E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.
Manzoni, Promessi Sposi XXXVII
Tempo fa cercavo su eBay i Vangeli apocrifi in greco. Ho trovato l’edizione del Tischendorf, che ha ancora un suo valore, anche se è un po’ superata. Durante la ricerca mi cade l’occhio sugli Atti degli Apostoli apocrifi – sempre del Tischendorf e successivi aggiornamenti. Li ho presi per puro feticismo – non credo che metterò mai il naso in quel greco. Mi sono arrivati due volumi del 1959, in perfette condizioni.
C’è ancora il timbro della biblioteca: Stadtbücherei Bochum. E la sentenza:
AUSGESCHIEDEN (“escreto”).
Al fondo, la traccia dove la busta della scheda del prestito è stata staccata, e un’annotazione a penna, con la motivazione
11.01.95 Nie
che credo di poter interpretare come “mai consultati” a 36 anni dalla pubblicazione.
Eccomi così proprietario dell’“escremento” della Biblioteca Civica di Bochum. Una bella merda (Scheiße) di libro.
“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina” (variante: “una bandiera”).
Per la prima volta, in un recente thread sul gruppo FB → La lingua batte, ho visto attribuire quest’insulso luogo comune a Tullio De Mauro.
Fra i vari possibili autori viene in genere indicato il linguista Max Weinreich, il quale sosteneva di averla sentita pronunciare da uno sconosciuto partecipante ad un convegno sulla lingua jiddisch.
Indipendentemente dalla paternità (e su questo punto possiamo senz’altro lasciare tranquillo il povero De Mauro), la cosa divertente è che proprio lo jiddisch è incontestabilmente una lingua, anche se non ha mai avuto né un esercito, né una marina, né una bandiera.
Un’altra lingua, che nessuno si azzarderebbe a definire “dialetto”, è l’occitano, che è stato citato in quello stesso thread, anche se del tutto impropriamente. Lingua, per un certo tempo, di grandissimo prestigio internazionale; sulla produzione poetica in lingua occitana si sono modellate alcune delle più importanti letterature dell’Europa medievale: tra cui quella italiana. Anche qui, nessuna notizia di un esercito occitano, di una marina occitana.
Invece sì, il francese (anche quello antico, la lingua d’oïl) ha avuto un esercito, e poi anche una marina e una bandiera. Ed è con questi strumenti che ha ridotto l’occitano a un povero dialetto, che le persone a modo (così si diceva) usano solo in tre circostanze: quando vanno a caccia, a pesca, o al gioco delle bocce.
Detto questo, la smentita più clamorosa alla faccenda dell’esercito e della marina è infine la lingua italiana, che si è affermata non solo nello Stivale, ma in tutta Europa come grande lingua di cultura parecchi secoli prima che esistesse uno Stato italiano con il suo esercito ecc.
Poiché s’è parlato di jiddisch, merita ricordare che anche gli ebrei, quando hanno avuto un esercito, parlavano una lingua, che però al di fuori del loro misero staterello era del tutto sconosciuta. La grande fortuna della lingua ebraica si è avuta dopo la distruzione del Tempio, con la Schiavitù e poi la Diaspora. Per un breve periodo, nell’antichità, gli ebrei hanno avuto di nuovo un loro staterello; ed è stato allora che hanno rischiato di mettersi a parlare greco. Dopo la distruzione definitiva del secondo (ma forse si dovrebbe dire terzo) Tempio, la lingua degli ebrei ha avuto un grandissimo peso nella storia della cultura grazie alla promozione dei loro peggiori nemici, i cristiani. Ed è grazie a cristiani, che più di una volta sono stati tentati di sterminare definitivamente i loro “fratelli maggiori”, che il Libro dei Libri, scritto originariamente in ebraico, è diventato il Libro più letto al mondo.
E già che abbiamo citato la Bibbia, concludiamo dicendo che il Libro dei Libri è la più grande smentita a quell’altra insopportabile scemenza:
“la storia la scrivono i vincitori”
La storia più famosa del mondo è stata scritta dal popolo più sfigato del mondo.
“Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, disse una presentatrice televisiva ad una collega malata di cancro.
Che male c’è? È solo un proverbio.
“Dovete morire”, urlava una prof che nessuno vorrebbe come insegnante dei propri figli.
Ma tutti dobbiamo morire, no? È un dato di fatto. Mica una minaccia.
“Non sono razzista ma…” certo che non lo sei, ma… “Non vorrei mai un migrante come vicino di casa”, proclama un attore televisivo, di cui si ricorda un lungo intervento di insulti all’indirizzo di Rosy Bindi, alla Leopolda di cinque anni fa.
Be’, è un fatto, chi mai vorrebbe un migrante come vicino di casa? Al massimo qualche “ricco”, qualche “professore”.
Si lanciano messaggi di morte sul web, messaggi che poi vengono cancellati. “Mi scuso, non volevo minacciare nessuno”. Ma no, certo. E che avevamo capito?
Siamo nell’epoca delle non-idee, e del non-coraggio delle non-idee.
Alla fine, dopo mesi a parlare di “temi”, “programmi”, “cose”, “contratti”, la crisi è scoppiata sul “tema” più classico: un nome. Un nome sconosciuto ai più, che tornerà presto nell’oblio, perché in realtà la questione dei nomi era un’altra, riguardava due nomi ben diversi.
È da un po’ che si era capito che l’unico governo uscito dalle urne sarebbe stata un’alleanza Lega – 5Stelle: Ma contemporaneamente, s’era capito che quest’alleanza non si poteva fare, con due leader che proclamavano ai quattro venti “il vincitore sono io”.
“Le società van bene dispari, dicevano i vecchi, e tre sono troppi”.
Il problema più antico del mondo. Due galli in un pollaio.
Alla fine era sembrato che la soluzione fosse quella di rimandare la questione, mettere un qualunque Signor Nessuno a occupare la poltrona di Premier, nell’attesa che l’uno, o l’altro, decidesse che era giunto il momento della resa dei conti.
In questi casi, la vittoria è sempre di chi sa scegliere il momento giusto. Salvini non ha atteso che si facesse il governo. A lui non interessava fare un governo, in cui si sarebbe trovato in minoranza, senza la sponda del resto del centro-destra, a subire l’iniziativa dell’ultimo arrivato che dispensa sorrisi e “scrive la storia”.
Forse per istinto, forse per calcolo, forse per un’imbeccata venuta da fuori, ha trovato più conveniente rompere subito, sul nome di un oscuro professore di 82 anni; e su quel nome scatenare la rabbia anti-sistema della base leghista, di quel ventre rabbioso della destra italiana che non ha mai accettato le istituzioni della Repubblica e le lungaggini di un sistema di garanzie.
Di Maio ora si trova a subire l’iniziativa dell’“alleato”, deve seguirlo in una grottesca “marcia su Roma”, deve gridare più forte che può per attirare su di sé l’attenzione, deve buttarsi avanti per garantirsi una photo opportunity in prima fila.
Nessuno ha votato Paolo Savona.
Nessuno ha votato Giuseppe Conte.
Nessuno ha votato per avere un governo basato su una coalizione Lega – 5Stelle.
Chi ha votato 5Stelle ha votato per avere un governo “senza inciuci” guidato da Luigi Di Maio.
Chi ha votato Lega ha votato per avere un governo della coalizione di centro-destra guidato da Matteo Salvini.
Quello che è successo dopo il 4 marzo non ha niente a che vedere con i progetti e i programmi che si sono discussi prima delle elezioni.
Ma in democrazia è così. Si fanno previsioni, si fanno promesse, si vota, poi vediamo come sono andate le cose, e cerchiamo di regolarci. Possono essere scenari molto diversi da quelli previsti ed augurati, ma si fa la tela con il filo che s’ha. Con calma, e senza farsi il sangue cattivo.
Dopo quasi tre mesi di bizzarro teatrino, alla fine è nata un’alleanza Salvini – Di Maio, in cui l’unica cosa su cui i due sono d’accordo è che Salvini non si fida di Di Maio, e Di Maio non si fida di Salvini. Tant’è vero che si è proposto un premier “terzo”, un Signor Nessuno, noto solo in ristretti ambienti finanziari ed accademici, per fare da burattino, dietro lo schermo di un “contratto” dove c’è tutto e il contrario di tutto, in attesa che i due leader decidano che è arrivato il momento della resa dei conti.
Adesso crolla tutto sul nome di un professore di 82 anni, un Signor Nessuno noto solo in ristretti ambienti accademici e finanziari, una “pietra d’inciampo” che doveva rappresentare una prova di forza, per vedere fino a che punto si poteva tirare la corda.
Signor Salvini e signor Di Maio, adesso mettetevi calmi e cercate di trovare la quadra, se no avvalorate il sospetto che tutto questo sia successo solo perché non vedevate l’ora di tornare a fare campagna elettorale.
Quando si fa un governo, la prima cosa da fare è scegliere il Presidente del Consiglio.
Non è possibile discutere del “programma” se non c’è chi poi dovrà attuarlo, definendo le priorità: prima tagliare le tasse ai ricchi, come vuole Salvini, oppure dare un reddito ai poveri, come vuole Di Maio. Perché fare le due cose insieme non è possibile, e chi lo dice o è un fesso o è un imbroglione.
Quanto al programma, è ridicolo mettere insieme una serie di “punti” (venti e più) come se fosse un menu tassativo; si definisce un orientamento generale, che poi dovrà essere adattato volta per volta alle mutevoli circostanze della politica interna e internazionale – ed è questa la prima responsabilità del Presidente del Consiglio. Pensare di poter prevedere un progetto tassativo di qui a cinque anni, ed attuarlo paro paro, senza modifiche, lo può credere o un dilettante, o un ciarlatano. Perfino nei migliori ristoranti, c’è il solito menu, ma poi ti suggeriscono di prendere il “piatto del giorno”. E se il cuoco è bravo, questa è di solito la scelta migliore.
Insomma, questa discussione ridicola (“prima i “punti”, poi il “nome”) fa sospettare due cose:
o non sanno che pesci pigliare, e tirano a menare il can per l’aia, sperando che chissà, succeda qualcosa di nuovo per sbloccare la situazione;
oppure almeno uno dei due ha già in mente quel benedetto “nome”, ma sta aspettando il momento opportuno per imporlo all’altro, il quale sarà ormai così compromesso nella trattativa da non potersi tirare più indietro.
Ma la cosa che proprio non funziona è avere un Presidente del Consiglio che sia un burattino (un “dipendente”, secondo lo strampalato vocabolario dei 5*), che si muove un po’ di qua, un po’ di là, tirato per i capelli dai due capetti.
In somma, i casi sono due: o ci prendono spudoratamente in giro, o sono dei perfetti incapaci.
O una mescolanza, a vostro piacere, di entrambi i casi.
Poiché la → discussione in proposito del libro di Tino Vittorio è proseguita un pezzetto, con l’intervento di un nuovo interlocutore, per completezza ne riporto alcuni momenti. Preciso che non mi sento minimamente autorizzato a interpretare il pensiero del mio interlocutore, che quindi indico con le sole iniziali, e di cui riporto alcune frasi solo come collegamento alle mie risposte. Qui mi limito ad aggiungere alcune mie riflessioni per completare il mio pensiero, che comunque, per una piena comprensione, richiederebbe la lettura dell’opera di Tino Vittorio.
In un social ero entrato in una discussione su un libro che ho letto in ritardo: Italian Serendipity di Tino Vittorio, ed. Bonanno 2012. Qui pubblico alcune considerazioni in proposito.
Siamo nell’ambito delle interpretazioni del Risorgimento, ed in questo caso, si tratta di un’interpretazione esplicitamente revisionista in chiave meridionalista. Non so se il tema interessa qualcuno; in ogni caso, tanto dovevo alla cortese corrispondente.
Se ci fosse il Porcellum, oggi un Presidente del Consiglio di nome Matteo Salvini ci spiegherebbe perché non è possibile sbattere fuori 600.000 stranieri – perché non è possibile, chiaro? Perché… ci possono essere tanti perché, a scelta: colpa dell’Europa? Ma sì, l’Europa va sempre bene.
Se ci fosse l’Italicum, domenica prossima voteremmo al ballottaggio tra Salvini e Di Maio.
Ma non sono solo questi due, s’intende. L’altra volta, la coalizione di centrosinistra, allora vincente, ci disse che col 29,5% era possibile cambiare la Costituzione. E neanche quello fu un bello spettacolo.
Bisogna vedere ancora la distribuzione dei seggi, che con una legge elettorale così scombinata è difficile da prevedere; ma stando alle percentuali, la buona notizia è che i fasciorazzisti non hanno trionfato. Hanno avuto un buon risultato, ma hanno mancato l’obiettivo principale. Non sono riusciti né a resuscitare la salma di Mussolini, né a rivitalizza la mummia di Berlusconi, né a rendere credibile l’europarlamentare con il 90% di assenze: il partito di Salvini prende addirittura meno di quello di Renzi.
I nipotini di Priebke: FN e Casapound, rimangono una minoranza rumorosa e puzzolente, ma non dovrebbero riuscire ad ammorbare col loro lezzo di carne putrefatta le aule parlamentari.
Il fascismo in Italia rimane (per ora, e parzialmente) a testa in giù. Dico “parzialmente” perché la notizia peggiore è che il candidato del Ku Klux Klan è il nuovo presidente della regione Lombardia.
Gli altri risultati confermano le previsioni. I 5* sono il primo partito, ma non sono riusciti a superare la coalizione di destra, e devono salutare l’orgogliosa prospettiva di poter governare da soli.
La sconfitta del PD – la quinta in meno di due anni – più che annunciata, è stata puntigliosamente ricercata, con una serie di errori clamorosi sia al punto di vista politico (catastrofico quello della legge elettorale), sia dal punto di vista della comunicazione (una campagna elettorale praticamente inesistente). Dopo il referendum, sembrava una gara a chi faceva perdere più voti. L’ultima performance è stata rifilare Maria Elena Boschi alla SVP. Poi il nulla.
Il PD scende ora sotto la “soglia psicologica” del 20%. Complessivamente, come partito, e come coalizione, il 6% in meno rispetto al 2013. A questo punto un’eventuale difesa dell’attuale gruppo dirigente sarebbe una farsa surreale. Se fosse un film americano, vedremmo uomini e donne con la faccia scura che fanno su le loro cose in una scatola di cartone e si avviano in silenzio verso l’uscita posteriore.
Ma siamo in Italia, e ci aspetta un lungo piagnisteo.