Non è l’Italia 2

Ancora sul posto fisso.

[Bibliografia: “Il posto”, di Ermanno Olmi, 1961]

In tutta la recente discussione, il “posto fisso”, di cui l’Italia del passato sembra che fosse la patria esclusiva, è associato invariabilmente all’impiego statale, o peggio, all’assitenzialismo. E si dà per scontato che qui (insieme all’art. 18) si trovi la causa del debito pubblico.

L’illicenziabilità come espressione del pestifero “buonismo” dell’Italia mammona

Anche questo luogo comune va, per usare un eufemismo, contro la realtà storica.

In Italia, fino agli anni ‘80, il posto fisso era prevalentemente legato alle grandi aziende, per lo più industriali.

Adesso più nessuno se lo ricorda, ma c’è stata un’epoca in cui in Italia avevamo aziende medio-grandi e grandi e grandissime che operavano nel campo della chimica, della meccanica (che non è non solo automobile: si pensi agli elettrodomestici, alle macchine per ufficio ecc.), dell’elettronica, dell’informatica, della cantieristica, delle costruzioni ferroviarie, delle costruzioni aeronautiche, della siderurgia…

Era anche l’epoca in cui l’economia italiana era caratterizzata da forti esportazioni (questo per prevenire l’obiezione di chi vorrebbe far credere che si trattava di un’economia chiusa, “sovietica”). Erano quindi aziende competitive.

Certo, in caso di difficoltà, c’era il trucco: la svalutazione della moneta, e subito le esportazioni riprendevano. Ma era un trucco che usavano un po’ tutti, Americani in testa. (In ogni caso adesso quel trucco non c’è più, e dobbiamo farcene una ragione.)

È nella natura delle strutture grandi e complesse, come le grandi aziende – pubbliche o private, non fa differenza – avere una massa di personale stabile, almeno un ampio zoccolo duro di dipendenti assunti a lungo termine, tendenzialmente a vita.

Adesso non sto troppo ad argomentare se no mi ammazzate, ma è irragionevole che un’azienda con 100.000 dipendenti, che opera in un campo un po’ più complesso della raccolta dei pomodori, metta per strada ogni sei mesi tutto il suo personale e il giorno dopo rifaccia il pieno – magari riassumendo quelle stesse persone che aveva fatto fuori il giorno prima.

Mi limito a dire che esigenza primaria di qualunque organizzazione complessa è quella di poter fare un minimo di affidamento sui propri dipendenti; cosa impossibile in quella specie di situazione di separati in casa in cui, tanto da una parte quanto dall’altra, si sa che il rapporto finirà a brevissimo termine, vada come vada, e ognuno si guarda in giro per cercare di capire cosa farà domani.

Ora , tutto questo avveniva quando l’Italia era una grande potenza industriale. Anche prima dell’articolo 18. Un posto in una qualunque di queste grandi aziende era ambito per tanti motivi, ma in primo luogo perché dava la sicurezza di una notevole stabilità. Era possibile rimanere in quell’azienda fino all’età della pensione; in certi casi era prevedibile anche un certo avanzamento di carriera (certo, una carriera con le modalità tipiche dei grandi organismi burocratici. Ma nessuno è perfetto.)

Tutto questo finisce intorno al 1980. Una dopo l’altra, queste grandi aziende entrano in crisi, vengono ridimensionate, molte chiudono del tutto. È a questo punto, mentre cadono le cittadelle del posto fisso, che il debito pubblico comincia ad espandersi fino a diventare incontrollabile. Non quindi a causa del posto fisso: ma contestualmente con la scomparsa di questo.

Da anni ci si vanta delle piccole e medie imprese. Io ho sempre trovato un po’ stucchevole questa visione un po’ populista della folla di padroncini che tengono in piedi l’Italia. Va bene che ci siano le piccole imprese, ma se abbiamo solo quelle, è perché abbiamo perduto le altre. So benissimo che non si possono creare posti di lavoro per decreto, non si possono creare posti fissi per decreto, non si possono creare grandi imprese per decreto. Ma vorrei che si cominciasse ad ammettere che la perdita del posto fisso non è la grande “riforma” che renderà l’Italia più moderna e competitiva; è un adeguamento al declino.

Cominciamo a chiamare le cose con il loro nome, se vogliamo avere un briciolo di speranza di cambiarle.

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