommersa un circolo chiuso che è molto difficile rompere.

I bassi salari non sono, o lo sono solo in parte, conseguenza della crisi delle industrie, e della concorrenza dei lavoratori stranieri. Le cause principali sono la progressiva svalutazione delle competenze, il migrare delle attività verso impieghi a bassa tecnologia (di nuovo: l’edilizia in primo luogo), la mancanza di progettualità e di innovazione e quindi lo scarso incentivo ad assumere personale capace ed a valorizzare l’esperienza. Si crea un esercito industriale di riserva per tenere bassi i salari; ma l’abbassamento dei salari, oltre un certo limite, porta ad un degrado della qualità del lavoro. Mi chiedo come facciano, certe aziende, a mantenere un minimo standard di qualità, con la continua rotazione di personale avventizio. Ma se non c’è la qualità, si rimedia abbassando i prezzi, e quindi i salari, e licenziando. Alla fine l’azienda, spolpata e rosicchiata come un osso di pollo, chiude, e buonanotte.

È ben difficile che in un’economia reale di questo genere, i famosi “soldi che girano” riescano a “far girare l’economia”.

Insomma, questi cinque primati non sono incidenti di percorso, sono aspetti strutturali del “sistema Italia”, tra di loro si tengono stretti, e solo una decisa azione su tutti e cinque i fronti, in un’ottica di sistema, può sperare di cambiare la situazione.


5. Ogni sistema complesso tende a raggiungere, e a mantenere, una situazione di equilibrio. Questo vale anche per i sistemi economici. Alla base dell’economia keynesiana, c’è l’assunto che un sistema di mercato tende ad una situazione di equilibrio tra domanda ed offerta; ma non c’è nessuna garanzia che questa situazione di equilibrio corrisponda al livello di piena occupazione (in Keynes per “piena occupazione” si intende il pieno impiego di tutte le risorse, non solo del lavoro).

Insomma, una volta che un sistema si è stabilizzato in su un equilibrio a basso livello, con masse di disoccupati senza reddito, fabbriche chiuse con magazzini pieni di merce invenduta, risparmiatori sempre a due passi dal crollo, consumi asfittici, investimenti fermi, enorme risorse potenziali inutilizzate, be’, questa situazione può durare a lungo, molto a lungo, e opporre resistenza a qualunque sforzo di rianimazione.

Nel keynesismo teorico, si esce dalla crisi con un investimento pubblico che viene “moltiplicato” dalla propensione al consumo di coloro che, direttamente o indirettamente, ne sono i beneficiari.

Nel keynesismo reale le cose sono un po’ più complesse. Il keynesismo reale, di cui il principale esempio è stato il New Deal, l’intervento della politica si è sviluppato su più fronti. In primo luogo, grandi interventi di pianificazione territoriale. Poi una forte politica sociale, con sussidi di disoccupazione, la costruzione di un sistema pensionistico e di assistenza sanitaria per tutti. Una fiscalità fortemente progressiva. Lo sviluppo dell’istruzione pubblica, ed una decisa politica di tutela dei diritti, a partire dai diritti delle minoranze. Il sostegno all’agricoltura, e la riconversione di milioni di agricoltori rovinati dallo sviluppo della meccanizzazione. Lo sviluppo dei sindacati, che non sono visti come forze antisistema, ma come soggetti contrattuali indispensabili per impostare una politica dei redditi.

Certo, a partire da un certo punto anche le spese militari. Con la loro coda a lunga scadenza, dell’enorme impulso al progresso scientifico e tecnologico.

Questa politica, iniziata alla metà degli anni ’30, è durata negli Stati Uniti fino all’inizio degli anni ’80, con il più formidabile sviluppo economico, e il più tumultuoso miglioramento del tenore di vita di un’intera popolazione che si sia mai visto nella storia dell’umanità. E con il debito pubblico al 30% del PIL.

Le cose sono cambiate con l’era Reagan, quando si è deciso che l’interesse egoistico di pochi deve prevalere sull’interesse collettivo di molti. Che i ricchi devono essere liberi di arricchirsi ancora di più, e non è compito dello Stato occuparsi dell’estendersi della povertà. Che se decine di milioni di Americani sono privi di assistenza sanitaria, di una scuola decente, di una casa, è inutile che si lamentino, hanno solo da diventare ricchi anche loro.

Di tutto questo, del grande programma del New Deal, del keynesismo reale, non c’è traccia nelle moderne teorie, di destra e di sinistra, dei “soldi che fanno girare l’economia”. C’è invece un permanere di scelte al ribasso. Essere “moderni” significa avviarsi con decisione lungo la linea di minor resistenza che porta al declino. È stata la scelta dei governi della destra, che festeggiavano tra lustrini e prescrizioni mentre condoni edilizi e fiscali devastavano il territorio ed affossavano lo stato. È purtroppo la scelta attuale di un governo che crede di aiutare i disoccupati riducendo i diritti degli occupati, che taglia i senatori ma non l’evasione fiscale, che litiga con i sindacati ma non con i corrotti. Un governo che promette il riassetto del territorio, ma fa finta di non sapere che la prima cosa da fare è ripristinare il divieto di costruire sulle sponde dei corsi d’acqua. Un governo che ha dato 80 euro ai salari più bassi, ma non ha il coraggio di dire che la funzione principale delle tasse è la redistribuzione del reddito, in modo da impedire che il mercato esasperi pericolosamente le disuguaglianze sociali.

Da trent’anni si dice che la povertà è provocata dalla crisi. Che bisogna uscire dalla crisi per risollevare le sorti dei poveri, delle periferie, degli emarginati. Un governo che voglia essere veramente di sinistra dovrebbe mettere al primo posto del suo programma la dichiarazione che l’ingiustizia sociale è la prima causa della crisi, e che per uscire dalla crisi la cosa più importante è combattere l’ingiustizia.

Provincialismo

“Non parteciperemo alle operazioni di soccorso nel Mediterraneo. D’altra parte, abbiamo solo un paio di navi e qualche aereo, e il Mediterraneo è grande.”

Queste parole sarebbero poco opportune in bocca ad un sindachello in camicia verde della profonda Padania.

Ma quando a pronunciarle e il Ministro degli Esteri dell’ex dominatrice dei mari, della potenza che col vessillo dei tre leopardi mandava le proprie navi a pattugliare gli oceani del mondo intero, cascano le braccia dallo sconforto.

È sempre sgradevole vedere un’ex grande signora adattarsi ai modi sgangherati di una comare di provincia. E quanto più è grande la caduta, tanto più amaro è lo sconforto. Per di più, qui non si tratta della toilette da indossare al matrimonio di una lontana pronipote – una parente povera, che non merita la mise delle grandi occasioni –, ma di una questione che riguarda la vita e le morte di decine di migliaia di disperati.

Il rifiuto di partecipare all’operazione di salvataggio, la sempre più petulante richiesta di defilarsi da un’Europa in cui l’inglese è pure la lingua di scambio più diffusa, avranno giustificazioni contabili di un certo peso, ma non tali da nascondere l’involgarimento dei costumi, la perdita di ogni bussola morale.

Come unica consolazione, potranno dire di non essere i soli.

In un’Europa distratta e provincialotta, e tutta intenta a rimirare le profondità di 28 ombelichi, chissà che non tocchi di nuovo all’Italia salvare il decoro di un intero continente.

Con buona pace degli inglesi, e dei sindachelli ecc.

Renzi: Il posto fisso non esiste più

Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.

Karl Marx, Ideologia tedesca

In conclusione

In conclusione, sono scoraggiato. Da un quarto di secolo l’Italia sembra ipnotizzata dal mito dell’Uomo Nuovo, il politico che è diverso da tutti gli altri politici, quello che spazzerà via la vecchia politica… Di Uomini Nuovi di tal fatta ne abbiamo avuti a bizzeffe, alcuni più, altri meno fortunati. Il PD sembrava l’unico partito esente da quella malattia.

Oggi, per non farci mancare niente, di Uomini Nuovi (che sono diversi da tutti gli altri politici, che spazzeranno via la vecchia politica…) ne abbiamo due: uno al Governo, ed uno all’Opposizione. E fra i due litiganti, il Terzo – il più vecchio degli Uomini Nuovi ancora in circolazione – riemerge gaudente da quella sorta di coma in cui, assi più che i giudici, l’età ormai veneranda sembrava averlo sprofondato.

Quella tessera del ’92

Sono iscritto al PD da 22 anni.

All’epoca si chiamava PDS, ho ancora la tessera con la data del 29 marzo 1992.

Tessera 1992

Chi c’era, ricorda quell’anno, uno dei più terribili della storia italiana recente. L’anno della grande offensiva di mafia, che ben presto avrebbe portato all’incubo delle stragi. Ma anche la criminalità comune raggiunse un picco assolutamente anomalo, come ricordano le statistiche del Ministero degli Interni.

Si era alla fine della “Prima Repubblica”, che finiva molto male, non solo perché stavano venendo alla luce i grandi casi di corruzione – cosa che in realtà suscitò ben poca sorpresa nell’opinione pubblica – ma soprattutto perché quel che rimaneva del vecchio ceto politico mostrava una clamorosa inadeguatezza di fronte ai problemi del Paese.

Si stava intanto inabissando il PSI; per la prima volta nella storia recente un grande partito si era totalmente identificato con la vicenda personale del suo leader, e tramontando quello, inevitabilmente ne seguiva la sorte, in un suicidio inglorioso che lasciò un vuoto incolmabile nella politica del Paese.

Ma la cosa che più mi spinse a quell’iscrizione, fu la petulante insistenza con la quale un Presidente della Repubblica, invece di tutelare la Costituzione, si adoperava per scardinarne le fondamenta. Francesco Cossiga fu il primo che tentò di trasformare il disagio della società e la diffusa diffidenza verso la politica in un “piccone” per abbattere le istituzioni nate dall’antifascismo.


La mia adesione al PDS fu più una testimonianza che una militanza; volli manifestare la mia opposizione al corso degli eventi entrando in un Partito che all’epoca mi sembrava quello che meglio custodiva l’eredità dei Costituenti. Non partecipai mai effettivamente all’attività politica, ma quella tessera, che rinnovavo ogni anno, mi dava la sicurezza che la rassegnazione non era inevitabile.

Poi mi devo essere distratto un momento, ed ora mi trovo iscritto ad un Partito che ha come obiettivo prioritario togliere ai cittadini il diritto di voto.


Sotto l’etichetta di “riforme”, termine che ormai può comprendere qualunque cosa, si sta discutendo la trasformazione del secondo ramo del Parlamento in una commissione di amministratori regionali di secondo piano, scelti da altri amministratori regionali.

Sappiamo benissimo che i partiti sono strumento essenziale della democrazia, che tra la sovranità popolare e la macchina dello Stato è necessaria una mediazione organizzata; siamo troppo vecchi per non sapere che la spinta della “democrazia diretta” non ha mai portato ad altro che alla delega plebiscitaria verso un Capo carismatico. Ma sappiamo anche che qui è il punto delicato del processo democratico, che i partiti tendono inevitabilmente a trasformarsi in un ceto autoreferenziale, e che questa tendenza deve essere attentamente monitorata a tenuta sotto controllo. Per questo, il costante richiamo al principio della Sovranità popolare è assolutamente indispensabile. La “riforma” in questione va esattamente nel senso opposto; la degenerazione viene addirittura costituzionalizzata, ed in una delle istituzioni chiave dello Stato!

Uomini dell’apparato scelti da altri uomini dell’apparato, un drappello di piccoli oligarchi che si autonominano e se la cantano e se la suonano. A questo si vuol ridurre il Senato della Repubblica.

La riforma della legge elettorale della Camera, pubblicizzata con un nome che sembra quello di un digestivo alle erbe, segue una logica analoga, ha il solo vantaggio che non sarà una norma inserita nella Costituzione. Ai cittadini viene lasciato il diritto di voto, ma è un diritto di voto per così dire all’ingrosso; si sceglie un pacchetto di parlamentari, poi chi vuole legge sulla confezione il contenuto, tanto non lo può cambiare. La Camera dei Deputati non è più quell’immagine della società che l’ha eletta, dove “ogni membro… rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”; è il Consiglio di Amministrazione dei grandi padroni delle liste, che usano pacchi di voti per misurare i loro equilibri di potere.

Certo, queste idee non sono farina del sacco democratico, ma finché a sostenerle erano uomini come Licio Gelli o Silvio Berlusconi, non c’era niente di strano. Ognuno fa il proprio mestiere, e da una destra autoritaria non può venire altro che un “Piano” per una trasformazione autoritaria dello Stato.

Ma che questo progetto, già bocciato clamorosamente nel referendum del 2006, sia ora ripreso da un Partito che si dice Democratico (anche se non è più “di Sinistra”, ma pazienza!) non può non suscitare sconcerto e indignazione.


Fra i tanti centenari del 2015 ne voglio ricordare uno, di cui non mi sembra si parli ancora in giro. Sono ottocento anni dalla Magna Charta, quel grande confuso documento della storia inglese da cui, forzando un pochino il testo, si può estrarre il primo germe di una di quelle grandi idee che nei secoli hanno reso l’Europa qualcosa di speciale. E l’idea è questa: è un paese libero quello in cui c’è un Parlamento che può controllare il Governo.

Si sta oggi affermando un principio diverso, quello di un sistema in cui il Governo controlla il Parlamento.

Mi vengono amare riflessioni da insegnante in pensione. Mi chiedo se nella scuola italiana si insegnano ancora certe cose. Nei libri di storia di una volta, c’era un capitoletto, “Confronto fra il Risorgimento italiano e l’Unificazione tedesca”. E la differenza fondamentale è che alla guida del nostro Risorgimento c’era un Governo il quale, dal 1849 in avanti, doveva rendere conto del proprio operato ad un Parlamento liberamente eletto. Invece l’Unificazione tedesca fu guidata da uno Stato autoritario, il cui leader fu il primo a contrapporre l’energico “fare” governativo agli inutili “discorsi” delle aule parlamentari.

Cavour, dunque, o Bismarck – senza togliere nulla ai meriti di quest’ultimo, il quale, va riconosciuto onestamente, almeno “faceva” effettivamente, e non si limitava a riempirsi la bocca con il “fare”.

E così, oggi abbiamo di fronte un’intera generazione alla quale sembra che nessuno abbia spiegato la differenza tra “potere legislativo” e “potere esecutivo”. Una generazione alla quale sembra normale che il Governo in carica detti il calendario dei lavori parlamentari, per di più in una materia, la riforma della Costituzione, che dovrebbe privilegio gelosamente custodito da coloro che rappresentano direttamente la sovranità popolare.


E quella vecchia tessera? La tengo.

Sta lì a ricordarmi che non bisogna rassegnarsi, che non bisogna stare zitti.


Aggiornamento del 31 luglio 2014. Visto l’evolversi della situazione, per i motivi qui esposti ho deciso di seguire l’indicazione del Segretario del mio Partito, il quale, rivolgendosi ai dissidenti, ha detto, con la squisita eleganza che gli è propria, “quella è la porta”.

A proposito di disparità di forze

L’11 dicembre 1941 Benito Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti d’America.

Si dice che il Senatore Agnelli abbia mormorato: “Ma gli avete fatto vedere la guida telefonica di New York?”

L’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo, con vaste aree di sottosviluppo a livelli di Terzo Mondo.

Tanto per dirne una, avevamo un’aviazione militare che era all’avanguardia nel mondo a metà degli anni ‘30, ma diventava immediatamente obsoleta quando, con lo scoppio della guerra, anche il progresso tecnologico cominciò a correre come un puledro impazzito.

Anche noi riuscimmo a mettere in campo qualche bell’aeroplanino, il Macchi 202 (produzione totale, un migliaio di esemplari) il Macchi 205 (circa 300 esemplari) il Fiat 55 (circa 200) il Reggiane 2005 (una trentina). Bellissimi, roba da competizione sportiva, ma in una guerra mondiale…

E con questo bell’apparecchio, siamo andati a stuzzicare un colosso capace di sfornare un quadrimotore B24 Liberator, fatto e finito, ogni 56 minuti, 24/24, 365/365.

Che cosa potevano fargli, agli americani? Ma neanche il solletico.

Per nostra sfortuna loro ci hanno presi sul serio, alla prima occasione ci hanno invasi, e ci hanno asfaltati da Capo Passero alla Valtellina.

E così il Duce concluse la sua carriera imperiale appeso per i piedi ad un distributore di benzina – e mai corda fu meglio usata, almeno nel XX secolo.

Elogio dell’inciucio

Vent’anni di berlusconismo ci hanno lasciato tanti frutti avvelenati, ma il peggiore di tutti è stato quello di di aver introdotto come logica normale della prassi politica la categoria amico/nemico.

Si tratta, com’è noto, della categoria base del → populismo. O sei con me, o sei contro di me, e se sei contro di me, ti distruggo. Io sono con il popolo, quindi se sei contro di me, sei contro il popolo, e coi nemici del popolo non si ragiona. Il popolo li schiaccerà! E rimarremo solo noi, gli amici del popolo.

Intendiamoci: la logica amico/nemico fa parte della politica. Ma è propria dei momenti di profonda crisi, di cambiamento traumatico di regime. Nel ‘43-’45, con la guerra in casa, la guerra civile, mezza Italia occupata dai tedeschi e l’altra mezza occupata dagli anglo-americani, non ci poteva essere mediazione tra fascismo e antifascismo. O l’uno, o l’altro. O l’antifascismo distrugge il fascismo, o il fascismo distrugge non solo l’antifascismo, ma tutta la Nazione.

Ed anche oggi, tra lo Stato di diritto e l’antistato mafioso, non ci può essere mediazione. O vince uno, o vince l’altro.

Ma fra forze politiche costituzionali, la logica deve essere un’altra. Ci può essere un confronto anche aspro, maggioranza ed opposizione devono essere nettamente distinte, ma non si può trattare l’avversario politico come un nemico da distruggere. E soprattutto, fra persone adulte, non c’è niente di strano se ci si mette a discutere, e si trova un accordo perché si decide che le cose che uniscono sono più importanti delle cose che dividono. Soprattutto quando non ci sono alternative.

La democrazia è il governo della maggioranza. Ma da nessuna parte sta scritto che quella maggioranza deve essere rappresentata da un solo partito.

Può capitare che il 51% voti per un partito, e allora governerà quel partito. Può capitare, anche se non è così frequente.

Ma se nessuno raggiunge il 51%; se il voto si frammenta fra diversi partiti, tutti sotto il 30%, come in Italia l’anno scorso, come oggi in quasi tutta l’Europa – compresa l’Inghilterra, che il bipartitismo l’ha inventato e, fino a ieri, sembrava l’avesse nel sangue – allora i casi sono due: o si arriva ad una coalizione, o si fa una legge elettorale farlocca che trasforma il 25~28% in un bel 51%.

Non riesco assolutamente a capire per quale ragione questa seconda soluzione sarebbe più democratica della prima. Non riesco assolutamente a riconoscermi in quelli che dicono che la democrazia è quel sistema in cui “c’è sempre uno che vince e l’altro che perde”.


I fanatici del “nessun inciucio”, poi, non sanno dare nessuna spiegazione su come arrivare a quel famoso 51%. Poiché o sei con me o sei contro di me, in caso di sconfitta elettorale non c’è altra spiegazione se non quella di considerare gli elettori stressi come dei nemici. “Gli italiani si sono venduti per 80 euro!” è l’unica chiave interpretativa della realtà a cui sanno affidarsi.

Naturalmente, essendo in minoranza, difendono il proporzionalismo – e farebbero bene, se non fosse che un sistema proporzionale porta quasi inevitabilmente a governi di coalizione. Se fossero loro ad avere il 40%, come farebbero a governare? O dovrebbero accordarsi con qualcuno che gli fornisca quell’11% che gli manca; oppure dovrebbero affidarsi ad una legge elettorale maggioritaria.

L’unica alternativa è una campagna elettorale permanente, tutti contro tutti. E allora sì, sarebbero “nemici”. O vincono gli altri, o loro distruggono il Paese.


Pubblicato originariamente il 4 luglio 2014 in news:it.politica.sinistra, dove non va mai nessuno; lo metto ora (5 agosto) qui, alla data di allora.
Tanto anche qui non viene mai nessuno.