La carriera di una lingua

Tra le formulette riduttive che si dicono sulla lingua, una è quella che definisce l’italiano “un dialetto che ha fatto carriera”.

In breve, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio scrivevano nel dialetto della loro città; poi, per motivi oscuri – una torbida cospirazione di accademici parrucconi, di aspiranti condottieri di eserciti, di apprendisti ammiragli di flotte – chissà come, questo dialetto è stato imposto come lingua a tutta l’Italia.

Non è proprio così.

Per prima cosa, la Firenze di Dante, Francesco, Giovanni, non è un piccolo borgo di gente semplice dove si parla come si magna. La Firenze del ‘300 è una città con una popolazione molto composita. C’è un’aristocrazia che vanta gloriose origini, ma in realtà è formata in massima parte da arrampicatori sociali, grandi proprietari terrieri che non sdegnano di sporcarsi le mani con il lavoro e soprattutto con il denaro, popolani arricchiti che si danno arie da gran signori. Sono emersi dal nulla in diverse fasi della storia della città, ma all’inizio sono stati tutti “gente nova e subiti guadagni”. E poi c’è il “popolo”, che non è il “popolo” dei populisti d’ogni tempo, ma un mondo variopinto di nuove professioni che cercano di ritagliarsi nell’economia in forte crescita del tempo il loro spazio di privilegio, sempre con la tentazione di fare il gran salto verso uno stile di vita più signorile.

E tutto questo mondo in fermento non è mai stata chiuso “dentro la cerchia di Fiorenza antica”, ma ha sempre avuto rapporti molto stretti con il mondo degli affari, della politica, della cultura italiana ed europea con un raggio di interessi sempre più ampio.

In questa città, che è l’esatto contrario della chiusura municipale, si forma Dante. E la sua formazione si nutre della cultura che all’epoca era la cultura d’avanguardia. Dante conosce la poesia provenzale e la poesia siciliana. E di nuovo bisogna ricordare che né il provenzale trovadorico, né il siciliano della scuola siciliana, sono la rustica favella del buon popolo non ancora corrotto dall’intellettualismo radical chic. Si tratta in entrambi i casi di lingue altamente formalizzate, filtrate attraverso il gioco letterario di circoli esclusivi, che si sono sforzati il più possibile di uscire dal localismo per costruire due koinè letterarie, quella della Francia meridionale (che comprende anche la Catalogna e una buona fetta di Padania) e quella dell’Italia meridionale. In più, Dante conosce il romanzo in lingua d’oïl, che non è più da secoli la lingua della contea di Parigi, ma una lingua già fortemente internazionalizzata.

Quando Dante comincia a scrivere, è in pieno vigore la scuola che lui stesso chiama “stil novo”. E lo stil novo non è la poesia siciliana tradotta in fiorentino. Lo stil novo nasce già come una corrente più ampia non solo della dimensione cittadina, ma regionale. Il primo Guido è un bolognese, altri vengono da altre città della Toscana.

Dante scrive parecchio anche in latino. Conosce a memoria tutta l’Eneide, ma non è in quel latino che scrive. Il suo è latino medievale. Ed il latino medievale è quello che i nostri linguisti da social chiamerebbero “una lingua che non esiste”, una lingua che non è mai compressa nella gabbia delle regolette delle buone maestre di una volta, quelle che ti facevano segnacci blu se azzardavi un “famigliare” con la g. Esistono tanti latini medievali quanti sono i centri di cultura medievale, anzi, tanti latini quanti sono gli scrittori. Il latino medievale porta sempre l’impronta fortissima del suo autore; e in alcuni, diventa terreno di vera creatività, di sperimentazione.

Firenze è la città dove si è formato Dante; ma non è la città dove è stata scritta la Divina Commedia.

Il trauma dell’esilio, dello sradicamento, l’affannosa inutile ricerca di un posto dove mettere nuove radici, è stato anche un enorme allargamento della sua prospettiva linguistica.

Ci sono nella vita di Dante due esperienze bolognesi, una prima dell’esilio, l’altra dopo. Bologna è un centro dove affluiscono maestri e allievi da tutta Italia e da tutta Europa, un centro di dibattito e di contaminazioni. Il bolognese dei bolognesi veraci è un dialetto dove ogni quartiere cittadino ha un dialetto tutto suo, ma non è certo quello il bolognese a cui Dante assegna un ruolo molto importante nella formazione del “volgare illustre”.

Poi c’è il periodo veronese, a contatto con la grande aristocrazia del nord-est. Poi va (forse) a Parigi, forse a Padova: altre due città universitarie.

Il De Vulgari Eloquentia è un tentativo di cavar fuori il sugo di tutte queste esperienze; è il primo esempio in tutta Europa di un’analisi scientifica della lingua moderna, ed il fondamento di una lingua che non esiste ancora, ma di cui ci sono tutte le premesse: una lingua che nasca già con una prospettiva né municipale né regionale, ma nazionale.

Poi c’è la Divina Commedia, e qui il discorso è breve, perché tutti voi la conoscete a memoria. E tutti voi sapete che la lingua della Commedia è una lingua in cui l’autore trasferisce la grande molteplicità delle sue esperienze culturali e linguistiche. Una lingua che non parte da Firenze per parlare ai fiorentini, ma parte da questo gran fermento linguistico per parlare ad un’Italia che è già in formazione.


Passiamo a Francesco Petrarca, un fiorentino che a Firenze c’è stato forse tre settimane in tutta la sua vita.

Francesco nasce ad Avignone, figlio di un guelfo bianco che ha subito lo stesso sradicamento di Dante. Ed anche Avignone è una città in gran subbuglio, dove si deve trovare alloggio a tutta la corte papale che s’è da poco trasferita là. Corte papale vuol dire corte internazionale, una corte dove ovviamente si parla parecchio francese. Non sono competente dell’argomento, quindi non saprei dire cosa significhi “francese” nell’Avignone dei papi; ma sicuramente è una lingua di respiro molto ampio.

Ormai della grande stagione trovadorica arriva appena un’eco, e non sembra che sia questa una grande fonte di ispirazione per Francesco.

La prima lingua di riferimento per lui è sicuramente il latino, lingua nella quale scrive la quasi totalità della sua opera. Il latino di Petrarca è ormai oltre il latino medievale, siamo alle premesse dell’umanesimo, e questa lingua, che è contemporaneamente lingua della cultura, lingua della liturgia e del diritto canonico, lingua della diplomazia papale, in lui si sforza di modellarsi sui grandi modelli classici e postclassici, avendo come faro nel buio il latino di Agostino per guardare ad un’Europa che cerca di scrollarsi di dosso il medioevo.

E poi c’è il fiorentino, che ovviamente per lui è in primo luogo il dialetto del papà, un certo Petracco, esule senza qualità. Lo stesso fiorentino che aveva sentito Dante da bambino. Non è ovviamente quello che usa Francesco nelle due uniche operette in volgare: una raccolta di poesie, un frammento di poema allegorico. Per Francesco il fiorentino è la parlata di una città per la quale si prova una nostalgia così grande che si fa di tutto per non tornarci, perché si sa che non si reggerebbe alla delusione.

Il fiorentino di Petrarca quindi non è più il fiorentino di Firenze, ma quel volgare “che non esiste”, rispetto al quale la stessa lingua mutevole, sperimentale, tumultuosa di Dante pecca di municipalismo. Francesco cerca di partire non dalla Commedia, ma dall’esperienza lirica dello stil novo. Però Dante ha contato, e molto, non tanto come modello formale, ma come esempio di una poesia che rifugge ormai dal semplice gioco letterario di società, e si sforza di dire cose. In Dante questo porta a una lingua aspra, varia e mutevole com’è aspro, vario e mutevole il mondo. In Francesco lo sforzo di una lingua essenziale, che nel vocabolario specialistico e ristretto della lirica cortese trova ampia dimora, deve raggiungere una semplicità che non è innocenza primordiale, ma distillazione di studio. La lingua di Francesco deve giocare sulle microvarianti, per mostrar che potea la lingua nostra. È la lingua finissima dell’arte del tardo Gotico, premessa del Rinascimento, la lingua del mutevole gioco di consonanze della polifonia. È in questo senso, non nella maniacale selezione lessicale, che va intesa l’importanza capitale di Francesco nella storia dell’italiano.


Visto che siete già stufi di leggere come io sono stanco di scrivere, dirò poche parole – ma non perche sia meno importante degli altri – di Giovanni Boccaccio.

Dei tre, è quello per il quale la produzione latina è meno importante. Ma è quello che ha dato veramente corpo ad una lingua moderna, trasportando in prosa quello che i primi due avevano fatto prevalentemente, o esclusivaente, in poesia.

Certo, Giovanni è fiorentino. Ma è un fiorentino che ha trascorso gran parte della giovinezza a Napoli: sede di una corte internazionale di lingua francese, che prima era sotto una corte internazionale di lingua tedesca. Giovanni è un uomo di corte che quando può scappa per i mercati e i quartieri malfamati della grande città portuale; gioca a ingaglioffirsi, e poi a rivestire di panni curiali il resoconto delle sue avventure.

Giovanni ha una venerazione sconfinata per Dante; e soffre di un discreto complesso di inferiorità verso il suo corrispondente Francesco. Ma di entrambi assimila e porta al massimo grado la lezione: totale aderenza al reale, una naturalezza che è il massimo traguardo dell’arte.

È questa la lingua che Dante, Francesco, Giovanni hanno consegnato all’Italia. Una lingua che fin da allora nessuno, in Italia, ha mai pensato di chiamare “dialetto di Firenze”.

Vaccinazioni

Ieri ho fatto la prima punturina con l’AstraZeneca – il vaccino della mutua.

Non sono morto – e questa è la prima sorpresa.

La seconda, è stato ricevere un certificato con le mie precedenti vaccinazioni.

Naturalmente non avevo nessuna memoria precisa delle punturine da bambino; ma non ricordavo neanche di aver fatto un richiamo per l’antivaiolosa nel 1980. Dev’essere stato per via di quello sgangherato viaggio in India con alcuni amici… Evidentemente per posti così esotici si prevedeva una precauzione supplementare.

Lo strano primato di Donald Trump

Il sistema elettorale degli Stati Uniti d’America è molto complicato, e quasi del tutto incomprensibile all’estero.

Più o meno tutti sappiamo che il Presidente non viene scelto direttamente dai cittadini, i quali, con una votazione Stato per Stato, eleggono 538 “grandi elettori”. Poiché la rappresentanza dei singoli Stati non è proporzionale alla popolazione, e in genere tutti i “grandi elettori” di ogni singolo Stato votano il candidato che è risultato vincente in quello Stato, indipendentemente dalle proporzioni dei voti ricevuti dai diversi candidati, la composizione del “collegio elettorale” nazionale non riflette direttamente il risultato elettorale. Può capitale addirittura che un candidato che ha preso una minoranza di voti popolari si trovi ad avere la maggioranza dei voti dei “grandi elettori”. Così è capitato nel 2016, quando Trump ha avuto 304 grandi elettori, contro i 227 della Clinton, pur con uno scarto a favore di quest’ultima di quasi tre milioni di voti popolari.

Un caso del genere è piuttosto raro, l’ultima volta si era verificato nel 2000, quando Al Gore, con circa mezzo milione di voti popolari in più, era stato superato da George Bush: furono decisivi i 25 “grandi elettori” della Florida, dove lo scarto fra i due era di poche centinaia di voti, e il conteggio fu a dir poco tempestoso. Altri casi del genere si sono verificati nel 1824, 1876, 1888, ma mai con uno scarto in favore del perdente così forte come in quest’ultimo caso.

Solitamente, il Presidente uscente, se si ripresenta, ha buone probabilità di essere rieletto. È capitato solo otto volte (nel 1800, 1840, 1888, 1892, 1912, 1932, 1980, 1992), che un presidente in carica, presentatosi candidato per un secondo mandato, sia stato battuto.

Non è quindi mai capitato finora che un presidente abbia riunito nella sua persona queste due assai poco invidiabili caratteristiche: di vincere un’elezione con una minoranza di voti (con circa 3 milioni di voti in meno), e di essere battuto nelle successive elezioni (con oltre 7 milioni di voti in meno).

In una parola: Donald Trump è stato il Presidente meno votato di tutta la storia degli Stati Uniti d’America.

Il covid e l’art. 32

“Patriotic Cloth Face Covering. Eagle motif. Bird. Beak. America, USA…”

Art. 32.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Quelli che citano a sproposito la Costituzione dovrebbero ogni tanto leggerla.

La salute è un diritto fondamentale: dell’individuo e della collettività.

Non è una mia pretesa stravagante essere tutelato contro i danni e i pericoli per la mia salute: è un mio diritto. Io non chiedo, io pretendo di essere tutelato.

Ed è un interesse collettivo: la salute delle persone e la salute della società sono strettamente collegate. Non ci possono essere cittadini sani, senza una società sana, né una società sana, senza cittadini sani.

Non è una scelta opinabile dei pubblici poteri tutelare questo diritto: è un obbligo.

Lo Stato deve tutelarmi da fattori patogeni esterni, come l’amianto o un virus. E deve tutelarmi da comportamenti irresponsabili di singoli o gruppi che possono mettere a pericolo la salute individuale o collettiva: sia quelli che inquinano le falde acquifere, sia quelli che creano le condizioni favorevoli alla diffusione di un’infezione.


È un dato evidente che in questo la sinistra sia molto più sensibile della destra. In primo luogo perché la sinistra è più sensibile ai principi fondamentali della Costituzione democratica, mentre la destra tende ad usarla per finalità politiche contingenti. Ma soprattutto perché la tutela della salute è una vecchia battaglia della sinistra, sia politica, sia soprattutto sindacale.

Le battaglie per la tutela della salute sono una vecchia bandiera del movimento operaio – almeno fino a quando è esistito un movimento operaio organizzato capace di incidere sulla vita sociale. E ad un certo punto è emersa una parola d’ordine: La salute non è monetizzabile. Non è accettabile lo scambio salute contro denaro, non si può chiedere ai cittadini e ai lavoratori di accettare un danno o un pericolo sanitario in cambio di vantaggi economici.


Le Costituzioni non sono tutte uguali. Mentre da noi la tutela della salute è un obbligo costituzionale, non lo è per esempio nella Costituzione degli Stati Uniti d’America. La Costituzione americana non cita il diritto alla salute. Proclama invece il diritto dei cittadini al possesso di armi.

Da mesi negli USA ci sono circa mille morti di Covid al giorno. La cosa, dal loro punto di vista costituzionale, non è rilevante. L’importante è che sia tutelato il diritto dei cittadini americani a morire con la pistola in tasca.

Vive la France

Negli anni ‘70 e ‘80 i vignerons francesi assalivano le autobotti che trasportavano vino italiano e le rovesciavano nei fossi.

Vi fu un evento clamoroso nel 1975, quando l’assalto fu portato nel porto di Sète.

Ora quei coraggiosi combattenti occitani hanno una vittoria postuma. Il sindaco di Lione ha dato loro ragione: la TAV Torino – Lione non serve ai francesi.

I francesi non hanno bisogno delle importazioni dall’italia.

Siamo noi che abbiamo bisogno delle esportazioni verso l’Europa.

I francesi, anche quando sono verdi, sono nazionalisti.

Noi, anche quando siamo verdi, siamo coglioni.

Il piccolissimo Principe

Uno di luoghi comuni più stucchevoli della politica è “contano i programmi, non le poltrone”.
È la frase che ognuno dice dell’altro: “voi pensate solo ai nomi, alle poltrone, noi invece…”
E si rimane lì, a pensare ai programmi – come se i programmi non fossero cose che possono camminare solo con le gambe degli uomini.
Eppure cinquecento anni fa Machiavelli ci ha spiegato molto bene che l’arte della politica si compendia in questo: l’abilità di mettere la persona giusta al posto giusto.
Il resto, sono chiacchiere.

Daccapo a zero

La vicenda Sea Watch è finita con una figuraccia mondiale per l’Italia.
I 43 sono sbarcati – questa era l’unica soluzione sensata fin dall’inizio.

Per tutto il tempo che è durata la sceneggiata, qualche centinaio di altri migranti giunti con i loro mezzi (il che vuol dire: tutti quelli che erano partiti, partiti, meno quelli che sono annegati), sono sbarcati in varie località italiane, anche a Lampedusa. Qualcuno è arrivato su una spiaggia, qualcun altro in un porto, e tutti sono sbarcati.

Come è sempre capitato sotto tutti i governi, compreso il “governo del cambiamento”.

Lo stesso giorno in cui nel porto di Lampedusa un qualche funzionario troppo solerte imponeva ad una motovedetta della Guardia di Finanza una pericolosa manovra ostruttiva, un’altra imbarcazione della Guardia di Finanza, ed un’imbarcazione della Guardia Costiera, salvavano in mare una cinquantina di naufraghi.
Undici sono stati accompagnati proprio a Lampedusa, senza che nessuno ci badasse. Proprio mentre le telecamere riprendevano, ad uso dei media di tutto il mondo, lo sbarco dei 43 della Sea Watch, in mezzo alle urla di un gruppo di esagitati che insultavano e minacciavano di stupro la comandante Rackete, un’altra imbarcazione della Guardia di Finanza zitta zitta sbarcava quegli altri undici poveracci ripescati in mare.
Immagino che i finanzieri delle due imbarcazioni avranno passato la serata insieme, davanti ad un boccale di birra, meditando sugli strani casi della vita.
La Guardia Costiera ha poi provveduto a sbarcare in Sicilia gli altri naufraghi recuperati: una quarantina circa.

Ci credo che i Figli di Salvini sono furenti.
Questa vicenda dimostra che l’Italia non ha una politica sui migranti. Questo Governo non l’ha mai avuta. Questo Governo da oltre un anno sostiene la bufala dei “porti chiusi”. Ma i porti non sono chiusi. Non sono mai stati chiusi.
Di fronte ad una singola nave guidata da una distinta signora trentenne, si è mostrato come sia materialmente impossibile chiudere i porti.
O per lo meno, come l’attuale Governo non abbia la minima su cosa debba fare per attuare praticamente questo suo proposito.

Il Governo del Cambiamento torna da dove era partito. Non ha una politica sui migranti. Non ha un progetto per contrastare l’immigrazione; non ha un progetto per gestire quelli che in un modo o nell’altro sono già arrivati – e continueranno ad arrivare.
Per ora si limita a lanciare bufale sul Web – come quella dei “porti chiusi”.

E temo che continuerà a farlo ancora per molto.

Dei migranti, del pubblico, e del privato


L’iniziativa della nave Sea Watch è illegale? Sì, è illegale (*).
Possiamo lasciar gestire il soccorso in mare ai privati delle ONG? No, non possiamo.
Su questo, direi che non ci sono dubbi.

Cerchiamo di risalire un pochino indietro, per capire come si è arrivati a questa situazione.

Nell’ottobre 2013, di fronte all’acuirsi della crisi in Libia, ed alla spaventosa tragedia dei naufragi, il governo italiano lanciò l’operazione Mare Nostrum. Quest’operazione, affidata alla Marina Militare italiana, aveva come obiettivo la sicurezza nazionale (il controllo delle acque del Mediterraneo centrale) e l’azione umanitaria (il salvataggio delle vittime di naufragi).

L’operazione ebbe un tale successo, che subito si levarono altissime critiche: il numero dei salvati era toppo elevato. Si diceva che questo rappresentava un incentivo alle partenze, e che se l’Italia avesse smesso di “chiamare” i migranti, il flusso sarebbe calato drasticamente. Su pressione di vasti settori dell’opinione pubblica e della politica, dopo solo un anno l’operazione Mare Nostrum fu interrotta: funzionava troppo bene per gli standard del nostro paese.

Si ignorava (temo in qualche caso consapevolmente) una grande lezione della storia: vi sono circostanze in cui masse di persone continuano ad andare avanti, anche se le probabilità di andare incontro alla morte sono sempre più elevate.

In ogni caso fu una scelta sciagurata e del tutto irrazionale. L’Italia è il paese con la più grande estensione di coste del Mediterraneo; ed è il più vicino all’area di massima instabilità del Nord Africa. Pensare che il controllo di quel tratto di mare sia cosa non che ci compete, è pura follia. Un po’ come se i Carabinieri si chiudessero a chiave in caserma, e mandassero messaggi sui social per lamentare che là fuori c’è disordine e illegalità.

Diciamo pure: questa scelta alla fin dei conti si è dimostrata antinazionale, come la maggior parte delle scelte dettate dalla logica dell’estrema destra – anche quando non è un governo di destra a farle.

L’idea all’inizio era quella di sostituire l’operazione navale italiana con un’operazione europea; ma subito si vide che le altre nazioni se ne disinteressavano. Tragicamente comica la risposta inglese: “Non abbiamo abbastanza navi!” Gli Inglesi che dicono di non avere abbastanza navi!

Insomma, il Mediterraneo rimase sguarnito.
A questo punto interviene una seconda grande lezione della storia, ancora più evidente della prima. Dove c’è una necessità impellente, e lo Stato non interviene, intervengono i privati. Ovviamente, essendo privati, con la loro logica di privati, non con la logica dello Stato.

Così vediamo dei privati che senza seguire le indicazioni del Governo viaggiano per il Mediterraneo ripescando gente per portarla in Italia. Fanno bene? Fanno male? Ci sono diverse opinioni in proposito. Ma la vera domanda è: perché si è permesso che questo compito indispensabile del controllo della navigazione fosse assunto da dei privati, quando dovrebbe essere funzione vitale dello Stato?

A questa domanda nessuno sa ripondere.

Certo, la destra dice “chiudiamo i porti”. Come se i Carabinieri dicessero: chiudiamo i tram, così non ci salgono i borseggiatori. I porti non sono chiusi – non possono, materialmente, essere chiusi; né si possono chiudere tremila km di costa.

Dall’alto dei palazzi romani, dalle colonne dei social qualcuno in cerca di pubblicità si esibisce con cadenza più o meno mensile in urla e strepiti contro qualche nave ONG. Del tutto indifferenti a questo canaio, gli sbarchi continuano con cadenza quotidiana.

Un fallimento catastrofico, dal quale sarà ben difficile risollevarsi.

(28 giugno 2019)


(*) Il corso degli eventi ha evidenziato, in modo assai più rapido di quanto mi aspettassi, quanto sia stato imprudente da parte mia quest’uso della figura retorica della concessione. Avrei dovuto scrivere, con una più evidente sfumatura di dubbio, “Ammettiamo che l’iniziativa della nave Sea Watch sia illegale…”

(3 luglio 2019)

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