Il fascismo e gli errori della sinistra

Una recensione di Galli della Loggia all’ultimo libro di Roberto Vivarelli, il terzo volume della Storia delle origini del fascismo, plaude ad un sano “revisionismo” nell’impterpretazione del fenomeno fascista.

L’idea centrale della sua ricostruzione […] è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall’altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore.
In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l’uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista.

Mi dispiace molto per l’illustre politologo, ma il “chi ha cominciato” come chiave di lettura della storia, è una cosa che fa ridere i polli – sempre ed in ogni caso, non solo nello stucchevole genere letterario del “visto da destra / visto da sinistra”.

Non sarò certo io quello che sottovaluta gli errori della sinistra.

La sinistra sa, o crede di sapere, che cosa vuole. Ma non sa come ottenerlo. La sinistra ha un testone pieno di idee, che la fanno barcollare sotto il peso dell’Utopia, e gambette gracili che non sanno bene dove andare. La storia della sinistra è un estenuante calvario tra compromissioni degradanti e impotenti estremismi, tra scissioni e accuse reciproce di tradimento. Io, che sono di sinistra ormai da quasi mezzo secolo, lo so benissimo.

Che l’ascesa del fascismo sia la conseguenza diretta del fallimento della rivoluzione rossa, non è certo una novità.

Ma ridurre il fascismo ad una semplice controrivoluzione conservatrice, significa sminuire l’importanza di quella che è sicuramente una delle grandi invenzioni del XX secolo.

Il fascismo vince la sua battaglia in seguito agli errori della sinistra, ma non è figlio degli errori della sinistra. Il fascismo ha alle spalle una lunga storia, che dobbiamo far iniziare almeno almeno alla vigilia della Grande Guerra, quando per la prima volta dietro le bandiere tricolori dell’Intervento si crea un blocco culturale, politico, ideologico e sociale capace di forzare la mano ad una larghissima maggioranza parlamentare contraria alla guerra: lo stesso blocco che sarà poi la base del fascismo. Ed è un blocco che ha come bersaglio non tanto il socialismo, ma lo stato liberale. La vecchia Fabbrica delle Chiacchiere, a cui si oppone la nuova Giovinezza dei Popoli.

Ed ancora più indietro, dobbiamo risalire a quel torbido modo che, negli ultimi decenni del XIX secolo, si agita in tutta Europa, all’ombra dell’ottimismo, del primo edonismo moderno e della fede nel Progresso.

L’età moderna si caratterizza da una parte come sviluppo delle nuove forze produttive, dall’altra come progressiva estensione dei principi di libertà individuale, di riconoscimento dei diritti del cittadino e del lavoratore, di tolleranza, di emancipazione dalla fame e dall’ignoranza. Nella seconda metà dell’800 sembra ovvio che insieme con il vecchio modo di vita debbano tramontare anche i vecchi sistemi politici, che il futuro sia del Parlamenti e dei grandi giornali, delle libere elezioni e della lotta all’analfabetismo, della circolazione delle idee e della critica dei vecchi sistemi dogmatici, del laicismo e della tolleranza; che i sistemi politici basati sul principio autoritario debbano essere sostituiti da nuovi, basati sull’equilibrio dei poteri.

C’è anche, in tutta Europa, lungo il corso di quasi un secolo, una forte opposizione a quest’evoluzione; si oppone la Chiesa Cattolica; si oppongono movimenti dell’estremismo piccolo-borghese che, proclamando il rifiuto dei principi dell’89, ad un certo punto trovano la bandiera unificante nell’antisemitismo; si oppone la cultura alla moda, antipopolare e antimoderna più per snobismo che per chiara scelta ideologica; si oppongono anche tendenze rivoluzionarie alla ricerca di una rigenerazione millenaristica del mondo. Ma queste forze rimangono in sordina, non trovano una base sociale maggioritaria. Molti affettano disgusto per la volgarità del mondo moderno; ma ben pochi sono disposti a rinunciare ai suoi vantaggi, in nome di Giovanna d’Arco o del potere temporale dei Papi.

La crisi traumatica, lo sappiamo bene, si ha con la Grande Guerra. Ed è Mussolini che trae dal Futurismo la chiave di lettura delle sue implicazioni politiche. Combattere la modernità in nome della conservazione, è una battaglia perdente. Si può combattere la modernità solo in nome della modernità. La modernità tecnologica può essere usata contro la modernità politica. La macchina è inscindibilmente legata alla società di massa; ma nella società di massa non è detto che l’individuo trovi sempre la sua liberazione; al contrario, può venire assorbito all’interno di una nuova struttura organica. Questo è il messaggio della nuova politica; una volta lanciato, saranno i conservatori a seguirlo, non il contrario.

Montati sui camion, con indosso una caricatura di divisa militare, gli squadristi si lanciano cantando contro il vecchio mondo in nome di una rivoluzione autoritaria e modernista; proclamano la supremazia dell’Azione sulla Mediazione, aspirano a costruire una società basata sulla Forza invece che sulla Parola. I tragici errori della sinistra danno all’uso allegro e disinvolto del manganello una giustificazione ed un seguito che i vecchi antidreyfusardi avevano cercato invano. Il cinico opportunismo di Mussolini ha facilmente ragione delle senili incertezze dello Stato liberale, ed il potere casca come una pera nelle mani del Fascio.

Il messaggio, una volta lanciato, ottiene subito grande risonanza internazionale. Era quello che tre generazioni di reazionari avevano cercato invano, e che finalmente si presentava di fronte ai loro occhi. “Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta”.

Il ventennio che segue alla I Guerra Mondiale è segnato dal pullulare in tutta Europa di movimenti di ispirazione fascista, ognuno con una sua caratterizzazione nazionale; in alcuni paesi vanno al potere, nella maggior parte degli altri sono un pesante elemento di condizionamento. Fino alla II Guerra Mondiale, che segnò la fine di tutto – che per poco non fu la fine del mondo intero.

Don Enrico Tazzoli e Padre Reginaldo Giuliani

L’accostamento di questi due preti, così diversi, è un caso interessante.

Don Enrico Tazzoli (1812-1852) è uno di quei “Martiri di Belfiore” il cui ricordo credo che sia completamente scomparso dai moderni libri di scuola. Professore del seminario arcivescovile di Mantova, si avvicinò al movimento mazziniano, e nel 1852 fu arrestato insieme ad altri venti membri dell’organizzazione clandestina. In quanto sacerdote, era sottratto alla giurisdizione austriaca; ma dietro le pressanti insistenze del governo, il vescovo Corti, dopo un’iniziale esitazione, con l’assenso di Pio IX lo ridusse allo stato laicale. In conseguenza di ciò, il Tazzoli fu impiccato il 7 decembre 1852 insieme con altri quattro congiurati. Le esecuzioni di quel giorno furono solo uno dei momenti di una lunga serie di azioni repressive condotte dal governo austriaco nel Lombardo Veneto nel decennio che precedette l’Unità d’Italia.

Il domenicano Reginaldo Giuliani (1887-1936) fu cappellano militare durante la Grande Guerra, e cappellano degli Arditi da quando quel corpo fu costituito nel 1917. Tornò con due medaglie di bronzo ed una medaglia d’argento al valor militare. Nel 1919 fu fra i primi a seguire D’Annunzio a Fiume, dove il suo entusiasmo creò non pochi imbarazzi alle autorità religiose, che alla fine gli ordinarono di lasciare la città. Accolse con entusiasmo l’ascesa del fascismo, anche se la notizia, riportata dall’Enciclopedia Treccani nel volume di aggiornamento del 1938, di una sua partecipazione alla Marcia su Roma, non è confermata dalle altre fonti che ho consultato. Nel 1935 si arruolò come cappellano delle Camicie Nere in partenza per l’Abissinia, e il 31 gennaio 1936 morì nella battaglia del Tembien presso il passo di Uarieu. Fu insignito di medaglia d’oro al valor militare.

Ho trovato il riferimento ai Martiri di Belfiore sia nelle sue Conferenze patriottiche (Torino 1936) sia nella biografia scritta da Lorenzo Tealdy, Eroe crociato (Roma-Torino 1936).

Naturalmente ci vuole un po’ di sforzo per riuscire a ricostruire il collegamento.

È necessaria una premessa. Negli ultimi anni ci siamo abituati ad una neo-destra che si presenta come fortemente critica, se non negatrice, del movimento risorgimentale. Nelle parrocchie è ritornata di moda la tesi ottocentesca di un Risorgimento manovrato ad una bieca Internazionale massonica, che avrebbe simulato una Rivoluzione Nazionale solo per dare addosso alla Chiesa Cattolica.

Non era questa la posizione del nostro Giuliani, per quanto la sua adesione alla volontà della Chiesa e del papa fosse ferrea almeno quanto quella ai destini del Fascio.

Secondo il Giuliani nella storia vi è un disegno provvidenziale, che crea una Gerarchia fra le nazioni. Al vertice di questa Gerarchia, c’è, manco a dirlo l’Italia. La Roma dei Cesari, e la Roma dei Papi sono, per consiglio divino, eternamente, il faro del mondo. È vero che tra potere civile e potere religioso c’è stata una certa incomprensione, ma vabbe’. In ogni caso, il Risorgimento è il processo storico che ha riportato l’Italia al suo giusto posto nel mondo. Naturalmente, non tutto il Risorgimento: il Risorgimento cattolico, s’intende: Manzoni, poeta dell’Italia Unita, Gioberti, filosofo del Primato degli Italiani, e poi Cantù, Balbo, Tommaseo sono gli autori a cui il Giuliani fa riferimento.

E come ogni santa causa, anche il Risorgimento ha i suoi martiri:

… i martiri di Belfiore che cambiano in altare la forca austriaca immolante l’intemerata vita del Sacerdote …
(Conferenze, p. 33)

È vero, che a stringere il cappio intorno al collo di Don Tazzoli c’era anche la mano di Pio IX, ma transeat; se alziamo lo sguardo oltre la contingenza, secondo Don Reginaldo il vero cattolico non dovrà mai scegliere tra Chiesa e Stato, tra Religione e Patria.

Il primo evento che ha permesso di superare questa difficoltà è stata la Guerra:

… Di questa si può ripetere la massima che forse a torto il greco filosofo affermò d’un altro soggetto. “La donna è un male, ma è un male necessario” disse egli. Noi potremmo volgere la massima così: “La guerra è un male, ma è un male necessario”…
(Conferenze, p. 13-14)

La Grande Guerra ha richiesto a tutti, credenti e non credenti, “santi e garibaldini”, lo stesso grande slancio ideale.

A risolvere definitivamente la questione del potere temprale della Chiesa, che certo “non favorì” il movimento risorgimentale (Conferenze, p. 51), alla fine giunse l’Uomo della Provvidenza, il quale riportò “l’Italia a Dio, e Dio all’Italia”. Naturalmente non avrebbe potuto fare da solo: incontrò in Vaticano un uomo altrettanto geniale, “l’undicesimo Pio”, il quale spazzò via ogni recriminazione e ogni pretesa di “compensi” territoriali:

… Nulla di tutto ciò Egli volle: la sua rinuncia in questo senso fu completa. Volle esser libero da ogni preoccupazione materiale e strettamente politica. Gli bastò la rocca vaticana, che è una vetta, solo una vetta, ma più alta di ogni cima. …

Ecco dunque che il Risorgimento,

… “battezzato dal sangue sacerdotale dei martiri di Belfiore” …
(Conferenze, p. 11)

viene assimilato e digerito anche dal successore di Pio IX.

Be’, ammettiamolo, se qualcuno si mette a leggere libri fascisti cercando rigore logico dell’argomentazione, perde il suo tempo.

Ma non era questo il mio intento. A me interessava solo dar conto di questa rilettura, per me piuttosto sorprendente, della storia d’Italia da parte di un prete che fu presentato in vita come propagandista, predicatore e bandiera del pensiero di regime, ed in morte come eroe a cui dedicare vie e piazze, sommergibili e cacciatorpediniere, legioni di CCNN e film neorealisti.

Cos’è successo a questo Paese?

Ho postato su alcuni gruppi di discussione, fra cui news:it.cultura.linguistica.italiano, la registrazione del Bis del Va’ Pensiero nel concerto di Roma del 12 Marzo 2011.

Ne è seguita una discussione, nella quale alcuni sono intervenuti piccati contro il “pistolotto” di Riccardo Muti, e soprattutto, contro l’idea che la musica sia qualcosa per cui lo Stato debba spendere dei soldi.

I toni sono poi, come spesso succede su Usenet, degenerati, ed io ho chiuso la mia partecipazione alla discussione con questo messaggio.


Arturo Toscanini

Dopo la II Guerra Mondiale l’Italia era un cumulo di macerie.

Gli Italiani di allora si diedero a ricostruirla, e a ricostruirla tutta; ospedali e teatri, scuole e fabbriche. Costruirono la democrazia, riguadagnarono al nostro Paese la dignità in faccia al mondo.

Nel 1946 il Teatro alla Scala, distrutto dai bombardamenti, era già di nuovo in piedi, e il concerto inaugurale fu diretto da Arturo Toscanini, proprio quel Toscanini che i fascisti avevano preso a schiaffi quindici anni prima – questo sembra un elemento di continuità tra i fascisti di oggi e quelli di ottant’anni fa: considerare i direttori d’orchestra solo come degli “avversari politici”.

Che cos’è successo, in questi ultimi anni, di peggio della II Guerra Mondiale, perché oggi non sia più possibile fare la stessa cosa? Perché non si possano gestire i teatri senza mandare in rovina gli ospedali? Perché siamo costretti a scegliere tra il risanamento del debito pubblico e la ricostruzione delle città terremotate, tra il lavoro e la tutela del territorio, tra la scuola e l’economia! Col risultato che alla fine va tutto a catafascio: i teatri come gli ospedali, il debito e l’Aquila, il lavoro il territorio la scuola l’economia!

Cos’è successo a questo povero Paese?

Come passa il tempo

Sono abbastanza vecchio per ricordarmi l’Italia del 1961.

Sono passati cinquant’anni, e gli enormi palazzoni dell’Esposizione sulle rive del Po sono ancora lì, nessuno li ha buttati giù, e nessuno ha mai trovato veramente un modo per utilizzarli. Memorabili monumenti dell’ingegneria, quasi del tutto inutili.

Mio figlio ha fatto scuola di roccia nel Palazzo a Vela, prima che venisse riutilizzato per le Olimpiadi del 2006. Vi erano pareti artificiali vertiginose. Il palazzo di Nervi si trova su tutti i libri di storia dell’architettura; ma è vuoto, e coperto di ruggine.

Nel 1961 a Roma c’era Andreotti. A Torino c’era la Fiat.

A Torino c’erano anche dei quartieri poco raccomandabili, pieni di immigrati: Porta Palazzo, San Salvario. Le vie della periferia erano piene di prostitute.

La città aveva un 10% circa di abitanti più di oggi. Le strade erano più o meno le stesse. In centro vi erano due grandi corsi dai pomposi nomi celebrativi: Corso Stati Uniti, e Corso Unione Sovietica. Cosa notabile: ci sono ancora, e si chiamano allo stesso modo.

Non c’era la metropolitana, le linee tranviarie erano più o meno le stesse, c’era un po’ meno macchine, ma l’aria era molto più inquinata. Riscaldamento domestico a carbone o a nafta. Niente metano.

La scuola. Nel 1961 facevo la seconda media. Ero fortunato, molti dei miei coetanei frequentavano i “tre corsi” dell’Avviamento, e poi a lavorare a 14 anni.

Poi avrei fatto il mio Liceo, dall’inizio alla fine, in giacca e cravatta. Ma non lasciatevi raccontare delle frottole: a parte l’abbigliamento, era più o meno come adesso.

La gente in casa aveva il frigorifero, la radio, il telefono, qualcuno la televisione. In bianco e nero, con un solo canale. Ma era pur sempre la Rai Tivvù. C’erano Mike Buongiorno, Emilio Fede, Piero Angela.

Se si voleva uscire la sera, si poteva andare al cinema: la scelta era tra superproduzioni americane, oppure commediole italiane, per lo più volgarucce e fatte in economia.

Fuori città, lì sì, c’era una grande differenza. C’erano ancora gli ultimi contadini, quelli che vivevano con sei vacche nella stalla, e il fieno ammucchiato con i forconi nel fienile. Ma sarebbero durati poco.

Nel mondo, c’era un po’ di guerre qua e là. L’uomo non era ancora andato sulla Luna, ma c’erano già missili e aerei supersonici capaci di portare bombe atomiche dall’altra parte del globo.

E soprattutto, il mondo conosceva da anni l’invasione della plastica, onnipresente.

Insomma, immaginiamo una macchina del tempo, che in un attimo porti un uomo del 1961 nel 2011, e un altro dal 2011 al 1961. Le cose sarebbero un po’ diverse, ma quanto ci metterebbero ad adattarsi?

Se proprio uno ci pensa su, tra la nostra vita nel 1961 e quella di oggi, la differenza più grande è che oggi io posso salire in macchina nel primo pomeriggio, e se non mi addormento in autostrada, faccio cena a Lubiana, senza che nessuno mi abbia chiesto chi sei dove vai. Pago il conto con i soldi che ho in tasca, se non ho contanti, esibisco un pezzo di plastica. Cinquant’anni fa, perfino andare da Torino a Mentone comportava un passaggio di frontiera, documenti, cambio, niente da dichiarare?

Ah, dimenticavo: oggi ci portiamo il telefono in tasca.


Prendiamo la stessa macchina del tempo, e facciamo un salto dal 1961 al 1911.

Sono sempre gli stessi cinquant’anni, ma tanto per cominciare, dobbiamo scavalcare cinque guerre.

Per celebrare il 50° dell’Unità, s’è abbattuto un pezzo di Campidoglio per costruire un enorme monumento, già all’epoca definito unanimemente orrendo. Giovanni Pascoli, per l’occasione, ha scritto due sterminati poemi in lingua latina: l’Hymnus in Romam, e l’Hymnus in Taurinos =>.

Al Quirinale c’è un Re appassionato di numismatica, con il suo corteggio di principi di Piemonte, di Genova ecc. La bandiera d’Italia ha lo scudo sabaudo nel centro(*). Non votano ancora le donne, e neppure tutti i maschi.

Le donne portano gonne fino a terra; gli uomini rispettabili si massacrano con uno stretto ed alto colletto rigido, in celluloide, anche in piena estate. Non esiste lo shampoo, non ci si asciuga i capelli col fòn, anche le case borghesi raccolgono, accanto al cesso, un discreto blocchetto di pezzi di carta di giornale, per la necessaria pulizia. Ma nella maggior parte delle case, anche in città, è considerato normale andare a farla in un gabbiotto in cortile. Sempre in cortile, ci sono le fontane per il lavaggio di panni. I regolamenti condominiali vietano di fare il bucato in casa. Niente pannolini per i neonati. Però chi può permetterselo trova già il Borotalco in farmacia.

(Naturalmente, niente plastica. Guardatevi in giro per casa. Anche una casa del 1961. Togliete tutti gli oggetti in qualche materiale sintetico. Dite che cosa vi rimane.)

Mussolini è un giovane deputato socialista. D’Annunzio, inseguito dai creditori, è scappato in Francia. A Parigi si parla ancora di un duello di cui s’è reso protagonista, due anni prima, F.T. Marinetti.

Le città sono decisamente più piccole di adesso. A Torino la campagna comincia, ad ovest, dopo Corso Tassoni; a sud, percorrendo corso Peschiera si vedono ancora, da una parte e dall’altra, vaste aree non edificate.

Sorgono le prime fabbriche. C’è ovviamente la Fiat, in mezzo a dozzine di altre piccole aziende, ancora incerte tra le quattro ruote e il biciclo, oppure, come la gloriosa Chiribiri, tra le automobili e gli aereoplani. Ma sono sicuro che sulla totalità della popolazione italiana, la maggioranza non ha mai visto né un’automobile, né un aeroplano; e forse neanche una bicicletta. E questo, a prescindere dalle differenze tecniche fra i mezzi.

La Fiat fa anche macchine da corsa: il modello più potente ha 14.000 di cilindrata, e tocca i 165 kmh. Gli aerei del 1911, be’, lasciamo perdere. Cinematografo, fonografo, radio, telefono, ecc: diavolerie moderne, chissà se avranno un futuro.

Si va in America con il vapore; per i più, dati costo e lunghezza del viaggio, non ci sarà ritorno.

Le città stanno realizzando l’illuminazione pubblica: ma alcune non si sono ancora decise tra il gas e l’elettricità.

Gli analfabeti sono quasi la metà della popolazione: un po’ più le femmine che i maschi. Quasi il 50% della popolazione attiva lavora nei campi.


Insomma, avete capito dove voglio arrivare. Negli ultimi cent’anni, la storia ha viaggiato a due velocità diversissime. Per i primi cinquant’anni ha cavalcato come una Walkiria col culo pieno di peperoncino; poi, ha poltroneggiato per il secondo mezzo secolo.


(*)Ai tempi del Fascio, tutti avevano in casa una bandiera, da esporre nelle festività di precetto. L’abitudine rimase ancora per qualche anno dopo la guerra, ma ben pochi si erano sobbarcati la spesa di un drappo repubblicano. Alcuni miei zii tiravano fuori quello vecchio, ma lo lasciavano mezzo arrotolato, in modo che la croce di San Maurizio non fosse troppo visibile. Non era nostalgia monarchica, solo tirchieria.

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Giorno del Ricordo

È passata, quasi inosservata, la Giornata del Ricordo.

Qualcuno ha voluto contrapporre ai morti italiani i tantissimi morti jugoslavi.

Io non la liquiderei così facilmente la questione, con un bilancio a due colonne degli ammazzati dall’una e dall’altra parte.

È un fatto che nei libri di storia della scuola italiana (forse di tutto il mondo) la II guerra mondiale è ancora oggetto di enormi rimozioni.

Per quanto riguarda noi, si comincia a vedere qualcosa della guerra d’Etiopia, e della fine miseranda di quell’Impero che era stato annunciato con grandi fanfare. L’Etiopia era l’unico fronte su cui l’Italia operava senza il supporto determinante dell’alleato tedesco, e dopo appena dieci mesi di guerra le truppe italiane lasciarono Addis Abeba senza combattere. (Meglio così. Il povero Amedeo di Savoia ha fatto la cosa più sensata).

Ma una totale rimozione riguarda il fronte più vicino a noi, quello in cui cui le operazioni militari durarono per quasi tutti i cinque anni di guerra: la Jugoslavia. Fu il fronte più impegnativo di tutti, e quello che assorbì la maggior parte delle risorse belliche che l’Italia monarchica e poi repubblichina riuscì a mettere insieme.

Non so quanti libri di storia parlino del Regno di Croazia, sul cui trono (sia pure solo nominale) c’era un certo Aimone di Savoia; della politica di deslavizzazione iniziata fin dagli albori del fascismo (nel 1920 le camicie nere diedero alle fiamme la Casa di Cultura Slovena di Trieste); del confuso sostegno dato dall’Italia contemporaneamente agli Ustascia croati, e ai Cetnici serbi, in un’azione di sterminio incrociato che riuscì a disgustare perfino gli ufficiali delle Wehrmacht; dell’annessione della provincia di Lubiana, rispetto alla quale neanche i più esaltati irredentisti avevano mai espresso alcun interesse.

Allo stesso modo, non so quanti libri di storia parlino diffusamente della rinuncia della sovranità italiana a favore del Terzo Reich su tutte le province orientali, incorporate nell’Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona di Operazioni del Litorale Adriatico) che comprendeva le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana sotto il comando del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer; e dell’Operationszone Alpenvorland (Zona di Operazioni delle Prealpi) comprendente le provincie di Bolzano, Trento e Belluno, sotto il comando del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer.

In questo quadro (non certo per pareggiare una macabra bilancia di morti) si può ricordare anche la tragedia di migliaia di famiglie italiane costrette a lasciare le case che abitavano da una innumerrevole serie di generazioni.


Gauleiter. È il caso di ricordare che il termine Gauleiter indicava il governatore di una regione appartenente al Reich tedesco, non il comandante delle truppe di occupazione in un paese straniero. Torna su ^

Populismo

Su it.cultura.linguistica.italiano un mesetto fa qualuno ha chiesto una definizione di “populismo”. Io ho provato a dare questo piccolo contributo, che oggi ripropongo qui:

Come spesso accade ai i termini politici, anche “populismo” assume 
nell’uso corrente significati diversi da quelli originari (populismo 
russo).

Per me i punti caratterizzanti sono quattro:

  1. Si indica come “popolo” un’entità indifferenziata, che ha un unico 
carattere, un’unica identità, identici valori. Chi non condivide 
quest’identità e questi valori è “nemico del popolo” (con tutte le 
varianti possibili: ebreo, komunista, intellettuale, radical-chic…) 
Nei confronti del “popolo” sono possibili solo due atteggiamenti 
opposti: identificazione totale, oppure esclusione.
  2. L’esistenza di “nemici del popolo” non è occasionale, ma 
indispensabile. La categoria di “popolo” è così vaga che non può essere 
definita in sé stessa, ma si costruisce e si rafforza nella continua e 
forte contrapposizione contro gli “altri”. “Noi” e “loro” è categoria 
fondamentale del populismo. Se “loro”, i nemici, non sono a 
disposizione, il populismo non ha mai difficoltà ad inventarsene.
    Una variante del “nemico del popolo” sono i “ricchi”: sfuttatori, 
privilegiati… Questo non esclude d’altra parte che alcuni ricchissimi 
possano essere visti come amici, anzi, venerati come espressione 
dell’autentica natura del popolo e della sua forza creativa – nei loro 
confronti, i “nemici” sono sfigati invidiosi.
    (I veri populisti non si preoccupano mai della coerenza logica delle 
loro scelte. La logica è roba da intellettuali. Il “popolo” ragiona col 
cuore – o i coglioni – non col cervello.)
  3. Poiché il “popolo” esprime in modo uniforme ed immediato la propria 
volontà, le mediazioni politiche ecc. sono un ingombro insopportabile. È 
il principio dell’“anti-politica”, che privilegia azioni dirette: fatti 
e non parole, prima picchiare e poi domandare, datecelo nelle mani che 
facciamo giustizia noi… Estesa all’ambito nazionale, l’anti-politica 
si esprime nel disprezzo verso le istituzioni e le procedure della 
democrazia parlamentare, tutta roba da spazzare via con una sana e 
vitale ventata di rivolta.
  4. Poiché le istituzioni sono un inutile impiccio, e la politica è 
sempre una cosa sporca, il populismo si esprime nella delega totale 
della volontà del “popolo” ad un Capo carismatico, che da una parte è 
“uno come noi”, ma dall’altra anche un uomo eccezionale che ha sempre 
ragione ecc. È lui il politico anti-politico, che farà piazza pulita del 
vecchio e superato apparato dei parolai inconcludenti. Del Capo si 
ammira il “fare”: qualunque azione possa essere interpretata come 
manifestazione di una superiore capacità di azione o di dominio, viene 
ammirata, senza alcuno scrupolo di tipo morale. Fra le virtù del capo, 
spesso si annovera l’aggressività sessuale, che è oggetto di un 
autentico culto.(1)

Una caratteristica interessante del populismo è che si tratta di un 
atteggiamento che non coinvolge solo i ceti popolari e le persone di 
modesta istruzione, ma spesso esercita un irresistibile fascino anche 
presso settori colti. L’intellettuale si sente in colpa di essere tale, 
teme la “torre d’avorio”, prova un’irresistibile nostalgia verso la 
semplice purezza delle persone umili, nei confronti delle quali 
l’istruzione appare come una ignobile caduta ed una manifestazione di 
sordido egoismo. Questo senso di colpa e di inferiorità si manifesta 
nell’adesione fanatica al capo carismatico, agli ideali più scombinati; 
per l’intellettuale convertito al populismo il non dover più pensare, 
l’affidarsi con fede cieca al fabbricatore di slogan è un sollievo 
ristoratore; condividere gli stessi entusiasmi della folla osannante e 
sbavante è una macerazione che porterà alla fine l’anima purificata alla 
totale confidente adesione all’oggetto desiderato. 
I danni che questa categoria di intellettuali può provocare sono 
incalcolabili.

Prima versione: Maggio 2009



(1) Quando pubblicai la prima versione di questo articolo, qualcuno mi disse che era una descrizione troppo modellata sulla figura di Silvio Berlusconi.

In realtà avevo tenuto presente tutt’altro personaggio – e di ben diversa levatura: Benito Mussolini.

Ormai non ha giù nessun interesse un paragone tra queste due figure di leader populisti. Oggi ce ne sono altri, che – almeno – su questo punto – sembrano seguire modelli diversi.

Ma tutto il resto dell’analisi, sul populismo in generale, sul leader populista in particolare, mi sembra clamorosamente confermata.

Soprattutto oggi, che l’ultimo bastione dell’anti-populismo, il PD, è stato trionfalmente espugnato.

Aprile 2015

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Nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (1943)

 

1 – La Nazione Italiana è un organismo politico ed economico nel quale compiutamente si realizza la stirpe […]

73 – Presupposto della politica demografica è la difesa della famiglia, nucleo essenziale della struttura sociale dello Stato.

La Repubblica la attua […] col divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matrimonio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri […]

89 – La cittadinanza italiana si acquista e si perde alle condizioni e nei modi stabiliti dalla legge, sulla base del principio che essa è titolo d’onore da riconoscersi e concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana.

In particolare la cittadinanza non può essere acquistata da appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore.

90 – I sudditi di razza non italiana non godono del diritto di servire l’Italia in armi, né, in genere, dei diritti politici: godono dei diritti civili entro i limiti segnati dalla legge, secondo il criterio della loro esclusione da ogni attività, culturale ed economica, che presenti un interesse pubblico, anche se svolgentesi nel campo del diritto privato.

In quanto non particolarmente disposto vale per essi, in quanto applicabile, il trattamento riservato agli stranieri […]

Nel Sessantotto

Too much and for too long, we seemed to have surrendered personal excellence and community values in the mere accumulation of material things. Our Gross National Product, now, is over $800 billion dollars a year, but that Gross National Product — if we judge the United States of America by that — that Gross National Product counts air pollution and cigarette advertising, and ambulances to clear our highways of carnage. It counts special locks for our doors and the jails for the people who break them. It counts the destruction of the redwood and the loss of our natural wonder in chaotic sprawl. It counts napalm and counts nuclear warheads and armored cars for the police to fight the riots in our cities. It counts Whitman’s rifle and Speck’s knife[1]. And the television programs which glorify violence in order to sell toys to our children. Yet the gross national product does not allow for the health of our children, the quality of their education or the joy of their play. It does not include the beauty of our poetry or the strength of our marriages, the intelligence of our public debate or the integrity of our public officials. It measures neither our wit nor our courage, neither our wisdom nor our learning, neither our compassion nor our devotion to our country, it measures everything in short, except that which makes life worthwhile. And it can tell us everything about America except why we are proud that we are Americans.

Con troppa convinzione, e per troppo tempo, abbiamo rinunciato alla nostra promo­zione personale e ai valori della nostra comunità in favore della semplice accumula­zione di beni materiali. Il nostro Prodotto Nazionale Lordo è ora di 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Prodotto Nazionale Lordo, in base al quale giudichiamo le condi­zioni degli Stati Uniti d’America, comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze che liberano le autostrade dalle stragi del traffico. Comprende serrature speciali per le nostre porte, e prigioni per quelli che le rompono. Comprende l’abbattimento delle sequoie e la scomparsa delle nostre bellezze naturali nel caos urbanistico. Comprende il napalm e le testate nucleari e le auto blindate usate dalla polizia contro le rivolte urbane. Comprende le armi usate per stragi e delitti. E i programmi televisivi che trasudano violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini. Invece, il Prodotto Nazionale Lordo non calcola la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione e la gioia dei loro giochi. Non include la bellezza della nostra poesia e la durata dei nostri matrimoni, l’intelligenza del dibattito politico o l’onestà dei pubblici amministratori. Non valuta né l’ingegno né il coraggio, né la saggezza, la cultura, l’altruismo, l’amore per il nostro paese. In poche parole: misura tutto, tranne quello che rende la vita degna d’essere vissuta. Ci dice tutto sull’America, tranne il motivo per cui siamo orgogliosi di essere Americani.

 

Robert Kennedy, Discorso all’Università del Kansas, 18 Marzo 1968


[1] Charles Whitman e Richard Speck furono protagonisti di drammatici fatti di cronaca alla metà degli anni ‘60
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