Martedì 14 settembre 1999    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

INNO A TORINO

I

[INVOCAZIONE E PROTASI]
Toro divino ch’oltra due fiumane
giaci e, fiso nel gran murmure, guardi
l’Eridano, che passa e che rimane:

macro pascesti sotto i baluardi
donde, i Titani si sporgean, le spine5
dei rovi, un tempo, ed il salistio e i cardi!

Ti distendevi immenso sul confine
delle montagne, nella notte, attento
tra il fioccar bianco e le tormente alpine;
facesti il nerbo di cento anni in cento,10
solo e rubesto, caute le pupille,
sbalzando al piano, corneggiando al vento.

Amavi l’ombra, amavi le tranquille
acque e verzure; eppure avesti in sorte
la guerra eterna, dai mille anni ai mille.15

Passavi i fiumi baldo allora e forte,
cedevi passo passo, e insanguinato
col dosso all’Alpi combattevi a morte.

Da due nemici preso a volte in guato,
di qua di là, volgevi tu d’un salto20
a questo e quello il fiero capo armato.

Alfine come statua di basalto
tu ti piantasti quadro sulle sponde
Ticine, or pronto a rintuzzar l’assalto,
or volto verso il piano, oltre quell’onde,25
verde, ove il tuo nemico, il tuo rivale,
erbe non sue pasceva e non sue fronde:

il collo in arco, a fronte bassa) male
pensando, e il sí nel fiero cuore e il no...
finché mugliasti, rauco, trionfale,30

lungo; e l’Italia tutta ne sonò.

II

[LA MIGRAZIONE DEI TAURINI]
Quale eri tu? Non l’ITALO tu forse
che per la grande terra della sera
trasse un fatale popolo, e la corse
tutta col nome che tuttor non era?35

Fuggíano, andando, le paludi oscure
tinte d’un lividore di tramonti;
fuggían le macchie vergini di scure
e il fuoco acceso notte e di sui monti.
Sospesi, se temere, se sperare,40
tendean l’orecchio ad altri gridi umani;
ma non s’udiva che scrosciare il mare
e rintronare lava di vulcani.

Emergeano cavalli-d’-acqua a torme,
spruzzando pioggia dalle froge grosse.45
Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme,
chiedendo a sé, quella tribú, che fosse.

Fendeva i boschi un calpestio selvaggio
ed un fragor di grandi alberi infranti.
Pareva un cieco nembo; era il passaggio,50
là, di rinoceronti e d’elefanti.

E quando a notte era sparita, avvolta
d’aride foglie la raminga gente,
a prender sonno, tutta notte in volta
andava l’ombra del leon ruggente.55

Ma sempre tu, senza guardarti attorno,
guidavi, o Toro, i tuoi Taurini erranti,
allor che i piè, sempre piú lenti, un giorno
fermasti. T’era una palude avanti:
una palude gialla che tra l’ulva60
lasciava sette cime già scoperte
di colli. La rapace aquila fulva
gridava all’acqua che stagnava inerte.

Ma nubi nere e sfavillío di lava
uscian di notte dalle vette nude65
dei monti, intorno, e sempre sussultava
la terra e balenava la palude.

Era lontana l’augurale aurora,
che s’aspettava. E tu, col tuo profondo
muglio, colei ch’era nascosta ancora70
dall’acqua ed alga, la chiamavi al mondo.

Dopo gran tempo era per balzar fuori
Roma, nei dí che da te spunta il sole,
Toro che spargi sulla terra i fiori
e in ciel t’impenni tra le stelle sole.75

Roma era allora cinta dalla dia
vigile Terra. Tardo, a poco a poco,
continuasti, o Toro, la tua via,
volgendo al tuono il capo, spesso, e al fuoco.
Tutta cosí la terra senza nome80
varcasti lungo il risonante mare
passando fiumi e valli oscure; e come
fosti alla fine del fatale andare,

la Primavera Sacra che dai solchi
natii fu data ai venti e alle venture,85
il tuo ramingo popolo, i bifolchi,
ITALO, tuoi, levando l’aste pure,

dissero: Italia! Vollero che il breve
lido del mare fosse Italia, fosse
di te. L’Etna alitava, tra la neve,90
nuvole, ver’ la verde Italia, rosse.

Poi dove il Sole ha i pascoli, tu insieme
ai tuoi Taurisci a nuoto un dí passavi.
Ma sopravenne dalle prode estreme
l’Eroe piú dio che gl’Immortali ignavi.95

«Indietro» disse, e tese l’arco. Indietro
volgesti allor, parando le tue torme,
girando spesso attorno gli occhi tetro
ponendo i piedi sulle tue grandi orme.
Passando, quella ch’era un dí palude,100
vedesti arare e seminar già doma.
Era un pastore dalle membra nude
che seminava l’avvenir di Roma.

Aveva atteso te, la primavera
tua, la tua stella. Anche di lí cacciato,105
spingevi innanzi la tribú tua fiera,
volgendo il capo, ed obbedendo al fato.

T’era alle spalle, simigliante a notte
oscura, te seguendo sempre al varco,
una grande ombra in mezzo a nubi rotte,110
l’ombra di lui, con nudo e teso l’arco.

Ma tu posasti, dove due fiumane
angolo fanno, certo del destino.
Si sparse intorno per capanne e tane
il tuo tenace popolo Taurino.115

Appiè dell’Alpi t’accostasti come
sopra una soglia. Il tuo viaggio vano
pensavi e il lido cui tu desti il nome,
e l’avvenire, grande, alto, lontano.

III

[LA PROFEZIA]
Itale vergini, Alpi dal bel velo120
bianco, tendenti all’alto, che la veste
lasciate lungi dagli sguardi impuri,
la veste, sí di prati e di foreste
cader lasciate, ma soltanto in cielo:
di quali voci allora e qual concerto125
empian le Madri i neri boschi cupi!
quali lontani portentosi auguri
gemean negli antri, o dritte sulle rupi
gridavan alto tra la neve e il vento!
– Un re verrà (fermo è nel fato e fisso)130
dalla sventura. Caccerà camosci
per l’Alpi sue. Sempre nel cuore il fischio
avrà dei venti, sempre avrà gli scrosci
delle valanghe e l’anelante abisso.
Il re vedrà, tra tra nubi grigie e meste,135
un segno bianco e snuderà la spada.
Il re porrà tutto sé stesso al rischio
per liberare tutta la contrada,
alzando al cielo il suo segno celeste.
Il re trarrà dalle grandi Alpi al piano140
di nuovo il Toro; dal suo doppio fiume,
lungo la terra della stella, al mare;
a riveder la prima Italia al lume
del pino acceso dal suo gran vulcano.
Questi, quel Donno, il Regolo fatale.145
Gl’Itali udrà gridare di dolore.
Gl’Itali lo vedranno cavalcare
con l’asta lunga. O Roma, egli, vittore,
dell’elmo ferreo t’armerà, che ha l’ale. –
Cosí le madri predicean nel santo150
orror dei boschi, ed ora al sacro fonte
sotterra dell’Eridano. E, pur bassa
fosse la voce, trascorrea dal monte
Vesulo sino al mare Adriaco il canto.
Via via le ripe faceano eco; e in doppi155
lunghi filari le sorelle fise
a rimirar l’acqua ch’eterna passa,
tutte, in udir, crollavano improvvise
le loro chiome tremule di pioppi.
Abbrividiano come per un blando160
soffio di venti. Un dolce suono usciva
dalle lor foglie ov’era un usignolo.
Cosí lunghesso la lunata riva
pareano andare in compagnia, cantando.
Faceano un solo inno d’amore i puri165
virginei canti. E tu, come una nave
bianca dall’acqua fluttuando a volo,
cantavi ancor piú forte e piú soave
le morti, o cigno, degli eroi futuri.
Gli eroi nel bosco del perenne alloro170
erano insieme assisi al sacro fonte
dell’Eridano, e tutti, redimita
già delle vitte candide la fronte,
diceano l’inno della gloria in coro.
Anime pure, anime senza sangue175
erano ancora, ancor sul limitare;
che alfin trovato il lume della vita,
alla lor Patria dar la vita, dare
tutto voleano alla lor Patria il sangue.

IV

[ANNIBALE]
Taurina gente, sacra sin dagli anni180
primi all’Italia, o fuochi accesi in vetta
delle bianche Alpi, o saldi cuori e forti,
o guardie eterne poste a vigilare
l’estrema, immensa, ardua trincèa di Roma!
L’avea, la forza del maggior nemico,185
varcata già la cerchia di granito,
le avea forzate l’ultime muraglie
sacre d’Italia e della sacra Roma.
Veniva già col vento e la tempesta,
invisibile in mezzo alla tormenta.190
Sul capo suo cadeva franto il cielo
che nascondea nel polverío le turbe.
Per cime e valli andava, e il suo cammino
dalle macerie era, del cielo, ingombro.
Ma egli andava, come in un gran sogno,195
sempre, non mai volgendo gli occhi, avanti.
Intorno a lui sonava il faticoso
nitrito de’ cavalli, a cui le sabbie,
auree nel caldo anelito del sole,
rideano al cuore; avvezze a pascolare200
sotto le palme, le turrite mandre
barcollanti incedean degli elefanti.
Alle sue spalle, un fragor grande, crolli,
fuga, tumulto, e scrosci di foreste
schiantate e grosso crepitar di fiamme.205
Era un serpente enorme che con torve
spire seguiva, e i culti campi larga-
mente prostrava e sradicava i boschi
e con la coda distruggea le intere
città; che tutto con la bocca ardente210
dava alle fiamme, insieme, ed alla morte.
Era la vïolenta idra straniera,
la sventura d’Italia, che d’allora
avrebbe osato rompere i confini
sacri in eterno, e sulla devastata215
terra l’immane corpo arrotolare
e covar sopra ceneri di messi
e sopra roghi di città distrutte.
Allora in prima il mal serpente infranse,
per farsi via, le rupi ond’è costrutto,220
insino al cielo, il Termine d’Italia;
Termine immenso che da mare a mare,
col fondamento nel lor fondo, incurva
sé stesso e sembra a Dio caduto un arco.
Allora in prima con le spade in mano225
guizzanti, voi sbalzaste su, Taurini,
e sulla soglia della patria terra
gettaste il sangue, sin d’allor col sangue
segnando il patto con il vostro fato.
[IULIA AUGUSTA TARINORUM]
      Ma voi vedeste chi, le italiche Alpi,230
da questa Italia le ascendea Romano;
ma voi vedeste poi le italiche armi
oltre i confini propagar la pace
del giusto Lazio. In mezzo a voi, Taurini,
come nel marmo in cui la vita scorra,235
Cesare apparve. Nel paludamento
imperïale ei conducea l’Alauda
fulva le chiome: intorno a lui le scuri
nei fasci, e i pili della sua coorte.
Oppur liete parole egli intrecciava240
coi fidi amici, o nella molle cera
solchi imprimea col vomere, gittando
in quella il seme del suo gran pensiero.
Ora i fasti romani, ora le guerre
per terra e mare, e il mondo vinto, e, in mezzo245
ai suoi trionfi e alla sua pace, Roma;
or meditava arguti versi e dolci
esili carmi, e si beava il cuore.
Qui mentre un dí cadea la neve a fiocchi,
dicono, entrò nella capanna trista250
d’un re selvaggio. Largo il re, di latte
giovò gl’ignoti, e loro appose i frusti
d’uno stambecco. E la coorte in tanto
motti avventava contro il re dei monti,
gran cacciatore, e l’un mostrava all’altro255
quel re seduto sulla panca al fuoco,
rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno
disse: «E’ mi pare il dio Cernunno, il dio
della ricchezza, con le corna in capo».
Cesare, grave, disse allora: «Io primo260
sia qui piuttosto che secondo in Roma!»
Regolo alpino, tu balzasti allora,
a un tratto, su, dalla massiccia panca.
Di nera luce ardevano al Romano
gli occhi mortali; dalle tue pupille,265
splendeano ignude due cerulee spade.
Nel focolare arse piú chiaro il fuoco,
vampeggiò, crepitò, fece faville.
E per le forre, con un’eco arcana
dell’infinito, a lungo mugliò una270
raffica, come se parlasse il Tempo.
Allora avanti Cesare quel Gallo,
irto di peli il labbro, stette, e parve
grande del pari, ed esclamò: «L’augurio
accetto. Viva io qui tranquillo e pago275
di questo regno povero, cacciando
i cervi, errando pei selvaggi monti,
fin ch’io non possa essere il primo in Roma!»
Risero tutti, sí, ma la lontana
posterità ventò sulla coorte280
quasi alitando i secoli futuri.
Cesare quindi una città di guerra
fece ai Taurini, e la muní di vallo,
e di due torri ornò le porte, e, cauto
dell’avvenire, i veterani astati285
pose in questo romano accampamento,
forti coi forti. E la quadrangolare
città nel suolo si piantò, sicura
per le sue pietre e piú per i suoi cuori.
A destra poi, per una grande porta,290
badava ad ogni voce, ad ogni suono,
se udisse mai venire le coorti,
se un clangor, lungi, si levasse al vento,
frangesse il vento uno squillar di trombe,
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi295
della legione, e Roma ritornasse:
e se, di tra gli stípiti rimasti
l’eterna fuga a contemplar degli anni,
s’avesse alfine a ritornare a Roma.
Fuggiva il tempo, e l’acqua dei due fiumi300
fuggiva anch’ella, in grande oblio di tutto.
Dalle sue porte la città spiava
i quattro venti, rivolgendo a un tratto
l’attento orecchio ognor dall’Alpi a Roma.
[LA CROCE DI COSTANTINO]
      Ecco luccicar d’armi ampio e di schiere.305
Ferro era tutto, che copria cavalli
e cavalieri, e tutto il piano era aspro
come di fulva ruggine di ferro.
– Romani voi? Partiti sí da Roma,
ma non Romani. Dove i pili e i valli?310
Che v’appiattate sotto il fosco ferro? –
Ed altre schiere ecco venir dall’Alpi
traboccando dall’alto arco dell’ampia
porta d’Italia. Per il ciel sereno
in faccia ad essi era una bianca croce.315
Stupore ebbe le genti, e il condottiere
– Prendi l’insegna della tua vittoria! –
udí. Vinsero in vero, e le lor brevi
spade la via trovarono del sangue
sotto le squamme. In mezzo al vostro cielo320
restò, Taurini, quella bianca croce,
ora lucente nell’azzurro, ed ora
scialba, e da un triste nimbo incoronata;
finché quel segno fu dalla vittoria
ripreso in mano, quando, o Italia, forte325
martire, Italia, delle genti, orlavi,
recando in alto la tua verde palma,
la veste bianca di purpureo sangue.
[LA CORONA D’ITALIA]
      E Roma intanto dalle sette cime
era crollata, e dell’Esperia guasta330
da ferro e fuoco, nulla piú che l’ombra
era, del nome. E tempo corse, e il nome
anche svaní o come in un rogo immenso
ultima brilla e muore una favilla.
Duca era allora dei Taurini un uomo335
di quei barbati, che nemici a Roma
avea la biondeggiante Elba mandati.
Il duca era partito per le liete
nozze del re, per le fiorenti mense.
Appena giunto era nell’aula: un tuono340
rimbombò, subito, ed un lampo insieme
illuminò per l’aula le criniere
fulve e le barbe e le dense aste e l’azze
razzanti, e il re. Li scosse e impietrò tutti,
ed il palagio con un lungo rombo345
scrollò. – Del re breve la vita e il regno!
Duca Agilulf, diremo noi tra breve
te re. – Queste Parole e’ le nascose
nel cuore, il duca, e ne ronzava il cuore
profondo. Ma non volsero molti anni:350
furono vere. Né, concordi, a grida
sonore i duchi porsero a lui l’asta,
a lui dicendo di regnar su loro;
ma la regina fu che il regno e un colmo
calice, prima a fior di labbro attinto,355
offerse a lui di rosso italo puro
vino, e gli disse: «Generose genti
come codesto vino vendemmiato,
Re Agilulf, su colli che il sole ama,
tu reggerai; ma l’arte dell’impero360
è presso loro, e tu da lor l’apprendi».
Fecero quindi un tempio. Era, sull’alba
dei secoli, uno errante nel deserto.
«Fate le vie» gridava, «e le spargete
di palme: l’aspettato è per venire!»365
Fecero a lui di marmo un tempio, e dono
posero in esso una corona d’oro
fulgida, cui cingesse l’aspettato,
il re d’Italia ch’era omai per via.
Ma l’oro puro intorno inanellato370
era di ferro, che già ferreo chiodo
fu della croce. – Oh! come tutto è vero
Ma lo vedranno i secoli lontani.
Vero! Alla croce sarà reso il chiodo!
Vero! Al sovrano de’ Taurini resa375
sarà l’aurea corona. Egli su tutta
l’Italia re dominerà. L’Italia
renderà questi agli Itali e al destino.
Ma dopo lunghi secoli con molto
purpureo sangue, ma con fuoco e ferro! –380

[IL DUCA FERREO]
      Allor col ferro impresero i Taurini
a perigliar la cara vita, e sempre
alla futura patria addimostrarsi,
in disventura ed in povertà, forti.
E si pareano immemori del fato385
e pur del nome e dei costumi antichi
e del linguaggio che fu già di Roma.
Né piú le genti capo avean: l’augusta
città fatta straniera: e valli e monti
dell’armi ostili eran per tutto ingombri..390
E tramontata era la sacra insegna,
né v’era alcuno che levarla al cielo
potesse ancora: Donno era lontano;
esilïato Donno era dalle Alpi.
Presso i due fiumi, come corpo morto,395
come travolto da una gran valanga,
Toro progenitore, eri prostrato:
quando, Testa di ferro, tutto ferro,
alto levando, come alfieri la spada,
puntando ai fianchi del destrier gli sproni,400
egli tornò. Tornava dall’esilio:
dalla vittoria. E il popolo Taurino
gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi!
Vero il tuo nome dice Emanuele!»
Egli ristette e il suo cavallo immane405
fermò, trasse le redini, e nascose
nella guaina la sua grande spada.
[IL RISORGIMENTO]
      Non fosti tu, tu stesso, che, tre volte
volti cent’anni, la levasti al sole?
Grida di morte, grida di dolore,410
in ogni tempo, d’ogni parte, al cuore
giungeano ardenti. Quel rapace drago
strisciava per la terra della sera,
tutto abbattendo, e il popolo le ingiuste
verghe provava e le superbe scuri415
dei re tiranni. Sí, ma tu le udisti
quelle infinite grida di dolore,
la grande spada tu, d’un dí, snudasti,
la croce bianca tu, d’un dí, levasti.
Oltra Ticino, sommovesti all’armi420
tutte le genti e le guidasti a guerra
ch’è santa e pia, se libera e redime.
Poi col tuo nome mille eroi due navi
salgono, e vanno all’isola che porta
chiare di dei, di semidei, le tracce.425
Rossa la veste dei remigatori
divini; capo era il divino Ulisse.
E tu combatti ancora e sempre. Alfine
re dell’Italia tutta imponi al capo
il ferro e l’oro della sua corona.430
La croce alfine segno di vittoria,
splende dal cielo sulla terra verde
ch’ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco.
Ed a nessuno e in nulla mai secondo,
piccolo alpino re selvaggio, a Roma435
stai grande, e resti eternamente a Roma.

V

[IULIA AUGUSTA TAURINORUM]
Accampamento fatto a piè del monte
già dal grifagno Cesare ai futuri
figli d’Italia, o tempio dei vessilli,
o ara donde il Console gli augúri440
prendeva, augusti, col nemico a fronte!

Per guerre, qui di secoli lontani,
erano poste le aquile dell’oro;
qui ripetea la búccina i suoi squilli
brevi che un coro ricevea canoro445
di trombe e il busso dei timpani vani.

Qui sempre il suolo trito di stridenti
plaustri, qui di concordi ferree peste.
Erano le coorti e le legioni.
Qui si guardava la purpurea veste450
da dar, sull’alba della pugna, ai venti.

Qui sempre avvenne di mirar le squadre
dei fluttuanti veliti e il tumulto
delle torme dai quadruplici tuoni;
qui sempre alcun triario, come sculto,455
star tra’ novelli: – Narra dunque, o padre! –

Perché accampato in questo accampamento
era un ultimo esercito romano.
La sua milizia era infinita e dura.
Esso tra il monte s’attendeva e il piano,460
fedele ad un antico giuramento.

Scorsero gli anni e i secoli. Ed armato
esso aspettava di ritornar, quando
fosse chiamato, sotto quelle mura.
Aspettò qui per secoli, il comando,465
ma Roma ve l’avea dimenticato.

Bianchi frattanto, sotto il muschio e i pruni,
marmi e colonne e lapidi, grandi orme
della gran madre, archi e sepolcri infranti,
vedeano intorno e dure austere forme,470
stele di primipili e di tribuni.

Vedean già rotti ancor salire al monte
archi che l’acque conduceano al basso.
Parean lontane file di giganti,
d’ardui giganti, i quali passo passo475
salían con l’urne, un dopo l’altro, al fonte.

E custodíano, nel domar la rude
terra, l’antica arte e l’antico onore
dei forti aratri e delle industri falci.
Ondeggia il campo di frumento in fiore,480
di verdi steli ondeggia la palude!

Verdi, i bei campi, verdi, le canore
acque, ma piú sorridono i giocondi
clivi con l’ampio serpeggiar dei tralci,
donde i purpurei calici ed i biondi,485
che dànno gioia o danno forza al cuore.

L’un vino, austero per gli austeri, ed abbia
lode dai forti. L’altro poi s’effonde
aureo nell’ampio calice iridato
col tremolante mormorio dell’onde490
cui, vasta, succhia, nel tornar, la sabbia.

Ma l’uno e l’altro, è bello, tra i nepoti
e i dolci amici, nella patria terra,
bere in convito parco, ove l’armato
deposte l’armi narri della guerra495
e sciolga, salvo e di sé pago, i voti.

VI

Salve, o città forte di vallo e fosso!
salve, o bivacco italico di scelte
anime! o campo che non fu mai mosso!
o insegne mai dal loro suolo svelte!500

Te la dea Roma disegnò quadrata,
qual essa fu, premendo il solco a fondo,
col grande aratro dalla prua ferrata,
con cui fendé fecondatrice il mondo.
Come legione ferrea che si schiera,505
con pari file, dritte e quadre, invade
il vasto campo; cosí tu, guerriera,
con le tue case e con le tue contrade.

In te milizia è tutto; anche l’austere
voci e parole e l’anime dei tuoi;510
che, se squilli la tromba del dovere,
corrono a morte, umili ed alti eroi.

Né, pur sempre crescendo in ogni parte,
oblío ti prese del mensor di Roma,
o fida al primo cardine, ed all’arte,515
ubbidiente, dell’antica groma.
[LA CITTÀ OPEROSA]
Ma le diritte nuove strade intorno
son or tenute da coorti nuove,
e un fragor d’armi nuovo, e notte e giorno,
l’immenso accampamento empie e sommuove.520

Sono telai dalle infinite spole,
dagli infiniti pettini sonanti;
sono gran magli che sulla gran mole
del rosso ferro piombano incessanti.
Esce il vapor con fischi di tempesta.525
Ogni metallo intenerisce e strugge.
Morsa da mille denti ogni foresta
si fende e scinde, e intanto freme e rugge.

Fiumi lontani che, da un alto balzo,
a valle giú precipitano bianchi530
di schiuma, un uom divino, nel rimbalzo
loro, li prese e li serrò nei fianchi.

Cosí cavalli come prima, a schiere
ubbidienti, li guidò dall’erte
al piano, dando al vento le criniere,535
spruzzando l’acqua dalle froge aperte.

Mentre là stanno tra ghiacciai, tra foci
erme, lontani dal rumor del volgo;
li chiama un cenno, un lieve urto, e veloci
scendono piú del solco della folgore...540

ove con morsi e redini li frena
l’artiere, o caccia con la sferza al segno;
l’artier che intento a un canto di sirena
doma, con loro, il ferro, il marmo, il legno.
Non solo. I chicchi ai bimbi e’ foggia, e, come545
pegni d’amor, già prima li accarezza;
ciò che ti fa non nota sol per nome,
ma dolce ancora d’intima dolcezza,
[LA GRAN MADRE]
ad ogni madre, o città buona, o pia
madre su tutte, che con dolce affetto550
la prole tua, per tanta ch’ella sia,
tutta la stringi e te la scaldi al petto.

A lei prepari i bei giardini in fiore,
le scuole ornate, l’agile palestra:
cosí ti muti, non mutando amore,555
da dolce madre, in dolce e pia maestra.

O Iulia Augusta armipotente! In pace
non sembri un campo cinto d’armi attorno;
un nido sembri, un gran nido loquace
di mille cuori salutanti il giorno;560

schiere bensí, ma parvole, vestite
di bianco e rosa, altre e le stesse ogni anno:
ne paga tu di tante proprie vite,
altre ne cerchi che pur tue saranno.
O Grande Madre, hai del tuo grande cuore565
dato ai fanciulli, dato alle fanciulle,
o sotto volte splendide e sonore,
o sotto travi di capanne brulle.

A tutti, a tutte! Sia dolore o gioia
la vita loro, spremi a lor quel pianto570
che fa non che l’un cresca e l’altra muoia:
fa pia la gioia ed il dolor fa santo.

Simili quindi, ormai stretti ad un patto,
ad una mensa siedono imbandita
del pane stesso. O festa del riscatto575
sul limitar del tempio e della vita!

O sacrifizio onde ogni dí t’elevi,
Amor, Pietà, Pace albeggiante, a volo!
O fiori umani, tremoli di lievi
petali, o fiori che ne fate un solo!580

Viene scorrendo sulle penne, appena
battute, viene, lievemente anelo,
lo stormo e un inno per la via serena
canta, che pare un astro nuovo in cielo...

VII

E voi cantate – ché la madre Italia585
non altre voci ode al cuor suo piú care –
cantate dunque: Italia! Italia! Italia!

Gracili voci: ma da queste pare
balzar l’eco di quelle dei grandi avi:
marcie, comandi, cariche, fanfare.590
Dite, o fanciulli e vergini soavi,
l’Italia ch’ora è su lontane sponde:
la Patria: itale tende, itale navi.

Forse il gabbier ch’esplora ciò che asconde
la notte e il flutto, in mezzo al ciel sospeso,595
sopra l’oscuro murmure dell’onde;

forse il vegliante bersaglier, che, teso
l’occhio nel buio, tra’ palmizi esplora
un guizzo spento prima ancor che acceso;
alzano il capo a quel trillar d’aurora,600
levano gli occhi all’improvvisa romba,
all’improvvisa nuvola canora.

– Era sepolta; e il nome sulla tomba
era la lode simile ad oltraggio:
ma balzò su, come ad un suon di tromba.605

Balzò, sbocciò, come un fiorir di maggio.
Ecco, sublime con la spada in mano,
al mondo chiede il suo grande retaggio.

Ogni straniero ella cacciò lontano,
ogni barbarie, gli altrui mali e i suoi,610
e il suo destino strinse a sé, romano.

Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinella, dànno il «Chi va là?».
– Quella ch’è dietro voi, ch’è innanzi voi,
ch’ è sopra voi: l’Italia, eroi, che va! –615

Trad. GIOVANNI PASCOLI

v. 32. Varrone, Rerum Rusticarum II 5: «gli antichi Greci, come scrive Timeo, chiamavano i tori ἰταλούς... ».
[v. 74. Il 20 aprile, giorno che precede le feste Parilia, il sole lascia la costellazione dell’Ariete ed entra in quella del Toro. Vedi Ovidio, Fasti 713 sgg.]
v. 94 sgg. Varrone, luogo cit.: «Altri scrissero che Ercole dalla Sicilia inseguí sin là uno splendido toro che aveva nome Italo...».
v. 108 sgg. Cfr. Omero, Odissea XI 601 sgg.
v. 170 sgg. Virgilio, Eneide VI 659.
v. 212 sgg. Tito Livio, Storie XXI 22.
v. 305 sgg. Nazario, Panegirico a Costantino 22 sgg.


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