Storia di un articolo di giornale, ovvero l’utopia del colonialismo caritatevole

Il documento di cui voglio parlare è citato nella biografia di un missionario francese, Monsignor André Jarosseau (1858-1941), un cappuccino che fu il secondo successore di Guglielmo Massaja (1809-1889) nella carica di Vicario Apostolico dei Galla.

[Trovate il testo completo → qui; per gli eventi di cui sto parlando, si veda in particolare il → Cap. XV.]

La premessa indispensabile, che ora non posso approfondire, è che le missioni cattoliche nel Corno d’Africa nel XIX secolo furono avviate da italiani: i lazzaristi Giuseppe Sapeto e Giustino de Jacobis, il cappuccino Massaja. Ma alla fine del secolo, sia nel vicariato apostolico d’Abissinia (di fatto: il Tigrai), sia nel Vicariato Apostolico dei Galla, con sede ad Harar, troviamo missionari francesi.

Questo naturalmente era un enorme problema, poiché dal punto di vista del colonialismo europeo i missionari rappresentavano l’avanguardia della penetrazione nelle regioni africane, ed era quindi intollerabile che un territorio ritenuto di interesse per una potenza europea avesse missionari di un’altra nazione. Per questo, nel 1894 si tolse il Tigrai sotto controllo italiano alla missione lazzarista francese e si formò la Prefettura d’Eritrea affidata a cappuccini italiani; e nel 1913 dietro le insistenze sia dei Missionari della Consolata sia del governo italiano si decise di ritagliare dal Vicariato di Harar la Prefettura del Kaffa, affidata al consolatino Gaudenzio Barlassina. Per anticipare la conclusione della storia, nel 1937, immediatamente dopo la conquista, fu completamente riorganizzata la struttura missionaria dell’Etiopia: il vicariato d’Abissinia fu trasformato in Archieparchia di Addis Abeba, e i lazzaristi francesi sostituiti dai cappuccini italiani guidati da Giovanni Maria Castellani; il Vicariato Apostolico dei Galla, ridotto di dimensioni e rinominato Vicariato Apostolico di Harar, fu tolto ai cappuccini francesi di Jarosseau e affidato ai cappuccini italiani sotto la guida di Leone Ossola.

[Sul tema del rapporto fra missioni e colonialismo si leggono frasi drammatiche nell’enciclica → Maximum Illud di Benedetto XV, 1919].

Ma torniamo al nostro Andé Jarosseau.

Come il suo predecessore Taurin Cahagne, e come lo stesso Massaja, Jarosseau aveva eccellenti rapporti con importanti membri dell’aristocrazia scioana. Il principale collaboratore di Menelik, Ras Makonnen, prima di partire per la battaglia di Adua gli aveva raccomandato il figlio Tafari, pregandolo di curare la sua educazione. Jarosseau aveva affidato il fanciullo alle cure di un prete cattolico indigeno. Così il futuro imperatore d’Etiopia crebbe in strettissimi rapporti con la missione cattolica, ovviamente senza staccarsi dalla sua chiesa nazionale, cosa impossibile per una personalità del suo rango. Succeduto al padre, il giovane Ras Tafari Makonnen divenne coreggente accanto a Zauditù, figlia di Menelik, e alla morte di questa, nel 1930, Imperatore d’Etiopia col nome di Hailé Selassié (“Potenza della Trinità”).

Gravi minacce si addensavano però sul trono. L’Italia si mostrava sempre più aggressiva, e l’Imperatore si rese conto ben presto di essere solo: nessuno era disposto ad inimicarsi il Duce al culmine della sua fortuna, le altre due potenze presenti nella regione, la Francia e l’Inghilterra, e la Società delle Nazioni, non sarebbero andate al di là di una solidarietà di facciata.

Ma da alcuni anni in Europa esisteva un nuovo Stato, lo Stato della Città del Vaticano: uno stato microscopico, ma con un grande prestigio ed una diplomazia molto attiva. Hailé Selassié tentò un’ultima disperata impresa: chiese al suo vecchio amico Jarosseau di farsi mediatore per stabilire con il Vaticano rapporti diplomatici al più alto livello, uno scambio di ambasciatori.

Il vecchio missionario si mise subito all’opera, scrisse ai suoi superiori, al Card. Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, ricevendo risposte incoraggianti. Ma il 25 aprile 1935 arrivava dall’Imperatore una lettera desolata, a cui era accluso un ritaglio di giornale. Con grande delicatezza, Hailé Selassié parlava di “gravi difficoltà”, che facevano temere un cattivo esito delle trattative.

Quel ritaglio di giornale, o per meglio dire di agenzia di stampa, riporta alcune frasi di un articolo comparso poche settimane prima sull’Osservatore Romano. Quest’articolo, non firmato, semplicemente siglato C., si esprime in termini molto generali, come se fosse un una semplice nota culturale, e non cita mai né l’Etiopia né l’Italia. Ma il senso è ugualmente chiaro. L’autore definisce la colonizzazione

… un’opera di immensa solidarietà umana, fatta di pazienza tenace, profonda volontà e tenace amore … Nessun popolo, nessuna razza ha il diritto di rimanere al di fuori del movimento della vita collettiva e solidale dei popoli. Le ricchezze materiali offerte dalla terra non possono rimanere abbandonate o inerti, e le persone che detengono queste ricchezze, se non sono in grado di gestirle, devono lasciarsi aiutare e guidare. I colonizzatori di oggi, preparati al loro compito in scuole speciali, considerano la colonizzazione come una collaborazione fra le razze e non il brutale sfruttamento di una razza da parte di un’altra. L’indigeno sente i benefici di una colonizzazione così intesa e si mostra in generale soddisfatto. La Chiesa ha sempre sostenuto e incoraggiato una tale opera con un’adesione piena e protettiva. In sintesi, la Chiesa ritiene che il problema della colonizzazione sia principalmente d’ordine morale, e che non possa essere risolto mediante l’impiego della sola forza.

[Ho ritradotto il riassunto dell’articolo come riportato nella biografia. L’articolo originale, intitolato L’idea colonizzatrice, del 24 febbraio 1935, si può leggere → qui]

Naturalmente a quest’articolo seguono le precisazioni e le smentite, lo stesso Card. Pacelli assicura che non è intenzione della Chiesa appoggiare una brutale guerra di conquista.

Mais rien n’y fait. Le mot de colonisation demeure, comme une flèche fichée au cœur abyssin… Le projet d’une représentation officielle de l’Abyssinie au Vatican restera sans suite”.
[Ma non c’è niente da fare. La parola colonizzazione rimane, come una freccia piantata nel cuore abissino… Il progetto di una rappresentanza ufficiale dell’Abissinia presso il Vaticano resterà senza seguito].

Il 2 ottobre è la guerra.


Poiché nella biografia del Jarosseau non sono indicati con precisione data e titolo dell’articolo, ho dovuto sfogliare attentamente parecchi numeri dell’Osservatore Romano, dalla fine di Aprile 1935 al febbraio. Certo, è un’epoca terribile. Il giornale riporta informazioni molto puntuali di politica estera; si dà grande risalto alle minacce che il nazismo da poco al potere rappresenta per la libertà d’azione della chiesa cattolica in Germania. Anche le notizie sugli altri fronti non sono rassicuranti. Possiamo quindi capire che la diplomazia vaticana desideri mantenere buoni rapporti con lo stato italiano, non più visto come un nemico laicista ma come un baluardo della Chiesa in un mondo sempre più tempestoso. Tanto più che l’esaltazione patriottica e guerresca sembra circondata da un grande consenso. Quasi ogni settimana viene riferita la partenza di navigli con armati e materiali verso i porti dell’Eritrea e della Somalia, salutati da folle festanti che si accalcano al porto.

Non credo però che siano sufficienti questi motivi di opportunità a giustificare una presa di posizione tanto più clamorosa, in quanto presentata come una visione generale dei rapporti fra paesi europei e mondo coloniale.

Vi è sicuramente una base ideologica condivisa, nell’idea che i popoli arretrati debbano accettare non solo una partecipazione allo sviluppo, ma una guida paternalistica forte, sia pure accettata docilmente – e se i popoli arretrati non l’accettano? l’ipotesi non sembra neanche presa in considerazione.

Un missionario molto attivo sul campo, il → Card. Giovanni Cagliero, da poco scomparso, a proposito di un’area che non rientrava nelle mire espansionistiche dell’Italia, il Sud America, si era espresso in toni entusiastici sulle possibilità di sviluppo economico dell’immensa Patagonia: mandrie di bestiame, greggi di pecore, grandi fattorie, oro, petrolio! la brutalità dell’occupazione di quelle terre da parte del governo argentino non sembrava un prezzo troppo elevato, in vista dei vantaggi prospettati per tutti, ed ai “selvaggi” non restava altra scelta che accettare con cristiana rassegnazione il posticino loro riservato nelle riserve, e mandar i figli e le figlie ad imparare l’ortografia e il ricamo nelle scuole salesiane.

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