Giovanni Pascoli

Ioannis Pascoli Carmina

Poesie latine di Giovanni Pascoli


Lunedì 11 settembre 2000
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La produzione in latino di Giovanni Pascoli attraversa tutta la sua carriera poetica, dal 1891, anno di composizione del Veianius, al 1911, anno in cui pubblicò, oltre ai due Inni (a Roma e a Torino), il suo poemetto più noto, Thallusa, per il quale ricevette il premio internazionale di Amsterdam pochi mesi prima della morte.
Occasione e stimolo per queste composizioni poetiche furono quasi sempre i Certamina Hoeufftiana, istituiti nel 1843 per iniziativa dello studioso olandese J. H. Hoeufft. A queste gare poetiche il Pascoli partecipò regolarmente, spesso presentando anche due o tre composizioni per volta; ne riportò tredici volte il primo premio, consistente in una medaglia d’oro, ed altrettante volte la magna laus con diritto di pubblicazione dell’opera a spese della Reale Accademia Olandese delle Scienze.
Ma sarebbe ingiusto valutare questi testi come semplici esercitazioni erudite; si tratta spesso del miglior Pascoli, per ricchezza di linguaggio e intensità di ispirazione. In lui il latino è una lingua viva, con la quale riesce a ricreare sia i temi della poesia classica, sia i momenti più umili della vita quotidiana, tanto degli intellettuali quanto della gente comune. Di grande interesse sono le operette dedicate ai conflitti religiosi che segnarono l’avvento del cristianesimo, e la sofferta attenzione rivolta alla condizione degli schiavi, su cui la letteratura latina antica è del tutto muta.

I poemetti del Pascoli sono qui presentati nell’ordine dell’edizione mondadoriana citata nell’Indice; da quella vengono anche: l’ordine dei componimenti, che non è cronologico, ma per argomenti; le traduzioni dei titoli; e i titoli delle singole sezioni.


Sunti 1


LIBER DE POETIS – IL LIBRO DEI POETI

Catullocalvos - Satura (1897)
Il contrasto di Catullo e Calvo

Premiato con magna laus al concorso di Amsterdam del 1898.
Il termine Satura, qui come nel Fanum Vacunae, indica un componimento vario di metri e di argomenti. La narrazione che fa da cornice è in esametri; i vari componimenti utilizzano i metri usati da Catullo.

Lo spunto è tratto dal carme L di Catullo. Un giovane elegantissimo, pallido e smunto, si aggira nella via delle tabernae veteres, presso il tempio di Castore e Polluce. Giunto di fronte ad una taverna, che risuona della danza di una mima, viene raggiunto da un altro giovane. I due amici si salutano affettuosamente. Sono C. Valerio Catullo e il suo amico C. Licinio Macro Calvo, accomunati dalla passione per una poesia elegante e raffinata. Cominciano a discorrere, accennando scherzosamente agli attacchi che Cicerone, rappresentante della cultura tradizionale, muoveva ai giovani cantores. [1-51]
Entrati nella taverna, si siedono di fronte a un boccale di vino. Catullo è turbato dalla danzatrice; ne approfitta Calvo per sottrargli le tavolette di scrittura, su cui riesce a sbirciare l’inizio del carme LI: Ille mi par esse deo... Catullo lo rimprovera del furto. Calvo dice che l’amico è pazzo ad esaltarsi per la moglie di Metello Celere. Ma se scrivere poesie è da pazzi, lo sono entrambi. [52-70]
Fra i due si accende una gara di poesia. Prima l’uno, poi l’altro tracciano sulla cera carmi improvvisati. Amore, nostalgia, atmosfere notturne sono i temi predominanti. [71-322]
Si levano alla fine, e tornano alle proprie case. Ma Catullo non riesce a dormire; riprende lo stilo, e compone una poesia dove narra di quella notte. [323-328]


In altre raccolte poetiche il Pascoli inserì traduzioni libere di carmi del Catullocalvos:


Moretum (1900)
Il moreto

Premiato con magna laus al concorso di Amsterdam del 1900.
Esametri.

Orazio, Mecenate e Virgilio si concedono una gitarella fuori porta per sfuggire alla confusione della grande città. Uscendo da Porta Capena, osservano disgustati l’affollarsi degli arricchiti che ostentano le loro ricchezze. Orazio si chiede come sia possibile che simili degenerati, nati schiavi, ora siano così potenti in Roma; ma Mecenate cambia prudentemente discorso. [1-101]
Arrivati in campagna, si fermano ad una villa. Subito sembra che gli animali riconoscano in Virgilio, che finora non ha parlato, un loro amico. Intanto il fattore si fa incontro agli ospiti offrendo da bere e da mangiare. Vaga nell’aria il forte odore del moretum, un piatto rustico fatto di erbe e ortaggi, ricco di aglio e di altri ingredienti dall’aspro sapore. I tre viaggiatori assaggiano, scherzando fra di loro, questo cibo, per loro insolito. [102-167]
Dopo pranzo vanno a fare una passeggiata per i campi. Improvvisamente sentono un fragore. Un vecchio schiavo stava aggiogando dei vitelli, quando uno degli animali si imbizzarrisce, e corre trascinando il carro. Lo schiavo con un grido riesce a fermarlo prima che travolga i tre cittadini togati. Il fattore spiega che costui, che tutti chiamano Biondo, era un guerriero delle selve del Nord; allontanatosi troppo dai suoi compagni, venne catturato, e da quando fu reso schiavo non si è più tagliato i capelli, che ora sono grigi. Nessuno come lui è capace di trattare gli animali: sembra che parli il loro stesso linguaggio. [168-206]
È ora di tornare a Roma. Tornano a parlare di quell’arricchito, incontrato al mattino, e dello schiavo della fattoria. Mecenate, vicino agli orientamenti politici di Augusto, sostiene che Roma dovrà porre un termine alle conquiste. Ma Virgilio comincia a parlare con voce profetica: verrà un giorno in cui i biondi guerrieri della Germania scenderanno a Roma sui loro carri; allora si vedrà se gli arricchiti sapranno difenderla. [207-231]
La comitiva passa nuovamente per Porta Capena al tramonto. Orazio maledice scherzosamente Mecenate per avergli fatto fare quell’indigesta merenda. [232-242]


Ecloga XI sive ovis peculiaris (1908)
L’Egloga undecima, o la pecora dello schiavo

Premiato con magna laus al concorso di Amsterdam del 1909.
Esametri.

Virgilio, Marco Plozio Tucca e Lucio Valerio Rufo sono in viaggio verso Sinuessa. Poiché cala la sera, devono fermarsi in una locanda di campagna. La padrona vanta comodità cittadinesche, una cena raffinata e una calda sala da bagno. Data un’occhiata in giro i tre preferiscono rinunciare alla cena: Vario e Tucca vanno direttamente al bagno, dove ben presto battono i denti per il freddo. Virgilio invece va a spasso nei campi. Improvvisamente, da una capanna, sente la voce lamentosa di un vecchio, che parla in mezzo ai singhiozzi. Virgilio si accosta ad ascoltare, non visto. [1-50]
Si tratta di un vecchio schiavo, che narra ad un compagno la sua vita di servitù. Ha provato tutte le sofferenze, i lavori più umilianti, i maltrattamenti più crudeli. Alla fine il padrone lo manda in campagna, a pascolare le pecore. Fra queste vi è un’agnellina malaticcia, senza madre. Il servo la ottiene in regalo dal padrone, per il quale la bestiola non ha nessun valore. Ecco che finalmente lo schiavo ha una proprietà, anzi, una compagna. Le dà un nome: LIBERTÀ, e la chiama continuamente con questa parola benaugurante. Ha un sogno: l’agnellina crescerà, farà dei piccoli, e il povero servo avrà un piccolo peculio con cui comprare dal padrone la sua libertà. [51-105]
Ma è solo un sogno. La pecorella gli muore, senza aver potuto generare. Il vecchio, disperato, fugge. Ora non ha altra prospettiva che la tortura e la morte sulla croce. [106-126]
Si sente un rumore. Si avvicina il garzone dell’osteria, mandato dagli amici a cercare Virgilio. Il vecchio schiavo, pensando che stiano cercando lui, fugge terrorizzato, coi capelli arruffati e la gola soffocata dalla tosse.
Virgilio ora medita sulle sue poesie; confronta la vita dei suoi pastori arcadi con quella di questo povero vecchio. Non dovrà comporre una undicesima Ecloga, per dar voce alle lacrime di questo pastore? No, simili tristezze sono troppo umili, o troppo grandi, per la poesia. Egli comporrà un’opera più alta, cantando i lavori dei campi. [127-157]
Virgilio si guarda attorno. Ovunque per i campi si vedono uomini incatenati, la cui condizione è peggiore di quella delle bestie che essi accudiscono. Nella locanda non riesce a chiudere occhio. Si alza prima dell’alba. Le stelle sembra che gli parlino, e gli annuncino un giorno in cui una nuova luce splenderà sulla terra. [158-187]


Cena in Caudiano Nervae (1895)
Cena nella villa di Nerva a Caudio

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1896.
Esametri.

Lo spunto è preso dalla Satira I di Orazio, citata in epigrafe.
Dopo aver ascoltato i rozzi buffoni che hanno rallegrato la serata, Orazio, Virgilio e Mecenate cominciano a parlare di poesia: dei poeti greci, che alcuni imitano, altri disprezzano, e dei poeti latini come Catullo. Si parla anche delle opere a cui i presenti stanno lavorando: Orazio compone i suoi Sermones, Virgilio sta per terminare le Eclogae. [1-53]
Riemerge la vecchia domanda: dove potrà la poesia latina trovare una sua autentica ispirazione, che non sia semplice imitazione dei Greci? Per Orazio la risposta sta nella satira, mentre per Virgilio si devono cantare i lavori dei campi. Torna una nuova età dell’oro: finalmente Giano resterà tranquillo, chiuso nel suo tempio; il vagito di un bimbo annuncia tempi nuovi. [54-150]


Fanum Vacunae - Satura (1910)
Il tempio di Vacuna

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1911.
Per il termine Satura vedi il Catullocalvos. La cornice narrativa è in esametri; i diversi componimenti utilizzano i metri oraziani degli Epodi e delle Odi.

Orazio prende possesso della villa donatagli da Mecenate. Prima dell’alba è svegliato dal canto dei galli, e rimane a lungo tra la veglia e il sonno. Il poeta ripensa alla casa paterna, all’infanzia trascorsa in campagna. Questa pace lo ripaga delle angosce della guerra civile e dei disgusti della vita cittadina. [1-144]
Il poeta si leva, e comincia a vagare per la campagna. Ascolta il canto degli uccelli; saluta il suo podere, i campi, osserva il lavoro dei contadini. Addentrandosi nei boschi, scopre il torrente Digentia; lo ripercorre fino alla fonte, che chiama Bandusia, dal nome della ninfa protettrice di una fonte in Puglia legata ad un suo ricordo d’infanzia. [145-280]
Ora sale sulle colline, abbandonando i campi coltivati. Attraversa i boschi, meditando su quei luoghi deserti. [281-342]
Improvvisamente scopre le rovine di un antico tempio. Questa vista lo fa pensare al giorno in cui tutto finirà. Ma sotto l’arco del tempio gli si fa incontro il vecchio fattore Quintipor. Orazio viene a sapere da lui che si tratta del tempio dell’antica dea sabina Vacuna. Mentre il poeta, pieno di stupore, entra nella cella ed adora il nume, il servitore confessa: equivocando sul nome, anche lui, come tutto il popolino romano, l’aveva creduta la dea della vacanza; per questo aveva insistito presso il padrone per affrettare il viaggio in campagna. Ma ora è deluso; quella terra dà edera, non uva. [343-421]


Senex Corycius (1902)
Il vecchio di Còrico

Presentato al concorso di Amsterdam nel 1902 ebbe la magna laus al terzo posto.
Esametri.

L’operetta è ispirata ad un episodio del IV libro delle Georgiche di Virgilio (vv. 125 sgg.).
Rifugiatosi a Taranto per sfuggire ai rigori dell’inverno, Virgilio osserva le api, alle quali vuol dedicare il quarto libro delle Georgiche. Ma gli manca l’ispirazione, e non riesce ad andare avanti nel lavoro. [1-60]
Discorre con un vecchio ortolano, che sta curando amorosamente le sue piante. È nativo di Còrico, in Cilicia, e non è di molte parole. Virgilio teme di seccarlo, e sta per allontanarsi. Ma poi fra i due nasce un’intesa, e il vecchio istruisce il poeta sui lavori dei campi. [61-121]
Siamo ora all’inizio dell’estate; il vecchio guarda in silenzio il mare e le navi che escono dal porto. Virgilio ha appena ricevuto una lettera da Mecenate, che lo richiama a Roma. Si lamenta con il vecchio di questa partenza, ed invidia il vecchio che invece può restarsene nel suo campicello. Ma quello scoppia in un pianto improvviso. È un vecchio pirata, e non sogna altro che di poter tornare sul mare, vedere il cielo notturno e sentire il vento fra le sartie.
Virgilio, tornando, pensa fra sé: «Nuova via bisogna tentare» e decide di abbandonare le Georgiche. [122-182]


Sosii fratres bibliopolae (1899)
Libreria fratelli Sosii

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1900.
Esametri.

Nella più importante casa editrice di Roma si stanno trascrivendo copie delle Georgiche di Virgilio. Mentre il padrone detta ai servi copisti, alcune persone si fermano ad ascoltare. Un reduce delle guerre civili, un vecchio repubblicano ora riabilitato, Pompeo Varo, mostra ad un poeta della vecchia scuola, Furio Bibaculo, una copia delle Satire di Orazio appena uscita dalla bottega, e ne ottiene un giudizio sprezzante. [1-72]
Due vecchi grammatici, sostenitori della vecchia poesia, Orbilio e Valerio Catone, brontolano contro le nuove mode, e se ne vanno, uno da una parte, l’altro dall’altra, scuotendo la testa. [73-111]
Furio Bibaculo compiange la sorte dei due vecchi maestri, ora ridotti in miseria, e se ne va. Sopraggiunge Orazio, accolto affettuosamente da uno dei fratelli Sosii. Orazio e Pompeo Varo si guardano incuriositi, poi si riconoscono: hanno combattuto insieme in guerra, dalla parte dei cesaricidi. [112-150]
I due rievocano i momenti passati insieme, e la strage di Filippi. Ma per Orazio ormai è un tempo passato; lui ha chiuso il tempio di Giano, ed aspira alla pace. [151-204]


Veianius (1891)
Veianio

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1892.
Esametri.

Il poemetto trae spunto dalla seconda epistola di Orazio.
Veianio, vecchio gladiatore, da un anno vive tranquillo in campagna, accanto alla casa di Orazio. È giorno di festa, si celebra l’anniversario dell’addio all’arena. Mentre servi e familiari godono la giornata di riposo, Veianio se ne va ad ammirare il suo podere. [1-45]
Ma il mormorio della Digenzia e il ronzio delle api lo inducono al sonno. Nel sogno tornano le ombre del passato: si vede nuovamente nell’arena, e di fronte a lui vi è Siro, che egli aveva ucciso tempo prima. Deve di nuovo combattere; ma gli mancano le forze, le ginocchia si piegano, Siro lo incalza. Ora soccombe, mentre la folla è in piedi col pollice verso. Gli sembra che il vincitore gridi il suo nome: «Veianio, Veianio»; ma è Orazio che lo chiama, e gli ricorda che oggi è giorno di mercato. [46-100]


Phidyle (1893)
Fidile

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1894, a cui fu presentato insieme con il Laureolus.
Esametri.

Trae spunto dall’ode III 23 di Orazio citata in epigrafe.
Orazio torna da una passeggiata alla fonte Bandusia, come ha chiamato la sorgente della Digenzia che scorre accanto al suo podere (vedi il Fanum Vacunae). Doveva stare in campagna cinque giorni; invece ci starà dei mesi. [1-21]
Mentre sta meditando di sacrificare un capretto agli dei, gli si avvicina una giovane contadina, che lo saluta e si rallegra per il suo ritorno. Orazio risponde al saluto, contento di vederla così in salute; ma la vita della ragazza è dura; la madre è morta, il padre è vecchio, i fratellini ancora piccoli. Eppure grazie a lei la dispensa è sempre piena. [22-103]
«Pheidýle! » (economa, risparmiatrice) esclama il poeta, augurandole una vita serena. La ragazza parla delle sue disgrazie: la vacca malata, i cattivi raccolti, il bimbo infermo. Sacrificherà un vitello sul monte Albano a Cero e Cerere e i Lari. Lasci stare l’animale, dice Orazio; gli dei si accontenteranno di un sacrificio più umile.
Si separano. Da lontano il poeta vede la ragazza che alza le mani e il viso al cielo. [104-170]


Reditus Augusti (1896)
Il ritorno di Augusto

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1897.
Esametri.

L’operetta è ispirata all’ode III, 14 di Orazio.
La folla si riversa nelle strade per festeggiare Augusto, di ritorno dalla guerra cantabrica. Fra di loro c’è anche Orazio, che a stento riesce a farsi largo. Tutti si spingono, ma niente paura: ormai è tornata la pace, e più nessuno teme di morire di morte violenta. [1-71]
Tornando a casa, il poeta ripensa ai tempi di Filippi, quando il mondo era sconvolto dalla guerra civile. Ormai tutto è cambiato, e anche lui è cambiato, dopo vent’anni: il vigore di un tempo è scomparso. [72-92]
È inutile rimpiangere il passato. Il poeta manda il servitorello a comprare vino, profumi e ghirlande. Ma con chi festeggerà? Il ragazzo vada dalla bella Neera, la citarista, e la inviti. Ma se dovesse farsi avanti il portinaio, o lei stessa dicesse di no, non insista. Poco dopo il servo ritorna. Neera ha detto di no. [92-110]
Orazio è ormai rassegnato a pranzare da solo, e comincia a meditare un’ode per Augusto. Ha appena riposto lo stilo, quando sente dei passi, una mano batte alla porta, una cetra viene posata per terra. È Neera, che non ha dimenticato il suo poeta. [111-127]


Ultima linea (1906)
Ultima linea

Medaglia d’oro al concorso di Amsterdam del 1907.
Esametri

Il titolo è ispirato all’oraziano mors ultima linea rerum (Ep. I, 16, v. 79).
Orazio, ormai vecchio, vaga solo e assorto nei suoi pensieri per Roma, ripercorrendo luoghi che gli furono già familiari. Da poco è morto Mecenate, e anche il poeta sente avvicinarsi la morte. Non tornerà più, come era solito fare ogni anno, all’arrivo dell’estate, nel suo podere in campagna. [1-50]
Orazio si guarda intorno. Roma ormai è irriconoscibile. Grandi edifici monumentali sorgono da ogni parte, cancellando i segni della povera vita di un tempo. Giunto al Tevere vede un cippo con un’iscrizione, postavi dieci anni prima, per ricordare i ludi saeculares celebrati da Augusto. Il poeta, quasi trasognato, legge: «Compose il carme Quinto Orazio». Dopo aver visto l’orrore delle guerre civili, Orazio aveva cantato il ritorno alla pace e alla prosperità. È da compiangere Virgilio, che dopo aver cantato la nuova età dell’oro, non l’ha vista. Ma il poeta non muore mai del tutto. [51-107]
Tornato sulla Via Sacra, si imbatte in Aristio Fusco (Sat. I, 9, vv. 60 sgg.). I due rivivono il passato, e Fusco parla di personaggi illustri e scandali famosi. Roma non è mai stato così grande, né così corrotta. Fusco vede sul volto di Orazio i segni della morte imminente. Gli dice che fra i Giudei si parla della prossima nascita di un Re della Pace, che sconfiggerà la stessa morte. Orazio lo interrompe: ormai si sente la notte addosso, e non lo vedrà. [108-142]


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