Scontro di civiltà

Da quando esiste la guerra, esiste una regola che contempla poche eccezioni. Vince chi riesce a trascinare l’avversario sul proprio terreno, chi riesce ad imporre all’avversario la propria modalità di fare la guerra.

Questo vale in senso propriamente strategico, come tecnica militare, ma vale ancora di più in senso politico.

Ottant’anni fa, i nazisti scatenarono una guerra razzista. Combattevano per la supremazia della razza ariana sulle altre razze.

Alla fine i nazisti sono stati sconfitti. A conti fatti, possiamo dire che la loro sconfitta era inevitabile, anche se credevano (e facevano credere) di avere un esercito invincibile.

Ma hanno perso anche perché i loro avversari non hanno combattuto la guerra dei nazisti.

Quelli che hanno combattuto contro il nazifascisti, non si sono mai sognati di fare la guerra contro la razza ariana. Non si sono mai sognati di battersi sul terreno della guerra razzista. Hanno combattuto per la libertà contro la tirannide. E anche per questo – soprattutto per questo – hanno vinto.

I terroristi jihadisti, i nazisti del nostro tempo, vogliono scatenare una guerra di religione. La guerra della religione islamica contro tutte le altre religioni – anche contro tutti i mussulmani che non la pensano come loro, s’intende.

L’errore più grave che si potrebbe fare sarebbe quello di accettare questa guerra. Fare una guerra di religione. Proprio quella che vogliono loro. La guerra dei cristiani contro i mussulmani.

Ma l’Europa le sue guerre di religione le ha già fatte cinque secoli fa; e non è stata una bella pagina della storia europea. Le Crociate le abbiamo fatte nove secoli fa; e le abbiamo perse.

Se si fa una guerra dei cristiani contro i mussulmani, sinceramente non so bene chi potrebbe vincere. Con tutti i mezzi materiali a nostra disposizione, non è questa la guerra per cui siamo preparati.

La nostra guerra deve essere la guerra della libertà contro l’oppressione, la guerra della cultura contro l’ignoranza. La libertà anche per i mussulmani, la cultura anche della tradizione mussulmana.

(Anche la guerra per la libertà di stampa, s’intende. Anche per la libertà di stampare e leggere un giornale “bête et méchant”.)

Questa è la guerra che possiamo vincere. Come settant’anni fa.

La libertà di stampa, e quelli che si adeguano

Per molti, non solo per voci, diciamo così, “della strada”, ma anche per un giornale famoso e prestigioso come il Financial Times, quelli di Charlie Hebdo “se la sono cercata” pubblicando vignette “stupide” ed “offensive”.

Questo dimostra che i terroristi conoscono l’Europa molto meglio di tanti europei.

La libertà di stampa è l’anima dell’Europa. È il principio per cui, se non ti piace un giornale, sei libero di non leggerlo: ma non puoi ammazzare i giornalisti, o metterli in prigione, come è capitato pochi giorni fa in Turchia. Senza questo principio, senza il rispetto rigoroso e inflessibile di questo principio, l’Europa non è più l’Europa.

Se in questo principio inseriamo un criterio di maggiore o minore “opportunità”, è finita. Ammettiamo che la libertà di stampa è una libertà limitata; che c’è qualcuno che ti può dire che una certa notizia, una certa vignetta, se non la pubblichi è meglio. Così, a scanso di grane.

Se cominciamo a dire che la libertà di stampa vale per i giornali “buoni”, e vale un po’ meno per i giornali “cattivi”, abbiamo cancellato gli ultimi duecento anni di storia europea.

Per questo i terroristi hanno attaccato un giornale satirico dichiaratamente “bête et méchant”. Sapevano perfettamente quello che facevano. Hanno attaccato la libertà di stampa distruggendo un giornale che molti (non io, ma non è questo che conta) considerano “inopportuno” e “irresponsabile”.

Invece quelli che dicono che certe cose, se non le pubblichi, è meglio, se non vuoi passare dei guai, è ora che si facciano crescere la barba e tolgano dal frigo il prosciutto e le lattine di birra: si sono già adeguati.

Be’, ci siamo già passati, un’ottantina di anni fa. Poi ne siamo usciti. Con fatica, ma ne siamo usciti.

È ora di ristudiare quella vecchia storia.

Pirenne: Maometto e Carlomagno

Su Usenet capitano ancora delle belle cose.

Per esempio, riprendere in mano un libro di ottant’anni fa, che mostra tutto il peso dei suoi anni, ma rimane un’opera scritta in modo brillante, e un classico della storiografia.

Questo in seguito ad una polemica sulle cause presunte dell’antisemitismo moderno, che un corrispondente di it.cultura.storia attribuiva all’ostilità del mondo feudale verso gli ebrei identificati con la borghesia.

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A proposito di disparità di forze

L’11 dicembre 1941 Benito Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti d’America.

Si dice che il Senatore Agnelli abbia mormorato: “Ma gli avete fatto vedere la guida telefonica di New York?”

L’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo, con vaste aree di sottosviluppo a livelli di Terzo Mondo.

Tanto per dirne una, avevamo un’aviazione militare che era all’avanguardia nel mondo a metà degli anni ‘30, ma diventava immediatamente obsoleta quando, con lo scoppio della guerra, anche il progresso tecnologico cominciò a correre come un puledro impazzito.

Anche noi riuscimmo a mettere in campo qualche bell’aeroplanino, il Macchi 202 (produzione totale, un migliaio di esemplari) il Macchi 205 (circa 300 esemplari) il Fiat 55 (circa 200) il Reggiane 2005 (una trentina). Bellissimi, roba da competizione sportiva, ma in una guerra mondiale…

E con questo bell’apparecchio, siamo andati a stuzzicare un colosso capace di sfornare un quadrimotore B24 Liberator, fatto e finito, ogni 56 minuti, 24/24, 365/365.

Che cosa potevano fargli, agli americani? Ma neanche il solletico.

Per nostra sfortuna loro ci hanno presi sul serio, alla prima occasione ci hanno invasi, e ci hanno asfaltati da Capo Passero alla Valtellina.

E così il Duce concluse la sua carriera imperiale appeso per i piedi ad un distributore di benzina – e mai corda fu meglio usata, almeno nel XX secolo.

Ricordi sul fascismo (10-16 aprile 2014)

Mio padre era nato nel 1919, mia madre nel 1920. Si trovarono dunque a vivere i loro vent’anni in piena II guerra mondiale. Mio fratello è nato nel ‘43 in una cittadina sulla collina di Torino, dove i miei erano “sfollati” per sfuggire ai bombardamenti. Solo mio padre affrontava tutti i giorni il viaggio per andare a Torino a lavorare (io, come mio nonno paterno, mio padre e mio fratello abbiamo avuto una giovinezza caratterizzata da una magrezza quasi patologica: per questo siamo sempre stati giudicati inabili al servizio militare; non così da parte di mia madre: mio nonno ha fatto la I guerra mondiale in Albania, mio zio come alpino in Jugoslavia, e dopo l’8 settembre è finito in campo di concentramento in Polonia).

Insomma, nei ricordi della mia famiglia, il fascismo si presentava come una enorme insensata tragedia.

Il crollo del consenso dovuto alla catastrofica conduzione della guerra dava alla generazione giovane di allora la sensazione di essere gli unici sani di mente in un mondo di pazzi, che per anni avevano accolto con entusiasmo le strampalate promesse di uno psicopatico e di un buffone.

Inevitabilmente, le rievocazioni famigliari dell’era fascista erano condite dalla narrazione di situazioni paradossali, meschinità vergognose – anche di loro stretti conoscenti –, e terminavano con un giudizio perentorio: “il fascismo era solo propaganda: tutte balle”.

Tale giudizio era rafforzato dall’informazione storica diffusa nei decenni successivi; ogni rievocazione del Ventennio comprendeva qualche spezzone di filmati con discorsi del Duce dal balcone, giovani Avanguardisti e Piccole Italiane in marcia coi gagliardetti, e gerarchi impettiti con la nappina del fez che ballonzola sulla fonte. Insomma, una comica meglio di Stanlio e Ollio. Di questo clima, i Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti sono una rievocazione quasi commovente nella sua intensità.

Io sono sempre stato di sinistra, più o meno estrema; i miei, sono stati sempre dei moderati, e non hanno partecipato alla Resistenza. Mio padre ha votato liberale per tutta la sua vita – e così mio zio, l’Alpino, tornato a guerra abbondantemente finita, dopo la Jugoslavia, la prigionia in Polonia, e pure un bel po’ di prigionia in un campo sovietico, poiché per i rossi era pur sempre un soldato di un esercito nemico. Ma questa distanza tra le due estreme di quello che un tempo si chiamava l’Arco Costituzionale dava al mio antifascismo di famiglia un tono quasi ecumenico. Si poteva dissentire su tutto, ma che il fascismo sia stato una montagna di merda non si discuteva.

Aggiungiamo, per terminare questa breve ricostruzione, che in tutti quelli di quella generazione che ho conosciuto vi è la coscienza, confusa ma ferma, che, una volta entrati nella II Guerra Mondiale, per quanto l’esito sia stato doloroso, a conti fatti perdere come abbiamo perso è stata una enorme botta di culo. Settant’anni di arrampicamenti revisionistici sui vetri non sono riusciti a tirare fuori uno straccio di argomento decente per convincermi che la scelta della guerra fosse inevitabile. E perdere per perdere, meglio con gli Americani che distribuiscono cioccolata e sigarette, e una generazione di antifascisti in grado di rimettere in piedi la baracca.

Anzi, forse meglio così in ogni caso. Mussolini poteva starne fuori, come Oliveira ‘O Vicho’ Salazar, e Francisco Franco. Sarebbe morto nel suo letto, ed una torma di ecclesiastici in pompa magna e di vecchi nostalgici in camicia nera l’avrebbero accompagnato all’ultimo riposo. Ma non mi sembra ugualmente che Franco e Salazar siano molto rimpianti, nei loro paesi.

Soprattutto, ci saremmo trascinati fino all’epoca della decolonizzazione un ipertrofico e costosissimo Impero piacentiniano e razzista; e Dio solo sa quante lacrime e quanto sangue ci sarebbe costata la nemesi dell’hybris mussoliniana.


Non ho mai avuto alcun interesse alle discussioni sul “fascismo buono” e il “fascismo cattivo”.

In primo luogo, perché questo significherebbe riaprire il processo al fascismo. Ma non è più tempo. Il processo al fascismo è già stato fatto, parecchi anni fa, e si è concluso con un giudizio che ormai è passato agli atti. Qualunque discorso sul fascismo non può prescindere da questo.

In secondo luogo, una discussione sul “fascismo buono” e il “fascismo cattivo” non ha senso, perché di fascismo ce n’è stato uno solo. Non due. Uno.

Io sono convinto che il fascismo abbia avuto una grande svolta, negli anni intorno al 1938, con le leggi razziali e l’alleanza giugulatoria con il nazismo. Dopo, il fascismo non è più stato quello di prima. Ma il fatto è che questa svolta è stata compiuta da tutto il fascismo. Non ho notizia di personalità importanti che abbiano manifestato opposizione a questa svolta – a parte qualche noticina nel segreto di un diario personale, qualche mugugno a mezza voce.

La fuga c’è stata nel ‘43, quando tutti si sono accorti (con un bel po’ di ritardo) che ormai la guerra era perduta. Ed era il caso di cominciare a pensare a salvare la pelle. Ma è stata una storia squallida: per quelli che hanno cercato di salvare la pelle, come per quelli che non avendo più l’opportunità di accoppare gli Abissini, ed essendo lontani dal posto in cui Tedeschi ed Inglesi continuavano ad accopparsi, tanto per non perdere l’abitudine hanno cominciato ad accoppare gli Italiani.

Ed anche per i tantissimi che hanno cominciato a tenere, come si dice, “un basso profilo”.

Ma ormai la storia non era più la loro storia. La storia era degli altri.


Chiuso senza ripensamenti il fascicolo processuale, possiamo ora studiare il fascismo semplicemente per capire come sono realmente andate le cose, senza doverci più preoccupare di dover portare argomenti all’accusa o alla difesa.

O per lo meno, così dovrebbe essere, perché mi rendo perfettamente conto che in realtà non si raggiungerà mai perfettamente una simile serenità   per lo meno, non nell’arco della mia generazione. Ma questa non è la mia preoccupazione.


“Capire come sono andate veramente le cose” significa però in primo luogo mettersi in testa che di cose ce ne sono state. E grosse.

Dire che “il fascismo era solo propaganda”, come dicevano i miei vecchi, è un modo per esorcizzare un passato imbarazzante, scrollarsi dalle spalle un peso troppo gravoso da portare. Come tutti i giudizi riduttivi, “italiano brava gente”, “una dittatura temperata dall’inosservanza della legge” ecc. Uno strano accidente della storia, che ha avuto conseguenze disastrose, ma che alla fine “non ci appartiene”.

Ridurre il fascismo ad una comica tragedia, ad una tragica farsa, ad una grande rappresentazione a cui tutti si adeguavano per quieto vivere, è una troppo comoda rimozione.


Capire come sono andate le cose significa in primo luogo capire qual era la logica interna di quel periodo. Capire cosa pensava la gente. Capire come vivevano quel periodo, che tipo di rappresentazione mentale si erano fatti di sé e del mondo in cui vivevano.

Questo implica in un certo senso cercare di condividere il loro punto di vista, per quanto questo punto di vista sembri lontano.

La cosa è molto difficile, perché noi sappiamo come è andata a finire. E quindi, capire cos’avevano in testa quelli che ancora non lo sapevano, richiede un forte sforzo di immaginazione. Per quanto possibile, dobbiamo anche noi dimenticarci che sappiamo come è andata a finire.

In questo momento mi sto occupando di un tizio (non ha molta importanza per ora chi sia questo tizio) che non ha mai saputo come è andata a finire. È andato in Africa a conquistare l’Impero, ed è morto prima che l’Impero fosse fondato. Pieno di belle speranze e di entusiasmo, in sella al suo muletto, respirando l’aria frizzante dell’Altopiano.

Devo dire che la sindrome di Stoccolma comincia mordere. Non riesco a non trovarlo simpatico.

È il personaggio ideale per capire la mentalità dell’epoca. Non è stato contaminato dalla conclusione. Una caritatevole sciabolata in pieno corpo gli ha risparmiato di vedersi crollare il mondo addosso, quando il Fondatore dell’Impero ha usato l’Impero come una fiche da giocare sul tavolo verde del grande Risiko. Non gli è toccato dover scegliere tra la fedeltà alla Patria e la fedeltà al Duce. Non gli è toccata soprattutto una vecchiaia squallida e rancorosa, condannato a rimuginare il passato, a spiegare l’inspiegabile, a difendere l’indifendibile.

Poiché lui non ha saputo come è andata a finire, è più facile per lo storico entrare nella finzione narrativa di non sapere come andrà a finire. Come entrare nel bosco con Cappuccetto Rosso e non sapere che il lupo ci mangerà.

10-16 aprile 2014

Essere impiccati per una poesia

http://en.wikipedia.org/wiki/Hashem_Shabani

Mentre noi italiani da un quarto di secolo siamo seriamente impegnati a far ridere il mondo intero, altrove c’è chi mette in scena i peggiori incubi dell’umanità.

Per i poeti, per chi scrive cose sgradite, addirittura per chi scrive nella lingua sbagliata, ci sono la tortura e la forca.

La notizia arriva da noi con due settimane di ritardo, ed anche in questo non ci facciamo bella figura.

Etiopia 1935-1936, i missionari alla guerra

…Le bombardement, écrit-il au P. Provincial le 4 avril, que les Italiens ont exécuté dimanche dernier contre la ville est un acte barbare qui mérite la malédiction du Ciel… Pour ceux qui connaissent l’histoire des pactes concernant l’Ethiopie, ils considèrent, comme une faiblesse impardonnable, le silence de l’Angleterre et de la France dans le bombardement de Harar et de la région tout entière. Car, en vertu du pacte tripartite de 1906, intervenu entre l’Angleterre, la France et l’Italie, il était interdit à l’une de ces trois puissances de toucher à la zone d’influence de sa voisine. Or Djidjiga était la zone anglaise et l’Angleterre en a supporté le bombardement; Harar était la zone de l’influence française et la France l’a laissé bombarder au mépris des plus formels engagements… Ici, du fond de notre Afrique, la vision que nous nous faisons du monde actuel, la voici: Deux sinistres ambitieux s’étant rendu compte que les peuples et leurs chefs sont atteints de la paralysie de la peur, ils en ont profité pour imposer leur domination, sachant bien qu’ils ne rencontreront aucune opposition, sinon celle de la paperasse et des discours, dont ils ne font pas plus cas que des hommes qui les écrivent ou les débitent. Je le répète: dix avions anglais à Djidjiga, et dix avions français à Harar auraient plus fait pour mater Mussolini que toutes les séances de la Société des Nations dont la décrépitude est devenue un fait humiliant. C’est accroupi sous le solide plafond de ma roche que je vous écris ces lignes, Très Révérend Père, n’ayant d’autre bureau que l’appui de mes deux vieux genoux…

Chi scrive queste parole è Mgr André Jarosseau (1858 – 1941), Vicario Apostolico dei Galla, testimone del bombardamento del 29 marzo 1936 su Harar, ufficialmente “città aperta”.

La “roche” cui allude è la grotta di Nazaro, a circa 7 km dal centro cittadino, adottata come rifugio antiaereo.

Il patto del 1906 era un trattato tripartito che, senza interpellare il legittimo governo etiopico, le tre potenze europee avevano stipulato per garantirsi il rispetto delle reciproche zone di influenza.

Gaëtan Bernoville, Monseigneur Jarosseau et la Mission des Gallas, Paris 1950


Questa la posizione dei missionari francesi.

La posizione dei missionari italiani era un po’ diversa.

Reginaldo Giuliani a Fiume

Padre Reginaldo Giuliani (1887-1936) fu frate domenicano, predicatore focoso ed ammiratore del Savonarola, cappellano militare di fanteria e poi del corpo degli arditi durante la I guerra mondiale (due medaglie di bronzo e una d’argento al valor militare). Fu poi fiumano, e cappellano della compagnia La Disperata di d’Annunzio; energico sostenitore in patria e all’estero del fascismo (1); infine cappellano militare delle Camicie Nere nella guerra d’Abissinia, dove morì nel combattimento di Passo Uarieu (medaglia d’oro al valor militare).

Di lui si scrisse molto, in tono altamente celebrativo, in vita e soprattutto negli anni immediatamente seguenti alla sua morte; la sua figura è stata in seguito quasi completamente dimenticata, e non mi risulta che vi siano studi critici recenti. (1bis)

Un volume abbastanza dettagliato, per lo meno su alcuni punti della sua vicenda, è quello di Arrigo Pozzi (2), Il Cappellano degli Arditi e delle Camicie Nere, II ed. 1939 G. Gasparini Editore Milano.

In questo volume è particolarmente dettagliato il resoconto della sua partecipazione all’avventura fiumana.

Tra il 25 e il 27 agosto le truppe d’occupazione italiane lasciano Fiume; quello stesso 27 agosto esce il primo numero del quotidiano Vedetta d’Italia, che pubblica in prima pagina una lettera di D’Annunzio al capitano Host-Venturi preannunciante un suo intervento. Il 31 agosto Giuliani partecipa ad un’assemblea nella Filarmonica di Fiume, vi pronuncia un acceso ed applauditissimo discorso, in cui “assicura che gli arditi e gran parte dei soldati che hanno vinto la guerra non permetteranno che la loro vittoria venga mutilata, e come i Fiumani hanno gridato: ‘O Italia o morte!’, essi hanno giurato: ‘O Fiume o morte!’”

Lo storico fa qui due osservazioni: anche se non ci sono prove in proposito, è molto probabile che la sua missione nella città sia stata preventivamente concordata con il Comandante; e che in quei giorni Giuliani era ancora cappellano del 55° Fanteria di stanza a Treviso, e quindi ufficiale dell’esercito italiano.

Subito dopo Giuliani si congeda dall’esercito; il 12 settembre rientra a Fiume con la colonna dannunziana. Il 15 è a Torino; nel frattempo è stato eletto nuovo provinciale dei Domenicani padre Benedetto Berro, che era stato maestro del Giuliani al tempo del suo noviziato. Tutto fa pensare che il frate abbia chiesto, ed ottenuto, dal suo nuovo superiore il permesso di partecipare all’impresa. Giuliani rientra quindi a Fiume, dove viene accolto con entusiasmo dai legionari, molti dei quali erano arditi di sua vecchia conoscenza.

Il biografo qui sottolinea che P. Giuliani è stato spinto all’impresa non solo da sentimenti patriottici, ma anche dal desiderio di contrastare, all’interno del composito movimento fiumano, le tendenze antireligiose ed anticlericali. Si dilunga quindi a parlare della sua azione come predicatore, confessore e moralizzatore dei costumi.

Fin dall’inizio però la presenza di Giuliani si scontra con la comprensibile ostilità del clero croato. Quasi tutti i preti slavi hanno preferito emigrare; don Kukanic (che in certi casi il Pozzi chiama “monsignor Kukanic”) è il parroco della chiesa dell’Assunta (detta anche Duomo), all’epoca l’unica parrocchia di tutta la città; ma spesso è in Jugoslavia, e si ostina a parlare e celebrare in croato, anche se conosce perfettamente l’italiano avendo studiato a Firenze. I preti italiani capeggiati da Giuliani (non si dice il loro nome né il loro numero) fanno di tutto per soppiantare gli slavi; la tensione arriva al punto che le autorità civili italiane chiudono le porte del Duomo e sequestrano le chiavi. (3)

Un episodio clamoroso che coinvolge il Giuliani è quello del dono del pugnale a D’Annunzio. La versione fornita dal Pozzi vuole essere il più possibile favorevole al frate, ma è ugualmente inquietante.

Un comitato di circa 600 donne fiumane decide di donare al Comandante un artistico pugnale col manico d’oro. La cerimonia è accuratamente studiata. Nella chiesa di San Vito (che in seguito alla costituzione della diocesi di Fiume diventerà cattedrale) Reginaldo Giuliani celebra la Messa, nel corso della quale benedice il dono. A questo punto, secondo la versione del Pozzi, Giuliani termina la celebrazione, spegne le candele e depone i paramenti sacri. Quello che segue dovrebbe essere quindi una cerimonia non religiosa, per quanto si svolga in una chiesa. Una rappresentante delle donne si rivolge a D’Annunzio, ringraziandolo per quanto sta facendo, e gli consegna una pergamena con i nomi di tutte le donatrici (che una donna parli in chiesa oggi non fa specie, ma all’epoca pare fosse rigorosamente proibito). Il comandante pronuncia un discorso, in cui chiama il pugnale “sacramento del ferro”.

La vicenda suscita naturalmente scalpore, e lo stesso Giuliani ha dovuto difendersi, sostenendo che:

1. il pugnale, proprio per la sua preziosità, non era destinato a “scopi cruenti”: “come la spada degli antichi cavalieri, può essere ritenuto quale simbolo di difesa della giustizia”;

2. il resto della cerimonia, terminata la funzione religiosa, non era stato concordato, né tanto meno autorizzato da lui.

A differenza di quanto si è spesso sostenuto, sempre secondo il Pozzi, non dovrebbe essere stata questa la causa dell’allontanamento del Giuliani da Fiume.

Passò un paio di mesi, nel corso del quale vi fu un altro grave motivo di tensione.

Si diceva che nel convento dei Cappuccini di Fiume si tenevano liturgie secondo il rito glagolitico, l’antica lingua sacra dei popoli slavi. In realtà pare che i frati si limitassero a predicare alternando l’italiano con il croato, per venire incontro ai bisogni della parte slava della popolazione. Ciononostante a Padre Giuliani “venne dato l’ordine” (da chi?) di fare pressioni perché nella città di Fiume si abbandonassero “forme superate e in ogni modo non coordinate alla liturgia latina”, cosa che il buon Frate fece con il calore e l’entusiasmo che possiamo immaginare.

A questo punto le cose precipitano; la presenza del Giuliani a Fiume è sempre più imbarazzante, e giunge l’ordine di partire. Di nuovo, ci mancano documenti precisi; sappiamo solo che il 23 marzo 1920 Giuliani lascia Fiume, cercando di non dare nell’occhio per timore di suscitare disordini, e il 25 marzo è già nel suo convento di Torino.


(1) la notizia della sua partecipazione alla Marcia su Roma compare solo nel volume di aggiornamento 1938 dell’Enciclopedia Treccani; ma non l’ho trovata in nessun’altra fonte.

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(1bis) Solo recentemente mi è stata segnalata una tesi di laurea: Giovanni Cavagnini, Un apostolo per «La più grande Italia». Padre Reginaldo Giuliani tra mito e storia, Pisa 2008.

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(2) dell’autore so solo che era giornalista dell’Avvenire d’Italia, e che è sospettato d’essere stato informatore della polizia su vere o presunte attività antifasciste.

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(3) su questi fatti si veda anche qui →

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Due romanzi sull’AOI

Tempo di uccidere
di Ennio Flaiano (1947)

La vicenda imperiale, a differenza di tanti altri capitoli della nostra storia patria, non ha lasciato grande traccia nella narrativa.

L’unica opera della letteratura, come si dice, ufficiale, ma preferirei dire “professionale”, è Tempo di uccidere di Ennio Flaiano.

Il libro, pubblicato la prima volta nel 1947, ebbe un certo successo, fu poi quasi del tutto dimenticato, e credo che non sia più stato ristampato per decenni, fino ad una riedizione di alcuni anni fa. Ne è stato anche tratto un film, che non ho visto, e non mi risulta abbia avuto una grande risonanza.

L’autore ebbe una certa fama, negli anni ‘50 e ‘60, per un talentaccio che nessuno gli può negare, ma forse ancora di più per meriti mondani nella grande Roma dei tempi de Fellini.

Non starò a moraleggiare sulla sua adesione al fascismo. Flaiano era nato nel 1910, non vide altro che fascismo da quando ebbe raggiunta l’età della ragione, e divenne maggiorenne quando il fascismo era cosa che si respirava nell’aria. Non aveva quindi nessun bisogno di fare particolari atti di contrizione quando, giovane signore di belle speranze, si trovò a vivere nell’Italia postfascista.

Io ho sempre trovato sgradevolmente ipocrite le sottolineature che, per lo più da destra, si fanno sugli esordi degli uomini di quella generazione; non tornerò sull’argomento. Ruggero Zangrandi, che di Flaiano era quasi coetaneo, ha già detto tutto cinquant’anni fa.

Proprio per questo mi infastidiscono i patetici tentativi di difesa di chi affetta superiorità rispetto al corso della storia, in nome dell’eterno “sono tutti uguali”. Un’inutile coda di paglia, che porta con sé la rinuncia ad una vera rilettura critica del passato.

Ho detto questo per spiegare come mai Tempo di uccidere si è risolto in un sostanziale fallimento. Tratta di un’epoca cruciale per la nostra storia, senza mai riuscire a tirar fuori la testa dal bozzolo del “privato”, come si chiamerà parecchi anni dopo.

(Ci dice molte più cose un’opera di assai minori qualità letterarie, ma senza preoccupazioni mimetiche, come Il garofano rosso di un giovanissimo Vittorini, classe 1908, allora convinto fascista).

Insomma, il libro di Flaiano è indubbiamente scritto bene, e appunto per questo è grande la sua responsabilità nel non aver saputo rendere grandezze e miserie di un’epoca che in ogni caso non meritava di essere dimenticata.

Un giovane ufficiale italiano ha un incontro occasionale con una giovanissima etiope (i rapporti con le minorenni sembrano il chiodo fisso di tutta la memorialistica dell’epoca), la ferisce accidentalmente con un colpo di pistola, poi non sapendo che fare la uccide e ne nasconde il corpo nella foresta. Ossessionato dai rimorsi, dal mal di denti, dal timore di essere stato contagiato da una brutta malattia (la lebbra, non quello che si potrebbe pensare), vaga tra Massaua e dintorni, meditando un’impossibile fuga. Finita la licenza ottenuta per motivi di salute, finiscono anche i cattivi pensieri, e il nostro eroe torna alla vita di sempre.

Il tema, l’ambientazione, potrebbe essere l’occasione per una visione un po’ più profonda sull’esperienza di chi si è trovato a vivere in quell’epoca. Ma più si va avanti nella lettura, più si sprofonda nella melma dell’autocommiserazione e del piagnisteo, senza mai d’altra parte leggere qualcosa di memorabile sul tema della colpa. Non ci attendiamo grandi voli mentali dal protagonista, che è un mediocre, e nessuno gliene fa una colpa, ma, come diceva Pavese, non è il personaggio che deve dire cose intelligenti, è l’autore che le deve avere in testa.

Niente da fare, quando non si digerisce veramente il passato, rimane in bocca solo uno sgradevole sentore di acido.



Il violino di Addis Abeba
di Dante Galeazzi (1959)

Dante Galeazzi, uomo dai mille mestieri (attore, camionista, ladro, accordatore di pianoforti…) è ricordato in qualche noticina nelle storie del cinema del tempo dei “telefoni bianchi”, e per un romanzo autobiografico pubblicato nel 1959, Il violino di Addis Abeba.

E Il violino di Addis Abeba oggi è ricordato solo per l’episodio della strage seguita all’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937.

Parliamo subito di questo, così ci togliamo il problema. Tutto si riduce a poco più di mezza pagina. Arrivato (spiegherò poi come) nella grande capitale dell’Impero, il protagonista si accorge di una grande agitazione, e i fari del suo sgangherato Ford 8v illuminano mucchi di cadaveri.

Per tre giorni durò il caos, per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano. Non posso ammettere quei giorni di carneficina in cui perirono molti innocenti, pur riconoscendo che gli Italiani erano esasperati dai massacri orrendi perpetrati dagli sciftà, negli attacchi ai cantieri e agli autisti.

Scorge un ragazzino terrorizzato nascosto nel cassone del suo camion, lo copre con un telo e lo nasconde per tutta la notte. Il mattino dopo il ragazzino è scomparso, e il buon Samaritano può tornare a farsi gli affari propri.

Anticipando un altro pezzo di conclusione, diciamo che l’autore non sente mai il bisogno di dichiarare più del necessario, meno che mai di giustificare, la sua adesione all’idea coloniale; è di quelle cose talmente ovvie che ci si stupirebbe doverne parlare. Né prima, né dopo la II guerra mondiale.

Torniamo ora al nostro eroe dai mille mestieri. Ha studiato con impegno il violino, è portato per la musica, poi ha lasciato perdere rendendosi conto di non avere un vero talento. Ha tentato la carriera nel cinema, non riuscendo mai veramente a uscire dalla condizione di esordiente di belle speranze. È un bell’uomo, passa ore in palestra, e si vede superato da altri con meno muscoli, ma capaci di bucare lo schermo. È simpatico, attacca discorso con tutti, tutti sono contenti di vederlo, si fanno grandi risate e grandi bevute, ma dopo aver fatto un lungo elenco di personalità famose che ha conosciuto, capisce che non sarà mai uno di loro.

Sono i giorni della guerra, si presenta volontario in fanteria, si trova inopinatamente arruolato nelle Camicie Nere, ci ripensa e ritira la domanda. Ma l’Africa è il futuro. Non andrà come soldato, ma come uomo d’affari. E si mette negli autotrasporti.

La narrazione delle vicende africane, che arrivano fino agli anni ‘50, è lunghissima, e dopo un po’ comincia a stufare. Il suo problema è che è troppo furbo, e trova sempre un modo per sgamarsela senza troppi danni, saltando da un affare all’altro, da un fallimento rovinoso ad una risalita, come un giocatore d’azzardo, senza mai impegnarsi seriamente in niente, sempre all’insegna dell’improvvisazione e della faccia tosta.

Il nostro Dan attraversa la storia con leggera incoscienza e sublime irresponsabilità; vorremmo vedere in lui la figura del simpatico mascalzone, ma troppo spesso ci appare semplicemente come uno stronzo approfittatore.

Le cose più belle dell’opera, sono alcune sue incredibili traversate: la prima, durata 34 giorni, da Asmara a Dessiè, e poi proseguita, per un tempo non specificato fino ad Addis Abeba, su strade appena costruite, a bordo del Ford 8v di cui ho parlato prima – lui che non aveva mai guidato un camion in vita sua, e deve anche inventarsi il mestiere di meccanico, sempre in cerca di bronzine che il motore si mangia come caramelle –; e quella, verso la fine della narrazione, ormai nel dopoguerra, con un amico occasionale, da Gibuti a Mogadiscio, lungo piste nel deserto abbandonate da anni, a bordo di due autovetture assolutamente incongrue per un percorso appena un po’ fuori dalle strade normali: una Renault 4CV e un’Aprilia.

Sono due avventure di carattere quasi epico, che ci rimandano ad un mondo così importante nella storia della nostra presenza italiana in Africa: i camionisti, rimasti impressi nella fantasia perfino di un Del Boca, insostituibili e infaticabili globuli rossi che pulsano in quella sterminata rete di strade spericolate che hanno domato l’Etiopia più dell’iprite, sorretti solo dall’incrollabile determinazione di portare a destinazione il carico e da inseparabili fiaschi di vino.


La parte più interessante del libro è però la seconda, con l’occupazione inglese e gli italiani che subiscono increduli la sconfitta dell’Impero, ma continuano a sfidare il nemico cantando gli inni. Allora Dante diventa agente segreto e manda inutili informazioni via radio alle residue forze italiane che si ostinano a combattere, perché Graziani sta vincendo la guerra in nord Africa.

Segue l’internamento in campo di concentramento (che per il Nostro è un rosario di evasioni), in attesa di un’espulsione che lui cerca in ogni modo di evitare: il mal d’Africa tiene alta la sua febbre, anche se gli italiani non sono più i padroni. Una lunga serie di documenti falsi, finché a forza di generose elargizioni di cassette di whisky riesce ad ottenere un documento autentico che lo autorizza a restare. Ricominciano le peregrinazioni, da Dire Daua a Gibuti a Mogadiscio, dove l’11 gennaio 1948 si compie una strage di italiani: e lo possiamo perdonare se a quest’episodio, che fortunatamente non ebbe le dimensioni del pogrom di abissini del 1937, dedica un’attenzione meno distratta.

L’inizio dell’amministrazione italiana in Somalia è una delusione: lui, come tutti i “vecchi” italiani, si sente emarginato dall’arroganza dei nuovi burocrati (questa rivalità tra “vecchi” e “giovani” coloniali sembra una costante della nostra storia africana).

Decide allora, all’alba degli anni ’50, di rientrare in Italia. Non sarà un rientro definitivo, ma per il nostro uomo dai mille mestieri (compositore di inni nazionali, biscazziere, produttore di vino adulterato…) è l’occasione per darsi alla pittura, e alla scrittura. Pubblica qualche racconto e una commedia: senza però entrare nella storia delle patrie lettere.

È in questa nuova veste di scrittore che Dante Galeazzi fa un nuovo incontro con un personaggio famoso. In qualche modo riesce a far pervenire il manoscritto del suo romanzo a Curzio Malaparte, che se ne dichiara entusiasta (“un libro”, e la parola ‘libro’ è sottolineata), si impegna a curarne la pubblicazione, addirittura la versione cinematografica, per la quale ha già preso contatti con un produttore.


Malaparte è del 1898; è di dodici anni più vecchio di Flaiano. Nella prima metà del secolo XX, in cui la storia corre come un treno impazzito, dodici anni sono un autentico salto generazionale. Malaparte ha ventun anni quando Mussolini fonda i Fasci di Combattimento: per lui l’adesione al Fascio è una vera scelta. Così come la sua ruggine con il Regime è molto precoce.

Non starò a ripercorrere la carriera politica di Malaparte, in cui non si riesce mai a tracciare un confine netto fra il fascista eterodosso e l’antifascista; e forse l’unica vera chiave di lettura è uno sconfinato narcisismo.

Difficile capire che cosa pensasse Malaparte del contenuto del libro, di cui s’è fatto fare una copia dattiloscritta (“a mie spese”, precisa con squisita eleganza). L’episodio che sembra intrigarlo di più è uno strambo rito scaramantico, quando Dante, per scacciare la malasorte, assolda una vergine tredicenne perché venga ad orinare nella cabina del suo camion.

Per il resto, suggerisce modifiche alla scrittura, ed abbondanti tagli nel finale, che gli sembra noioso. “Per il titolo ci penserò. Deve essere un titolo moderno ed accattivante. Toglierò anche le sue critiche alla Amministrazione Italiana in Somalia. I giornali democristiani boicotterebbero il suo libro.” Una bella miscela di estetismo e opportunismo.

Ma il cancro avanza, e Malaparte muore nel 1957. La sua copia personale con le modifiche fortunatamente non si trova, e due anni dopo Dante Galeazzi pubblica il libro presso una casa editrice minore, nella versione originale. Non credo che ci siano mai state ristampe.

Degli interventi di Malaparte, l’unico che si concretizza è il titolo, Il violino di Addis Abeba: un titolo ruffiano, ma che non rende giustizia all’opera, anche se effettivamente per un certo tempo l’autore si era guadagnato da vivere come violinista nei locali di Aba. Rimane come sottotitolo quello che credo fosse il titolo originale, L’uomo sulla soglia, che trovo assai più evocativo. Ma non chiedetemi che cosa significa.


La copia che mi è arrivata tramite eBay è arricchita di alcuni timbri col nome dell’autore e due indirizzi: uno di Aden, l’altro di Roma. Vi è sulla prima pagina una dedica “all’indimenticabile Milly”, e all’interno è conservata una breve lettera dedicatoria alla stessa: l’ultima, finalmente, della lunghissima serie di celebrità inutilmente conosciute dall’autore.

Gregorio XVI tra Roma ed Africa

Riporto qui quasi integralmente un mex che ho appena inviato su it.cultura.religioni.cristiani.

Taglio la prima parte, che è la risposta ad un messaggio sul “terzo Segreto di Fatima”, con un link ad un sito pieno di scie chimiche, extraterrestri mummificati, crollo delle Torri Gemelle che sono solo un ologramma… Di questo sito riporto solo una sorta di “professione di fede cospirazionista”, che mi è sembrata esemplare per la sua patologica chiarezza:

…tutto quello che ci raccontano è una sceneggiata, e gran parte delle persone che si muovono ai piani più elevati della politica sono attori…


Ma…

… in questo stesso sito ho trovato un accenno ad un personaggio quasi dimenticato che oggi suscita il mio interesse.

Questo personaggio è il povero Gregorio XVI, alias Fra Mauro, alias Bartolomeo Alberto Cappellari. Personaggio in cui mi sono imbattuto un paio di anni fa, all’inizio dei miei interessi su Guglielmo Massaja. Perché fu lui a nominare Vescovo e Vicario Apostolico dei Galla l’energico cappuccino piemontese; il quale, appena prima di partire per l’Africa, fece visita al papa malato, e fu tra gli ultimi che lo videro vivo.

Questo personaggio è passato alla storia come la dimostrazione palpabile di quanto, già all’inizio del XIX secolo, lo Stato della Chiesa fosse una grottesca sopravvivenza del passato, della cui scomparsa la stessa Chiesa Cattolica dovrebbe rallegrarsi più di chiunque altro. E fra gli amministratori di quello Stato, Gregorio XVI fu sicuramente il peggiore. Lo testimoniano le grandi potenze dell’epoca, in primo luogo l’assolutista e cattolicissima Austria, che vedeva con preoccupazione l’accumularsi di tensioni sociali in uno degli Stati chiave del Nuovo Ordine della Restaurazione, e scongiurava inutilmente il Papa di intraprendere le indispensabili riforme per dare soddisfazione alle legittime aspirazioni del buon popolo del Patrimonio di San Pietro.

(Ma poi, ve li immaginate i papi del XX e del XXI secolo — ma già i grandi del XIX, come Leone XIII — alle prese con il problema di tenere insieme uno degli staterelli più strampalati dell’Europa cristiana — a occuparsi delle rotonde di Viterbo e dello sciopero degli spazzini di Frosinone…?)

Insomma, se Pio IX avesse avuto un pochino di più di spirito profetico — di cui pure non mancava del tutto —, avrebbe dovuto proclamare Santi tutti insieme Mazzini, Garibaldi e il gen. La Marmora.


Ma non è questo che mi interessa oggi.

Quello che mi interessa oggi è una curiosa contraddizione della Chiesa cattolica della fine del XVIII e del XIX secolo. Una specie di “doppiezza” (sia detto senza intento denigratorio), di cui immagino che in primo luogo i Papi dell’epoca abbiano sofferto moltissimo.

Di fronte al mondo moderno, la Chiesa alza le mani e si arrende. L’ottuso e un po’ ridicolo conservatorismo di fronte ad un’evoluzione inarrestabile è una aperta ammissione di sconfitta. Per un secolo intero, la Chiesa rinuncia a fare progetti per il futuro. Una condizione in cui credo che la Chiesa cattolica non si sia mai trovata, in duemila anni di vita — sicuramente non per un tempo così lungo.

Ma questo vale per l’Europa e l’Italia: il mondo in cui la Chiesa cattolica era nata, era vissuta per decine di secoli, che in gran parte aveva plasmato con la sua opera, improvvisamente le appare come una mostruosa e incomprensibile “…sceneggiata…”, di cui il gran Regista è il Demonio in persona.


Ma, a differenza dei buffi cospirazionisti d’oggi, la Chiesa del XIX secolo riuscì ad intravvedere una via d’uscita. E questa via d’uscita sono gli altri continenti. Quel Futuro, a cui in Europa chiude la porta in faccia — convinta che sia il Futuro ad escluderla — essa lo vede aperto nel Mondo Nuovo, in primo luogo in Africa.

Ciò su cui sto cercando informazioni, e che sembra ormai dimenticato da tutti — a parte qualche storico laico, poiché solo gli storici laici, non accecati dalle “scie chimiche” della partigianeria ideologica e dell’odio devoto, ogni tanto riescono ad aprire nuove vie alla ricerca — è l’azione del Prefetto della Società Cattolica di Propaganda Fide Fra Mauro Cappellari. Una prefettura che appare straordinariamente illuminata — uso deliberatamente quest’aggettivo che ai pretucoli sa di zolfo — come tutta l’azione missionaria cattolica della prima parte del XIX secolo mi sembra animata da autentico spirito profetico.

Non durerà a lungo; già nell’ultimo quarto del secolo la chiesa cattolica in terra d’Africa dovrà fare i conti con i nuovi poteri, e lo stesso detestato Stato italiano troverà in larghi settori delle Missioni dei docili servitori.

Ma almeno nella grande stagione missionaria — nell’epoca del Massaja e del Comboni, per intenderci — ma anche dell’ex garibaldino e cacciatore di mercanti di schiavi Romolo Gessi — quest’essere “fuori dal mondo”, questa autentica fuga dalla realtà fu paradossalmente il fermento culturale ed emotivo di alcuni grandi visionari, capaci di concepire mete che, ancora oggi, ci proiettano al di là dell’epoca dei colonialismi e dei postcolonialismi.