Trump e il 99%

Quando arrivarono le notizie del movimento “Occupy Wall Street”, trovai subito una nota stonata. A parte l’intollerabile maschera del terrorista cattolico (anche lui un “anti-establishment”, perché no!), lo slogan “We are the 99%” mi sembrò fin dall’inizio il suono di una campana a morte.

Dietro questo slogan c’è l’idea che la società sia formata, appunto, da un 99% di “gente comune” e un 1% di “establishment”.

we99

Il populismo non è solo una prassi politica, è anche una visione del mondo che qualche volta si sforza di essere metodo di analisi.

Da un punto di vista banalmente statistico, è vero che tra i redditi del 99% e quelli dell’1% c’è un abisso. Ma non si fanno le rivoluzioni con le statistiche.

Tutte le società sono strutture molto complesse, a maggior ragione le società contemporanee. La tendenza anglosassone a trovare dati numerici per ogni genere di fenomeni, spinge a ridurre la complessità a semplici valori di reddito; e la teoria del 99% è il massimo della semplificazione. Ma non è una descrizione sensata del funzionamento della società.

Fra i manifestanti c’erano sicuramente molte persone che avevano un buon livello di istruzione, quindi avevano accesso ad un’infinità di analisi economiche, sociologiche ecc. che descrivono la società moderna (non tutte buone analisi, s’intende). Gettare via tutto questo patrimonio di conoscenza possibile in nome di un numero, 99, significa essere spinti dall’emotività all’ideologia, e dall’ideologia all’analfabetismo funzionale.


clintontrump

È chiaro che c’è un establishment. È chiaro che chi si candida alla Presidenza degli Stati Uniti fa parte dell’establishment; non è sicuramente uno del 99%, non è sicuramente uno che manifestava proclamandosi parte di quel 99%. La Clinton fa parte dell’establishment, questo è un volgare truismo. Ne fa parte ovviamente anche Trump – ne fa parte dalla nascita, a dire il vero, molto di più della Clinton. Semplicemente i due occupano regioni diverse dell’establishment.

Dire che la Clinton e Trump fanno parte dell’establishment, non ci serve a niente se vogliamo capire come funziona l’establishment.

Bocciare la Clinton perché fa parte dell’establishment, e quindi non può rappresentare il 99%, è come bocciarla perché ha 69 anni e quindi non rappresenta i “giovani”. Niente da fare, è una cazzata.

Forse la Clinton non avrebbe risolto i problemi del 99%. Forse è effettivamente troppo legata a quella parte dell’establishment finanziario-politico-industriale-militare che è responsabile della sofferenza del 99%. Ma non puoi fare una scelta che magari può anche essere giusta, per motivazioni stupide, senza capire di cosa stai parlando. Perché alla fine ti troverai a votare per un uomo che ha 70 anni ed appartiene a quella categoria di miliardari evasori che sono ancora più responsabili delle tue sofferenze – e che non esisterebbe se non ci fosse quell’altra metà.

Ma così è fatto il populismo. Dall’ideologia, conseguono le scelte.

Le rivoluzioni vere, non quelle per finta, devono partire da una comprensione sensata della società. Capire per cambiare. Se non capisci, non cambi. È inutile denunciare l’establishment se non capisci come funziona, quali sono i legami funzionali tra l’1% e il 99%. Anzi, non capirai niente finché non ti togli dalla testa questi due numeri del cazzo.

Puoi agitare i forconi, metterti la maschera del bombarolo papista e hackerare i computer delle multinazionali, oppure il passamontagna e sfasciare vetrine; tutto quello che fai non servirà ad altro che a perpetuare quel sistema che non cambi perché non capisci.

Parole e immagini

In tutta la faccenda della signora suicida, un elemento non mi sembra sia stato sufficientemente messo in risalto.

Una giratina sul web ci fa persuasi che il 90% dei messaggi è costituito da filmini porno amatoriali e autoprodotti, o altri contenuti di pari livello culturale.

Quello che ha reso quel particolare filmino così diffuso, non sono le immagini, che suppongo (non l’ho visto) non distinguibili da quelle di millanta miliardi di altri filmini porno autoprodotti; bensì una particolare invenzione linguistica.

“Stai facendo il video? Bravo!” è la frase che la protagonista ha pronunciato, rivolta al videomaker. Ed è questa frase, in cui si condensa tutta la saggezza di una generazione che vive con il telefonino in mano, che è diventata il messaggio universale.

Su questa frase sono state fatte infinite variazioni – alcune delle quali ho anche visto. Giovanotti e adulti si fanno filmare mentre compiono le operazioni più svariate, solo per avere un’occasione per pronunciare la frase: “stai facendo il video? Bravo!”

La sorpresa per la povera signora dev’essere stata tremenda.

Chiunque abbia più di 15 anni (e la signora ne aveva giusto il doppio) sa che un qualunque contenuto messo sul web potenzialmente raggiunge il mondo intero. Per questo è stato inventato il web! Per far circolare le informazioni, non per nasconderle. Per il resto, esistono i pizzini.

Quello che non poteva prevedere, è che l’elemento di particolare interesse non sia l’atto in sé (quello che definisce, appunto, quel prodotto come un film porno); ma la frase di commento. Un filmino porno fatto solo per far dispetto all’ex fidanzato, o per un qualunque altro motivo ritenuto all’occasione valido (in ogni caso l’autrice era abbondantemente maggiorenne) si esaurisce rapidamente nel ristretto giro dei pochi interessati personalmente alla vicenda.

Ma una frase dall’involontaria e imprevista efficacia, capace di condensare in sé il senso profondo del 90% della comunicazione sul web, è un’invenzione clamorosa. Perché si fa un film porno (ci si scaraventa giù da un ponte, si viaggia all’incontrario sull’autostrada, si mangiano cento cannoli in una volta sola…)? Per farsi o farsi fare un filmino col telefonino! La realtà virtuale che filma sé stessa. Questa è una scoperta degna di un professorone di teoria della comunicazione.

La povera signora si è trovata proiettata in un ruolo che non era in grado di reggere. Ed è crollata.

Ci dispiace molto per lei. Non meritava di fare una così brutta fine per un motivo – soggettivamente parlando – così futile.

Ma ci dà anche una notizia importante. Le parole pesano più delle immagini.

La democrazia dei Funny Few

Non sono tra quelli che esultano per le figuracce che stanno facendo sprofondare nel ridicolo l’amministrazione romana.

raggiboschi

Non ho mai avuto nessuna simpatia per quella formazione politica, nata dai VaffaDay – cresciuta con aggressioni verbali di esasperata violenza verso chiunque non rientri nei difficilmente comprensibili parametri politico-morali del suo fondatore – strutturatasi in un enorme Freak Show di capi carismatici, agenzie private, guru informatici e clickbaiter, “direttori” nominati non si sa da chi, blog di assatanati urlatori.

Tuttavia ogni conferma del peggio è una stilettata. Scoprire che il partito creato dall’“uomo nuovo che farà fuori la vecchia politica e i vecchi politici” (categoria, questa, degli “uomini nuovi”, quanto mai inflazionata in Italia) è del tutto incapace di costruire una struttura amministrativa dotata di un minimo di credibilità – questa, per quanto prevedibile e prevedibilissima conclusione, è non di meno deprimente.

E non è minore delusione dover riconoscere che la massima idiota “tutti uguali” è purtuttavia l’unica efficace descrizione del mondo idiota in cui viviamo.


Il più elementare buon senso ci dice che di fronte ai problemi ci possono essere solo due atteggiamenti. Uno, cercare di comprendere i problemi e affrontarli alla radice. Due, cercare delle scorciatoie. La via difficile, che espone al rischio di pesanti incomprensioni e critiche. La via facile, che assicura, almeno per  un certo tempo, l’applauso convinto dei cretini – ed anche di parecchi, che uno non avrebbe mai classificato fra i cretini.

Oggi viviamo (non solo in Italia, ma in Italia con caratteri di gravità, pervasività, e, ammettiamolo, comicità, tutti speciali), oggi viviamo una gravissima crisi della democrazia, e una gravissima crisi dello strumento ineliminabile della democrazia, i partiti.

No starò qui a dire come si potrebbe cercare una soluzione a questa crisi. Non lo dico, primo perché è abbastanza evidente che non lo so neanch’io, secondo, perché anche se lo sapessi, non servirebbe a niente scriverlo qui.

Mi sembra però evidentissimo che nessuno cerca una soluzione alla crisi; tutti cercano delle scorciatoie.

È una scorciatoia l’esasperata personalizzazione della politica, la ricerca dell’“uomo nuovo che farà fuori la vecchia politica e i vecchi politici”, ricerca che, per nostra disgrazia, arriva sempre ad uno stesso esito: da una generazione buona, di “uomini nuovi” ne abbiamo avuti a bizzeffe, alcuni più fortunati, altri meno, tutti comunque destinati a passare, presto o tardi, nella categoria degli “uomini vecchi” che il successivo “uomo nuovo” prometterà di spazzar via. E questo, a partire dal primo prototipo di “uomo nuovo”, quel “Ghino di Tacco”, all’anagrafe Benedetto Craxi, che per quasi un decennio, con quel suo partito del 10%, fu il vero dominatore della scena italiana, fino ad una drammatica uscita di scena – uscita di scena che determinò con lui la scomparsa di un vecchio partito dalla storia gloriosa.

È una scorciatoia l’idea che, con un sistema politico frammentato, con le trombe del giudizio universale che proclamano “tradimento! inciucio!” ogni volta che si parla di possibilità di un accordo tra le forze politiche, la soluzione sia istituzionalizzare le minoranze, trasformando per legge il 29% in un bel 54% – uno vince, signore e signori, e tutti gli altri perdono! E poiché non c’è limite al peggio, un giorno forse ci diranno che è normale che un 19%, magari un 9% si possano amplificare ad un bel 54% garante della “governabilità”. La mancanza di consenso come legittimazione del potere, o, con slogan vagamente orwelliano, “la debolezza è forza”.

È una scorciatoia trita e logora l’appello alla democrazia diretta, alla “gente”, quella gente di cui però si coglie una rappresentazione caricaturale, il popolo dei social e dei commentatori di quotidiani on-line ecc., con i loro giudizi grotteschi, le loro faziosità ottuse, il loro linguaggio sgangherato e sgrammaticato che conosce soltanto il lessico dell’insulto e del turpiloquio. Quello, insomma che una volta si chiamava il “popolo del Bar Sport”, che oggi si è webbizzato, e assedia con il suo assordante vociare quelli che si terrebbero volentieri alla larga dal Bar Sport.

A Roma, uno degli ultimi politici rispettabili che c’erano rimasti è entrato in rotta di collisione col suo Capo (l’“uomo nuovo” del PD), il quale l’ha bellamente scaricato, additandolo al sadismo sanguinario del Popolo del Colosseo. I 5* hanno subito abboccato all’amo, non si sono lasciati sfuggire l’occasione di linciare davanti alla folla plaudente un uomo in evidente difficoltà (la collaborazione di Casa Pound al linciaggio è un piccolo dettaglio in un quadro già di per sé  ripugnante), di lanciare l’assalto al Palazzo che tutto il mondo conosce per la statua di Marco Aurelio e per la piazza disegnata da Michelangelo.

Il Comune di Roma dovrebbe essere (e non è detto che non continui ad essere) il passo decisivo per la scalata ad un altro palazzo romano. Forse ci arriveranno, forse no, in ogni caso, se il buon giorno si vede dal mattino, avremo di che piangere.

Altro che comici.

La riforma della Costituzione spiegata da Eraclito

È venuto a trovarmi un mio vecchio amico, il filosofo Eraclito.

È un filosofo greco della vecchia scuola, cresciuto al sole della Ionia.

In realtà “filosofo” non so se è il termine giusto, lui non si è mai occupato di grandi sistemi di pensiero. La sua “filosofia” è fatta di frasette strane, apparentemente insignificanti, un po’ misteriose, che però sotto sotto lasciano scorgere un grande buon senso.

Stavamo parlando del più e del meno, ad un certo punto dice:

— Sono andato a nuotare nel fiume. Ma l’acqua non era quella di una volta. —

— Stai attento, nei fiumi succedono sempre disgrazie, sembra una cosa da nulla, lo so che tu sei un bravo nuotatore, ma ci sono i mulinelli, le correnti… —

— Sì sì, ma l’acqua non era quella di una volta… —

— Eh sì, l’inquinamento… —

— No no, non è quello, l’acqua scorre… —

— Certo, scorre perché è un fiume, se no sarebbe un lago… — Ma non mi dava retta, continuava a bofonchiare la stessa frase.

Per cercare di toglierlo da quest’idea fissa, ho cercato di cambiare argomento.

So che non avrei dovuto, a lui queste cose non interessano, ma è il tema del giorno, ad un certo punto mi sono messo a parlare della riforma di Renzi, Italicum e Costituzione. Mi sono accalorato un po’ troppo, ho parlato di quest’enorme pasticcio, norme confuse, disordinate, a volte contraddittorie, probabilmente inapplicabili. Un testo, anche linguisticamente, scritto con i piedi.

Lui è stato ad ascoltarmi attentamente, poi ha detto: — L’acqua scorre… —

Aiuto, è di nuovo fuori, ho pensato. Ma lui ha continuato a parlare.

— Vedi, mi hai parlato delle elezioni politiche del 2013, di quel lunedì di febbraio quando Bersani ha detto “Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto”… È vero? —

— Certo — ho risposto, stupito che avesse seguito questi discorsi che per lui devono essere insignificanti.

— Poi alle Europee, quando Renzi ha battuto Grillo per 40 a 20… —

— Proprio così! —

— Vedi, il fiume scorre. Non lo puoi fermare, non lo puoi far tornare indietro… —

Ci risiamo, ho pensato, ma non ho detto niente.

— Invece è quello che vorrebbe fare Renzi. Far tornare indietro il fiume. Perché questo è il suo pensiero. Se nel 2013 invece del Porcellum ci fosse stato l’ItalicumSe invece del Senato della Repubblica ci fosse stato il Senato dei consiglieri regionali… Se ci fosse stato il ballottaggio, e al ballottaggio fosse andata come alle Europee del 2014… e soprattutto se al posto di Bersani ci fosse stato Renzi… Renzi avrebbe potuto dire: Abbiamo vinto! Ma non è così! —

— Non è così — ho gridato. — Non puoi far tornare indietro il fiume! Non ti bagnerai due volte nelle stesse acque! Non voterai due volte alle stesse elezioni! —

— Ecco! Hai capito! —

Avevo capito. Questo è il senso delle riforme di Renzi. Per capirle, non dobbiamo guardare avanti, pensare a quali potranno essere le conseguenze in futuro. Dobbiamo guardare indietro, ad un passato che non tornerà mai più, a elezioni perdute che non saranno mai più rivinte. Allora tutto torna, tutto ha un senso, perfino gli arzigogoli di Sua Mediocrità il Ministro delle Riforme.

Un passato che non sarà mai più il nostro futuro. Questa è la prospettiva di quella Riforma.

Il resto della serata è trascorso in grande serenità, da vecchi amici. Gli ho fatto assaggiare il Freisa della nostra Cantina, una scelta di formaggi locali.

— Non mangerai un’altra volta una robiola come questa! — gli ho detto.

— Certo che no! —

Tu non sei Jorge Luis Borges

Il tema delle false attribuzioni letterarie sembra essere infinito.

Dopo la falsa poesia di Hemingway, un personaggio italiano piuttosto noto da noi e all’estero pare che abbia declamato questa poesiola, in uno spagnolo piuttosto maccheronico, di cui si sa solo una cosa: non è di Borges.

Poema a la amistad

No puedo darte soluciones para todos los problemas de la vida,
ni tengo respuestas para tus dudas o temores,
pero puedo escucharte y compartirlo contigo.
No puedo cambiar tu pasado ni tu futuro.
Pero cuando me necesites estaré junto a ti.
No puedo evitar que tropieces.
Solamente puedo ofrecerte mi mano para que te sujetes y no caigas.
Tus alegrías, tus triunfos y tus éxitos no son míos.
Pero disfruto sinceramente cuando te veo feliz.
No juzgo las decisiones que tomas en la vida.
Me limito a apoyarte, a estimularte y a ayudarte si me lo pides.
No puedo trazarte limites dentro de los cuales debes actuar,
pero si te ofrezco el espacio necesario para crecer.
No puedo evitar tus sufrimientos cuando alguna pena te parta el corazón,
pero puedo llorar contigo y recoger los pedazos para armarlo de nuevo.
No puedo decirte quien eres ni quien deberías ser.
Solamente puedo quererte como eres y ser tu amigo.
En estos días pensé en mis amigos y amigas,
entre ellos, apareciste tu.
No estabas arriba, ni abajo ni en medio.
No encabezabas ni concluías la lista.
No eras el numero uno ni el numero final.
Y tampoco tengo la pretensión de ser el primero,
el segundo o el tercero de tu lista.
Basta que me quieras como amigo.

Del voto secondo coscienza

firma

In questi giorni si fa un gran parlare di quei partiti che lasciano libertà di voto “secondo coscienza”, ed un gran malparlare, perché se in un partito si vota “secondo coscienza” vuol dire che quel partito “si spacca”.

Io sono fatto all’antica, e vorrei che tutti i voti fossero “secondo coscienza” e non secondo gli ordini del Mister. S’intende, vi sono molte materie in cui prevalgono considerazioni pratiche, e la “coscienza” c’entra poco, e quindi è bene che si segua un certo progetto con un po’ di coerenza; ma per le grosse questioni, se il parlamentare non sa votare “secondo coscienza”, meglio che cambi mestiere.

Queste considerazioni non sono più attuali, come non è più attuale la nostra Costituzione. Secondo quel testo, ogni parlamentare “rappresenta la Nazione”, e poiché “tante teste tante idee”, nella Nazione c’è un’infinità di scelte, di posizioni e di sfumature, e poiché il Parlamento rappresenta la Nazione, ogni parlamentare deve poter esprimere “senza vincolo di mandato” la sua personale interpretazione di quell’arcobaleno di posizioni.

Si sta ora passando dalla democrazia rappresentativa ad una democrazia plebiscitaria, in cui sono possibili solo due idee: c’è un Capo, un Mister, e o si è pro, o si è contro. Quindi c’è “uno che vince”, e gli altri perdono (preferibilmente la gara si riduce a due, come nelle finali dei tornei sportivi: “uno che vince, l’altro che perde”, e nei casi dubbi si passa al secondo turno dei rigori). Poi ognuno dei Mister ha un suo pacchetto di voti, il pacchetto di voti del Mister che ha vinto sa in partenza di essere in maggioranza, il/i pacchetto/pacchetti dei voti di chi ha perso sa in partenza di essere in minoranza.

È un sistema spiccio, solamente non so spiegarmi perché per ottenere questo risultato si debbano stipendiare lautamente parecchie centinaia di marionette, che stanno lì solo per votare a comando, e guai a chi “gufa”, perché così facendo “spacca” il partito.

Ma sono tante le cose che non capisco.

Essere tedeschi a Istanbul

L’altro giorno su Facebook qualcuno si è chiesto perché la strage di turisti ad Istambul (12 gennaio 2015) non ha suscitato da noi nessuna particolare reazione.

Niente “siamo tutti …” boh, che cosa? Istanbuliti? Istanbulesi?

Io ho risposto: perché i morti sono in massima parte tedeschi, e i tedeschi sono antipatici a tutti.

Per questa mia affermazione sono stato pesantemente ripreso.

Ma chi mi ha attaccato non mi sembra che abbia offerto nessun’altra spiegazione.

Allora io insisto.


Il mondo è in fiamme. Una mostruosa creazione politico-militare a due passi da casa nostra sta cercando di ergersi a Stato, uno Stato teocratico e intollerante, e ha mosso guerra in primo luogo a tutti cittadini di quella regione, ma soprattutto ai valori di laicità, umanità e tolleranza che sono il vanto della storia europea.

Contro questo attacco, le istituzione europee, ma anche le forze politiche, la società civile e la cultura mostrano tutta la loro impotenza.

La costruzione di un’Europa veramente unita dovrebbe essere il vanto del XXI secolo, un passo avanti nella storia capace di dare la sua impronta a tutta la vita del resto del mondo.

Ma l’Europa in prima persona offre di sé uno spettacolo veramente degradante.

È evidente a tutti che l’Europa non ha una politica estera, e questo si deve imputare non solo all’inadeguatezza delle persone che di questo dovrebbero occuparsi, ma anche agli effetti di un disorientamento culturale e sociale che è sfociato in una vera e propria campagna di denigrazione verso tutto ciò che è europeo.

In quest’Europa la Germania non è solo la più grande realtà economica, dovrebbe anche essere il modello di quello che potrebbe diventare l’Europa se solo riconoscesse sé stessa. Uno stato sociale invidiabile, una amministrazione efficiente, un ordine che nasce da un diffuso senso civico e non dalla repressione. In Germania, caso ormai unico, i due più grandi partiti storici sono capaci di collaborare senza insultarsi, senza accusarsi reciprocamente di tutto quello che non va, senza che elettori e giornaletti d’ogni conformismo strillino all’“inciucio” e al “tradimento”.

Su questa Germania e sulla personalità che la guida il nostro politico più navigato ha espresso già da qualche anno un giudizio chiaro: “culona inchiavabile”; e questo Verbo è stato fatto proprio dalla folla di nullità a due gambe che da noi ha preso il posto di una classe politica.

Al di fuori della Germania, l’Europa non riesce a dare altro spettacolo di una rumorosa rissa da pollaio. Alcuni dei più grandi leader non propongono al popolo dei loro elettori altra prospettiva che non sia quella di tirare a campare all’infinito accumulando debiti su debiti, e molti di loro vantano in tutta serietà di voler riportare tutto il continente indietro di un’intera epoca storica, alla folla di bandiere, bandierine e banderuole nazionali, macro- e micro-regionali e di paese e di borgata: l’Inghilterra regina dei mari e Napoli borbonica regina della pizza, la Scozia regina dei gonnellini e la Grecia regina dei debiti.

Tutti si odiano, ma hanno un’unica idea chiara, declinata nelle molteplici lingue della Babele continentale: la Merkel è una culona nazista.


In questa grande cagnara una bomba esplode a Istanbul.

La Turchia è una delle porte dell’Inferno, una delle chiavi principali dell’attuale crisi, ma:

  1. la Turchia mostra tali e quali tutte le debolezze e gli squallori della politica europea; è stato rieletto a grande maggioranza alla massima carica un politico meschino e mediocre, che pensa solo a ottenere vantaggi a breve termine, ma è ossessionato da ridicole ambizioni (resuscitare il Sultanato già dominatore dell’Islam) e rancori atavici (l’odio verso il popolo curdo);
  2. l’Europa verso la Turchia non è riuscita a concepire altra idea se non quella di allungarle una qualche mancia di un due o tre miliardi di euro per non si capisce bene quale scopo.

Allora quella bomba ad Istanbul, quella strage di turisti tedeschi, ha mostrato tutta la debolezza di un’Europa che in questi ultimi anni non è riuscita a formulare altra idea se non questa: i tedeschi sono sommamente antipatici a tutti.

Se qualcuno ha un’altra idea, si faccia avanti.

Storia di un articolo di giornale, ovvero l’utopia del colonialismo caritatevole

Il documento di cui voglio parlare è citato nella biografia di un missionario francese, Monsignor André Jarosseau (1858-1941), un cappuccino che fu il secondo successore di Guglielmo Massaja (1809-1889) nella carica di Vicario Apostolico dei Galla.

[Trovate il testo completo → qui; per gli eventi di cui sto parlando, si veda in particolare il → Cap. XV.]

La premessa indispensabile, che ora non posso approfondire, è che le missioni cattoliche nel Corno d’Africa nel XIX secolo furono avviate da italiani: i lazzaristi Giuseppe Sapeto e Giustino de Jacobis, il cappuccino Massaja. Ma alla fine del secolo, sia nel vicariato apostolico d’Abissinia (di fatto: il Tigrai), sia nel Vicariato Apostolico dei Galla, con sede ad Harar, troviamo missionari francesi.

Questo naturalmente era un enorme problema, poiché dal punto di vista del colonialismo europeo i missionari rappresentavano l’avanguardia della penetrazione nelle regioni africane, ed era quindi intollerabile che un territorio ritenuto di interesse per una potenza europea avesse missionari di un’altra nazione. Per questo, nel 1894 si tolse il Tigrai sotto controllo italiano alla missione lazzarista francese e si formò la Prefettura d’Eritrea affidata a cappuccini italiani; e nel 1913 dietro le insistenze sia dei Missionari della Consolata sia del governo italiano si decise di ritagliare dal Vicariato di Harar la Prefettura del Kaffa, affidata al consolatino Gaudenzio Barlassina. Per anticipare la conclusione della storia, nel 1937, immediatamente dopo la conquista, fu completamente riorganizzata la struttura missionaria dell’Etiopia: il vicariato d’Abissinia fu trasformato in Archieparchia di Addis Abeba, e i lazzaristi francesi sostituiti dai cappuccini italiani guidati da Giovanni Maria Castellani; il Vicariato Apostolico dei Galla, ridotto di dimensioni e rinominato Vicariato Apostolico di Harar, fu tolto ai cappuccini francesi di Jarosseau e affidato ai cappuccini italiani sotto la guida di Leone Ossola.

[Sul tema del rapporto fra missioni e colonialismo si leggono frasi drammatiche nell’enciclica → Maximum Illud di Benedetto XV, 1919].

Ma torniamo al nostro Andé Jarosseau.

Come il suo predecessore Taurin Cahagne, e come lo stesso Massaja, Jarosseau aveva eccellenti rapporti con importanti membri dell’aristocrazia scioana. Il principale collaboratore di Menelik, Ras Makonnen, prima di partire per la battaglia di Adua gli aveva raccomandato il figlio Tafari, pregandolo di curare la sua educazione. Jarosseau aveva affidato il fanciullo alle cure di un prete cattolico indigeno. Così il futuro imperatore d’Etiopia crebbe in strettissimi rapporti con la missione cattolica, ovviamente senza staccarsi dalla sua chiesa nazionale, cosa impossibile per una personalità del suo rango. Succeduto al padre, il giovane Ras Tafari Makonnen divenne coreggente accanto a Zauditù, figlia di Menelik, e alla morte di questa, nel 1930, Imperatore d’Etiopia col nome di Hailé Selassié (“Potenza della Trinità”).

Gravi minacce si addensavano però sul trono. L’Italia si mostrava sempre più aggressiva, e l’Imperatore si rese conto ben presto di essere solo: nessuno era disposto ad inimicarsi il Duce al culmine della sua fortuna, le altre due potenze presenti nella regione, la Francia e l’Inghilterra, e la Società delle Nazioni, non sarebbero andate al di là di una solidarietà di facciata.

Ma da alcuni anni in Europa esisteva un nuovo Stato, lo Stato della Città del Vaticano: uno stato microscopico, ma con un grande prestigio ed una diplomazia molto attiva. Hailé Selassié tentò un’ultima disperata impresa: chiese al suo vecchio amico Jarosseau di farsi mediatore per stabilire con il Vaticano rapporti diplomatici al più alto livello, uno scambio di ambasciatori.

Il vecchio missionario si mise subito all’opera, scrisse ai suoi superiori, al Card. Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, ricevendo risposte incoraggianti. Ma il 25 aprile 1935 arrivava dall’Imperatore una lettera desolata, a cui era accluso un ritaglio di giornale. Con grande delicatezza, Hailé Selassié parlava di “gravi difficoltà”, che facevano temere un cattivo esito delle trattative.

Quel ritaglio di giornale, o per meglio dire di agenzia di stampa, riporta alcune frasi di un articolo comparso poche settimane prima sull’Osservatore Romano. Quest’articolo, non firmato, semplicemente siglato C., si esprime in termini molto generali, come se fosse un una semplice nota culturale, e non cita mai né l’Etiopia né l’Italia. Ma il senso è ugualmente chiaro. L’autore definisce la colonizzazione

… un’opera di immensa solidarietà umana, fatta di pazienza tenace, profonda volontà e tenace amore … Nessun popolo, nessuna razza ha il diritto di rimanere al di fuori del movimento della vita collettiva e solidale dei popoli. Le ricchezze materiali offerte dalla terra non possono rimanere abbandonate o inerti, e le persone che detengono queste ricchezze, se non sono in grado di gestirle, devono lasciarsi aiutare e guidare. I colonizzatori di oggi, preparati al loro compito in scuole speciali, considerano la colonizzazione come una collaborazione fra le razze e non il brutale sfruttamento di una razza da parte di un’altra. L’indigeno sente i benefici di una colonizzazione così intesa e si mostra in generale soddisfatto. La Chiesa ha sempre sostenuto e incoraggiato una tale opera con un’adesione piena e protettiva. In sintesi, la Chiesa ritiene che il problema della colonizzazione sia principalmente d’ordine morale, e che non possa essere risolto mediante l’impiego della sola forza.

[Ho ritradotto il riassunto dell’articolo come riportato nella biografia. L’articolo originale, intitolato L’idea colonizzatrice, del 24 febbraio 1935, si può leggere → qui]

Naturalmente a quest’articolo seguono le precisazioni e le smentite, lo stesso Card. Pacelli assicura che non è intenzione della Chiesa appoggiare una brutale guerra di conquista.

Mais rien n’y fait. Le mot de colonisation demeure, comme une flèche fichée au cœur abyssin… Le projet d’une représentation officielle de l’Abyssinie au Vatican restera sans suite”.
[Ma non c’è niente da fare. La parola colonizzazione rimane, come una freccia piantata nel cuore abissino… Il progetto di una rappresentanza ufficiale dell’Abissinia presso il Vaticano resterà senza seguito].

Il 2 ottobre è la guerra.


Poiché nella biografia del Jarosseau non sono indicati con precisione data e titolo dell’articolo, ho dovuto sfogliare attentamente parecchi numeri dell’Osservatore Romano, dalla fine di Aprile 1935 al febbraio. Certo, è un’epoca terribile. Il giornale riporta informazioni molto puntuali di politica estera; si dà grande risalto alle minacce che il nazismo da poco al potere rappresenta per la libertà d’azione della chiesa cattolica in Germania. Anche le notizie sugli altri fronti non sono rassicuranti. Possiamo quindi capire che la diplomazia vaticana desideri mantenere buoni rapporti con lo stato italiano, non più visto come un nemico laicista ma come un baluardo della Chiesa in un mondo sempre più tempestoso. Tanto più che l’esaltazione patriottica e guerresca sembra circondata da un grande consenso. Quasi ogni settimana viene riferita la partenza di navigli con armati e materiali verso i porti dell’Eritrea e della Somalia, salutati da folle festanti che si accalcano al porto.

Non credo però che siano sufficienti questi motivi di opportunità a giustificare una presa di posizione tanto più clamorosa, in quanto presentata come una visione generale dei rapporti fra paesi europei e mondo coloniale.

Vi è sicuramente una base ideologica condivisa, nell’idea che i popoli arretrati debbano accettare non solo una partecipazione allo sviluppo, ma una guida paternalistica forte, sia pure accettata docilmente – e se i popoli arretrati non l’accettano? l’ipotesi non sembra neanche presa in considerazione.

Un missionario molto attivo sul campo, il → Card. Giovanni Cagliero, da poco scomparso, a proposito di un’area che non rientrava nelle mire espansionistiche dell’Italia, il Sud America, si era espresso in toni entusiastici sulle possibilità di sviluppo economico dell’immensa Patagonia: mandrie di bestiame, greggi di pecore, grandi fattorie, oro, petrolio! la brutalità dell’occupazione di quelle terre da parte del governo argentino non sembrava un prezzo troppo elevato, in vista dei vantaggi prospettati per tutti, ed ai “selvaggi” non restava altra scelta che accettare con cristiana rassegnazione il posticino loro riservato nelle riserve, e mandar i figli e le figlie ad imparare l’ortografia e il ricamo nelle scuole salesiane.