Facciamoci sentire

Le vicende della Puglia e del Lazio vanno ben oltre la dimensione locale.

Che l’opposizione (del PD e delle altre forze) sia ormai drammaticamente inadeguata alla situazione incombente, è evidente. Mentre da destra si parla ormai apertamente di cancellare la parola “lavoro” addirittura dalla Carta costituzionale, si cincischia con “bozze di riforma” completamente subordinate alle parole d’ordine berlusconiane. La sinistra estrema sembra ormai ridotta al suicidio di misteriosi rituali ad uso esclusivamente interno.

Dopodomani ci sono le elezioni regionali, e si fanno carte false per ottenere l’appoggio di un partito minore, l’UDC, che onestamente ha dichiarato ai quattro venti il proprio progetto: a lungo termine, sostituire la Lega nell’alleanza di centrodestra; a breve termine, fare da ago della bilancia in modo da tesaurizzare qualche moneta di scambio qua e là.

Per trovare voci di vera opposizione bisogna affidarsi alla supplenza esercitata da un personaggio, Di Pietro, che ha dietro di sé una storia completamente diversa dalla sinistra come l’abbiamo conosciuta nel corso della nostra vita.

Il PD aveva proposto un metodo, le primarie, che non è soltanto un formalismo procedurale, ma poteva rappresentare una straordinaria prospettiva di rinnovamento del gruppo dirigente e della linea politica. Oggi le primarie devono essere imposte con la forza ad un partito che vorrebbe decidere le proprie candidature in base esclusivamente alle preferenze di Casini.

Il PD ha paura dei propri elettori, e affida le sue scelte ad un partito ed un personaggio che si è ingrassato durante l’alleanza con il Capo piduista.

La spiegazione di questa follia è una sola: il gruppo dirigente del PD sa di essere inadeguato, e si affida ad una disperata tattica di sopravvivenza.

È necessario che gli elettori, i militanti del centro-sinistra – quelli che non subordinano il loro pensiero all’appartenenza a questa o quella cordata, a questo o quel lideruccio nazionale o locale – facciano sentire la loro voce, dicano chiaramente che così non si va da nessuna parte, anzi, si va verso l’autodistruzione, verso un sistema putiniano di partito unico e di lavoratori schiavi.

È necessario un grande movimento di opinione da parte di quella “società civile” che negli ultimi quindici anni tutti hanno corteggiato, salvo poi fottersene al momento delle scelte politiche.

Ceci tuera cela
La conoscenza nell’età dell’Internet

In un episodio notissimo di Notre Dame de Paris, il perverso monaco Claude Frollo, indicando da una parte un libro a stampa, dall’altra la grande cattedrale, mormora enigmatico: “Ceci tuera cela” (Questo ucciderà quello).

Il turpe arcidiacono voleva dire che la vecchia sapienza simbolica, incarnata nel grande “libro di pietra”, sarebbe stata sostituita dalla nuova scienza razionalistica, impressa dai caratteri mobili. Naturalmente non voleva dire che le cattedrali sarebbero state distrutte, né che la gente avrebbe cessato di frequentarle. Ma che il rapporto della società con la conoscenza, e la natura stessa della conoscenza, avrebbero visto un profondo cambiamento…

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Trovata su un gnus grùpp

«È in atto una campagna d’odio contro di me, il fascismo e l’Italia»

(Benito Mussolini, discorso al Senato, 1932).

«Gli ebrei alimentano una campagna di odio internazionale contro il governo. Gli ebrei di tutto il mondo sappiano: questo governo non è sospeso nel vuoto, ma rappresenta il popolo tedesco. Chi lo attacca, offende la Germania»

(Adolf Hitler, programma nazionalsocialista, 1933).

da: news:it.arti.fotografia

Un paese sull’orlo della follia

Il Presidente della Camera è stato sorpreso mentre faceva alcune affermazioni che definire scottanti è poco.

Poiché si rendeva conto di quanto le sue parole fossero temerarie, si era limitato a sussurrarle a persona fidata, ma il segreto è stato violato con una vera operazione di spionaggio mediatico.

Che cosa ha dunque detto di tanto dirompente il Presidente della Camera? Nientemeno che questo:

  1. in Italia non c’è più la Monarchia
  2. chi vince le elezioni non è al di sopra delle leggi
  3. rosso di sera bel tempo si spera
  4. quando c’è la salute c’è tutto

La divulgazione di queste dichiarazioni, e altre del medesimo tenore, ha scatenato un putiferio nel mondo della politica e delle istituzioni. Dopo lunga discussione si è arrivati ad una conclusione, che pone alla questione un suggello logico stringente come un sillogismo: il Presidente della Camera è un comunista.

Parole, parole, parole

Per il messaggio precedente sono stato ripreso, anche con la testimonianza da linguisti illustri. Ohibò! “Stronzo!” si può dire! si può dirissimo! È nobile vocabolo longobardo (“escremento di cane di forma cilindrica” lo definisce il prof. Bonfante nel suo Latini e Germani in Italia).

Anche “cancro” è parola antichissima, “ti venga un cancro” è un’espressione forte, ma normalmente usata nel linguaggio corrente.

Quindi il Ministro La Russa ha fatto bene a dire a un tizio mai visto né conosciuto “Ed io spero che le venga un cancro…”!

Viviamo in un clima di violenza verbale senza precedenti. Io frequento abitualmente un gruppo di discussione,
it.istruzione.scuola, in cui alcuni tizi di destra imperversano con kilometrici messaggi, alternando sconclusionate lodi al Berlusca a tiritere di insulti ai non berlusconiani. È una specie di matra autoipnotico, in cui auguri di pronta ma dolorosa morte sono condimento indispensabile alle loro sputacchianti esternazioni. Oggi apro le gnùs, e uno di questi se ne esce con due messaggi. In uno estende l’augurio di tumore mortale a tutti i “komunisti” (e vi risparmio gli epiteti appiccicati a questo termine); nell’altro augura alle donne malmenate a Milano nel corso di una manifestazione femminista di essere, nientemeno! prontamente portate in caserma dai tutori dell’Ordine e stuprate per le vie brevi.

Due messaggi su due, il 100% della comunicazione, era di questo tenore.

Non venitemi a parlare di “linguaggio quotidiano”, di “non politicamente corretto”, di “trasgressione”… Siamo troppo vicini all’ex Jugoslavia per non sapere che dall’augurio di stupro allo stupro etnico, dall’augurio di morte alle fosse comuni, dalla trasgressione verbale alla macelleria etnica il passo è breve. Chi abitualmente augura la morte a destra e a manca protetto da un nick non troverà molto strano distribuire generosamente la morte ai vicini di casa protetto dalla divisa di una qualche improvvisata milizia.

Tremonti e il posto fisso

Una volta la distanza tra quello che il politico diceva, e quello che il politico faceva, era più o meno misurabile.

Il politico diceva: qui faremo un ponte. Dopo tre anni veniva fatto un progetto, dopo sei anni il progetto del ponte era affidato ad un diverso progettista, molto più caro del primo, dopo dieci anni il politico posava la prima pietra, nei quindici anni successivi il costo dell’opera raddoppiava ogni anno, dopo vent’anni il politico (o suo nipote) tagliava il nastro, quindi si scopriva che il ponte era inutile, o superato, o sbagliato, e ce ne voleva un altro.

Ma appunto, tutto ciò era verificabile, si poteva misurare lo scarto tra le parole e i fatti.

Oggi le parole sono una variabile perfettamente indipendente dai fatti. La Gelmini ha tenuto per sei mesi l’Italia a parlare di grembiulini. Naturalmente nessun ministro dell’Istruzione dell’Italia unita si è mai occupato di grembiulini, né mai se ne è occupata lei. Avrebbe potuto parlare del ginocchio della lavandaia, o dell’orchidea muscata delle Alpi: a conti fatti, sarebbe stata la stesa cosa. Ha parlato di grembiulini, e tutti lì a dire grembiulini sì grembiulini no. Poi s’è messa a parlarte di “merito”, e intanto faceva fuori i precari. Che c’entra il “merito” con i precari a spasso? Una bella sega di niente. Ma dài che la Gelmini vuole premiare il merito.

Tremonti che parla di lavoro fisso fa l’impressione del benzinaio del quartiere che parla della nazionale di calcio: una cosa di cui non si è mai occupato, né mai se ne occuperà. Un modo per riempire di parole il vuoto. Potrebbe parlare del buco dell’ozono, o della metrica haiku: agli effetti pratici, sarebbe la stessa cosa. Ma adesso tutti a discutere di Tremonti e del suo posto fisso.

Michelle Obama agli insegnanti

Insegnanti, siate leader (come Barack)
Michelle Obama
[La Stampa, 16/10/2009]

In questo periodo dell’anno a casa Obama c’è parecchio da fare. Come tanti genitori in tutto il Paese guardo divisa tra orgoglio e ansia le mie bambine che preparano lo zainetto, mi salutano con un bacio e si avviano a un nuovo anno scolastico, per diventare le donne forti e sicure che sono certa saranno. Ma quando le vedo rincasare, tutte eccitate per qualcosa che hanno imparato o per un nuovo incontro, ecco, mi ritrovo a pensare che la maggior parte delle persone che più influenzeranno le loro vite non saranno i compagni di gioco o i personaggi di un libro ma chi si trovano davanti in classe ogni giorno.

Ci ricordiamo tutti quale impressione profonda ci abbia lasciato un insegnante speciale, quello che non ci ha abbandonato alle nostre lacune, quello che ci ha incoraggiato e ha creduto in noi quando dubitavamo delle nostre capacità. Anche dopo decenni ricordiamo come ci faceva sentire e come ci ha cambiato la vita. È comprensibile quindi che gli studi dimostrino come il dato che influenza di più il rendimento degli studenti sia la capacità dei loro docenti.

E quando pensiamo a ciò che fa di un insegnante un ottimo insegnante – energia illimitata e altrettanto sconfinata pazienza, capacità di visione e capacità di lavorare per obiettivi, creatività per aiutarci a vedere il mondo in modo diverso e dedizione al compito di aiutarci a scoprire e sviluppare il nostro potenziale – bene, allora realizziamo che sono le qualità di un grande leader.

Oggi più che mai abbiamo bisogno proprio di questo tipo di leadership nelle nostre aule. Come ripete spesso il presidente, nell’economia globale del XXI secolo una buona educazione non è più soltanto una delle strade possibili: è l’unica strada possibile. E i buoni insegnanti non svolgono un ruolo chiave solo per il successo dei nostri ragazzi ma anche per il successo della nostra economia.

La realtà purtroppo è invece che anno dopo anno noi stiamo perdendo i nostri insegnanti di maggior esperienza. Più della metà dei nostri docenti è figlia del baby boom. Questo significa che nei prossimi quattro anni un terzo dei 3,2 milioni di docenti americani potrebbe andare in pensione. Nel 2014, fra cinque anni appena, il Dipartimento dell’educazione prevede che dovranno essere assunti un milione di nuovi docenti. E non si va incontro solo a una generica penuria di insegnanti, ma a una penuria là dove i buoni insegnanti sono più necessari: le scuole disagiate, povere di mezzi, dove le sfide sociali sono maggiori.

Ecco perché noi abbiamo bisogno di una nuova generazione di leader nelle nostre scuole. Abbiamo bisogno di uomini e donne appassionati e determinati che si dedichino alla missione di preparare i nostri studenti alle sfide del nuovo secolo. Abbiamo bisogno di università che raddoppino gli sforzi per formare gli insegnanti e trovino strade alternative per reclutarli. Dobbiamo incoraggiare i professionisti migliori a dedicare una parte delle loro carriere all’insegnamento. E trattare i docenti come i professionisti che sono, garantendo loro buoni stipendi e ottime opportunità di carriera.

E abbiamo anche bisogno di genitori che proseguano a casa l’operato dei professori e lo completino. Che sappiano porre limiti: all’occorrenza spegnere la tv e i videogiochi, vigilare sullo svolgimento dei compiti, rinforzando l’esempio e le lezioni della scuola. C’è tanto da fare e non sarà un compito facile. Ma sono fiduciosa: una nuova generazione di leader farà la differenza nelle vite degli studenti e nel futuro della nazione.


Gentile signora Obama,
sappia che qui, da questa parte della cattedra, si condividono i suoi sentimenti.

Se tutti noi siamo legati a questo lavoro, nonostante difficoltà vecchie e nuove, è proprio perché in esso sappiamo trovare momenti indimenticabili.

È vero che il lavoro dell’insegnante, come ogni lavoro, è fatto in gran parte di routine. C’è la banale routine didattica: insegnare cose un po’ fruste a ragazzi e ragazze spesso svagati, cercare di mantenere la disciplina in classi numerose e turbolente, dover affrontare la frustrazione di spiegazioni mille volte ripetute e mai comprese. C’è anche la routine burocratica, che negli ultimi anni non fa che aumentare, fino ad assumere aspetti esasperati ed un po’ vessatori, fino addirittura a sottrarre tempo all’insegnamento.

Ma ogni tanto capita il momento magico: quando fra insegnante ed allievi improvvisamente si sente una consonanza di interessi, quando in occhi finora sfuggenti si accende un lampo di curiosità e di interesse, quando un ragazzo finora in difficoltà scopre dentro di sé potenzialità che né lui né noi sospettavamo.

Certo, ci sono anche i lunghi momenti di frustrazione, il senso di fallimento di sforzi inutilmente ripetuti, l’impotenza a contrastare le sollecitazioni negative provenienti dall’ambiente o dai mezzi di comunicazione, l’abbandono da parte di giovani che sprecano un’occasione irripetibile. A tutto questo, ora, dobbiamo anche aggiungere le richieste insistenti di una scuola che dia solo poche nozioni “spendibili”, come si dice oggi, su un mercato del lavoro avaro di occasioni che non siano precarie e di basso livello.

Ma questo non ci ferma, perché, dopo tanti anni, il bilancio umano e professionale che abbiamo accumulato è largamente positivo.

Oggi alla scuola si vorrebbero imporre criteri di puro produttivismo, un’“efficienza” misurata sull’economia del soldo a costo di scelte al ribasso nella didattica, finalità meramente utilitarie. Noi rifiutiamo tutto questo, non perché ne abbiamo paura, ma perché non ci interessa, non è la nostra vocazione: se noi condividessimo quest’impostazione, faremmo un altro mestiere. Anche nelle scuole più vicine al mondo produttivo (io attualmente insegno in un Istituto Professionale Statale) il nostro obiettivo è comunicare in primo luogo l’etica del lavoro e la cultura della responsabilità: le abilità professionali vengono di conseguenza.

Non so se siamo dei leader: ci sforziamo di essere degli insegnanti.

Due ipotesi sulla valutazione degli insegnanti

Si continua a parlare di valutazione degli insegnanti.
Da qualche tempo circolano anticipazioni ministeriali su un “Organismo indipendente di valutazione”… del merito? No, ci siete cascati: “della performance”.
Di questo Organismo per ora non si sa nulla di concreto.

1. Prima ipotesi. Tranquilli.

Questa qui ci ha messo un anno intero a scrivere una circolare sul cinque in condotta.

Prima che le venga qualche ideuzza su com’è composto quest’Organismo, come saranno fatte le verifiche, in base a quali criteri ecc. siamo in tempo a vedere una nuova era glaciale.

2. Seconda ipotesi. Panico.

Un gruppo di avventurieri (tutti rigorosamente lombardi, s’intende) ha messo su in quattro e quattr’otto un’agenzia di ratting. Un signore brizzolato dalla parlantina brillante con la camicia azzurrina e la cravatta reggi-Mentol a righe gialle ha già deposto sulla scrivania di Stellina un corposo depilànt in carta pattinata, con tanto di titoli e sottotitoli in italo-anglo-campussese, foto fotoscioppate di studentini radiosi e studentine graziose, torte e bigné di Ex-Cèll… L’ha imbambolata di chiacchiere, e lei sta per firmare il contrattone miliardario.


Alla mia età sono fuori da questo gioco, ma se vi mancano più di dieci anni alla pensione, mettete il filo spinato attorno alle vostre scuole, disponete delle scolte alle finestre e sui tetti, armatevi di solidi bastoni chiodati, e se vedere passare un distinto signore brizzolato ecc., mi raccomando: prima menare e poi chiedere chi sei che cazzo vuoi.