Martedì 3 novembre 1998    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

VESTE

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Veste, Vestito, Vestire, Abito, Abbigliamento.

– L’abito può essere pur di mostra, d’apparato, o non servire al vestire, propriamente, o almeno al vestire quotidiano.
Poi, l’abito è come l’insegna e divisa d’una qualità o condizione: abito militare, religioso [Svetonio: «Scenico habitu»].
Catone scrisse un discorso de vestitu, e uno de habitu. – Popma.
Abito a’ Latini (non così nelle lingue moderne) oltre al vestito e a’ calzari, comprendeva altre cose. Svetonio: «Vestitu, calceatuque, et caetero habitu»; che in francese sarebbe: «L’habit, la chaussure, et le reste de l’ajustement». – Ferri di S. Constant.
– Il vestito comprende tutto ciò che serve a coprire il corpo; anco il cappello e le scarpe. Però diciamo: il vitto e il vestito. Abito non indica che i panni lani. La biancheria, le scarpe, il cappello, abiti non sono; gli abiti son lavoro del sarto. – Girard.
Veste è parte del vestimento. Abbigliamento è non solo delle vesti, ma d’ogni altro ornamento. come nastri, collane.
Il cappello e le scarpe non entrano tra gli abiti, ma sì nel vestire: camicie, calze non son abiti, ma vestimenti. – Romani e Girard.
Vestire, nome, dice la qualità e la convenienza piuttosto che l’uso e la forma. Petrarca: «Giovane donna in un vestire schietto». Foscolo: «Vestir mondo e negletto»; o, com’egli corresse: «semplice eletto».

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Nudo, Ignudo
Nudare, Ignudare, Denudare, Snudare, Spogliare, Svestire
Mezzo spogliato, Seminudo, Mezzo nudo
Nudamente, Ignudamente.

Nudo e ignudo son la stessa parola. Pur c’è de’ casi che richieggono questo; altri, quello. Ignudo di cognizioni, di idee, meglio forse che nudo [Galileo: «Ignudissimo anco delle più semplici esposizioni di geometria». Altrove dice: nudissimo, ma a noi suonerebbe men bene].
Nuda terra, vale non coperta di cosa che possa riparare il colpo di chi vi cade, il freddo o altra impressione molesta di chi la tocca; terra ignuda, senza verde; ch’è rena o pietre. E ignudo nato, e nudo nato; ma il primo, col suono prolungato, pare un po’ più efficace. Spada nuda, più comune che ignuda. Ma nel verso, il ferro ignudo, suona meglio che nudo. Anco nel verso, però, nudo acciaro; non ignudo acciaro; a chi queste forme piacessero.
Nudità, no, ignudità. Nudamente, per seccamente o schiettamente [Varchi: «Averne nudamente favellato»], par più dell’uso che ignudamente. Spesso l’eleganza consiste nel presentar nudamente l’idea; ma molti la pongono nell’involgerla e nel mascherarla. Ignudamente, chi volesse adoprarlo, suonerebbe biasimo di povertà, di secchezza, quanto a idee, a fatti necessarii da esporre, a parole convenienti alla piena evidenza e efficacia; nudamente, suonerebbe lode di semplicità, di schiettezza, di quasi innocenza, d’agile sicurtà.
Scuola del nudo, dicono i pittori, non mai dell’ignudo. Studiare il nudo, bellezza del nudo. Se il nudo sia tanto necessario all’eccellenza dell’arte quanto taluni credono, me ne fa dubitare il veder molti giovani artisti che lo studiano a più potere, che tanto ci sudano, e senza gran frutto.
Ignudo par che dica più la mancanza di vestito o d’addobbo o di corredo necessario, o conveniente.
Ignuda mano, non si direbbe, sì però: seno ignudo. – Capponi.
Per lo più, come neutro passivo, ignudarsi, spogliarsi ignudo. Quindi participio ignudato, anche a mo’ d’aggettivo [Firenzuola: «Questa rea femmina ignudata»].
Denudare non è della lingua parlata; è, per lo più, traslato, e vale: 1. manifestare [Tratt. cosc. s. Bernardo: «A tutta quella moltitudine saranno denudate e manifeste le sue iniquitadi». Livio: «Denudare consilium suum»]. Se fossero denudate e scoperte agli occhi degli uomini le intenzioni segrete, molti che paiono grandi e puri, parrebbero più vili di que’ che il mondo stima abietti o colpevoli. 2. Privare affatto. Affermazione denudata di prova [Martelli: «Quando la mia opinione resti denudata e senz’appoggio di ragion nessuna»]; ma parrebbe tenere del francese dénué
Snudare non si dice che di spada o arme simile.
Nudare, scrivendo, direbbesi di parte del corpo: come nudare il collo, il seno [Virgilio: «Nudatos humeros», «Crura». Tibullo: «Pede»], del par che ignudarlo. Nudarsi, però, non sarebbe dell’uso; nudato sì.
l. Uno si spoglia da sé ed è spogliato [Vite ss. Padri: «Spogliògli l’abito monacile». Spogliarsi e vestirsi si dice in Toscana anche del sacerdote quando si mette o si leva i paramenti sacri, che altrove dicono pararsi e spararsi. – Lambruschini]: ignudarsi da sé pare un po’ più comune che ignudar altri. 2. Uno si spoglia in parte levandosi uno o un altro vestito, senza però rimaner tutto nudo. Quindi spogliarsi ignudo [Novellino: «Spogliar tutto ignudo»]. Mezzo spogliato, che non è seminudo; perché si può essere mezzo spogliato levandosi i vestiti di sopra, e pure tutto coperto di sotto, e non punto nudo [Spogliare si dice anco delle bestie da sella, da soma, da tiro, quando si levano loro di dosso la sella, il basto o simili. E quando gli si mettono, si dice vestirle, come: va a vestire la mula. – A.]; ma seminuda è la persona che mezzo il corpo o in parte non ha vestito nessuno. Mezzo ignudo, d’uomo grettamente vestito; coperto sì, ma non bene. Mezzo nudo, direbbesi di chi veramente non è vestito che a mezzo. Alla prima frase darebbesi il senso della seconda, ma non viceversa. 3. Quindi anche il modo: spogliarsi la giubba, le calze, e simili. 4. Spogliare ha traslati: spogliar l’albero, la selva di foglie, il prato di fiori; spogliar della pelle un animale; spogliar il velo mortale; spogliar d’ogni bene; spogliare d’una dignità; spogliar l’amore delle cose terrene; spogliar un codice, un libro.
Svestire dicesi, per lo più, di cose soprapposte all’ordinario vestito: svestirsi le armi, una maschera, l’abito teatrale [Dante: «Gente stata sotto larve, Che pare altro che prima, se si sveste La sembianza non sua». Ariosto: «Né... mai l’arme si sveste»]; e nel traslato: svestirsi d’una possessione, d’un diritto; ch’è qui contrario d’investire.

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Sottana, Gonnella.

– La sottana non gonfia, se non è insaldata o inamidata. La gonnella, in oggi almeno, è veste che sta sopra; ed è quella parte del vestito che dalla cintura va fino a’ piedi. Questo delle donne. La sottana de’ preti è la parte inferiore della zimarra. Per celia, anco di prete o di frate, che, affaccendato, corre qua e là, dicesi sgonnellare. – Guasti.
Siccome per tonache famigliarmente intendonsi i preti e i frati, così per sottane le donne. Andar dietro alle sottane; e anco alle gonnelle; ma il primo è più d’uso, nella lingua, s’intende.

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Calzoni, Brache, Brachesse, Mutande
Calzoncini, Brachette, Bracuccie, Brachine
Braca, Brache
Portar le brachesse, i calzoni
Brachino, Bracone, Fiutone
Bracare, Sbracare, Braccare, Braccheggiare.

Brachesse, voce di celia; per lo più di quelle che portan le donne; calzoni è il comune nell’uso; brache ha quasi sempre anch’esso significato di celia: senonché, laddove si voglia indicare o un paio di calzoni ordinarii, o molto larghi, si potrà anche sul serio, le brache.
Poi, in significazione storica, di que’ calzoni che i Latini chiamano braccae o bracae o brachae; portate da certi popoli d’oriente e del settentrione, simili a’ calzoncioni de’ Turchi e del Greci moderni. Questi calzoni possonsi pure chiamare brache; e per dispregio io udii un Toscano chiamare i Turchi calzoncioni; che più comunemente dicesi non di chi li porta ma de’ calzoni stessi se grandi.
– Le mutande sono strette, corte, da tenersi sotto i calzoni, o sotto la gonnella, o sotto abito lungo. Quelle del padre abate, che il Boccaccio dice brache, ora sono mutande. Le brache sono, d’ordinario, più larghe e più lunghe.
In traslato, più volgare che famigliare, cascar le brache, aver paura. Altro traslato: sapere e ridire le brache e le brachine, è ridire i minuti segreti; e brachino e bracone chi di tali cose è sollecito. Bracone più dispregiativo che brachino: questo più minuzioso e talvolta però più seccante; quello più petulante, e con smanie di curiosità quasi violenta.
Il fiutone è più importuno del brachino, ma più per sapere i fatti altrui, e inframmettervisi, che per riferirli. Sbracare un po’ più di bracare. Non saprei se il traslato venga da brache per mutande come dire, voler vedere e mostrare cose che vanno celate: o da bracco onde braccare o braccheggiare, che vale: cercare, quasi fiutando, la cosa [Braccare, oltre al proprio de’ cani bracchi, dicesi nel traslato: braccare la preda; braccare taluno perseguendo e cercando per coglierlo. E quando le minime notiziuole ricercansi per nuocere o dar molestia, è braccare anche quello. E celia troppo seria suonerebbe: braccare le brache. Braccheggiare, par ch’abbia senso più traslato che proprio. Ma, anche nel proprio, può essere frequentativo dell’atto. E meglio che braccante, suonerebbe il participio braccheggiante; e, nel traslato, braccheggiatore, per abito e tristo gusto]. Né sia maraviglia che la voce possa perdere un c, dacché Dante ha Baco per Bacco, e altri simili di più comune uso. – Neri.
Calzoncini può essere e diminutivo e di vezzo, segnatamente di bambini parlando. Brachine semplice diminutivo, bracuccie con senso di dispregio. Brachetta il dinanzi de’ calzoni che si abbottonava a modo di sportello prima che la bottonatura prendesse altra forma.
Quando braca e brachina è nel singolare, non vale che piccolo pettegolezzo, notiziuola tra la ciancia e la ciarla. In questo senso non si direbbe tanto comunemente bracuccia o bracuccie
Brachesse non ha singolare. Quando dicesi delle donne che si mettono le brachesse, che l’uomo le lascia portare i calzoni, il primo è più famigliare, e dice uno spadronare con meno merito e più abuso.

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Calzetta, Calzino
Calzerone, Calzerotto.

Calzetta (diminutivo di suono, non di senso), calza, ma di materia più fine, come seta, stame o simile. Far la calzetta. Un paio di calzette. Calzino (vero diminutivo) quella mezza calza che taluni adoperano o per risparmio o per comodo, la quale non passa la metà dello stinco.
Calzerone, calzerotto, e l’uno e l’altro, calza grossa; il secondo non di cotone o di refe, ma di lana e ordinaria. Il calzerone, innoltre, è più grande, è accrescitivo di calza; il calzerotto o si soprappone alle calze per tener caldo, o per uso di caccia; ovvero fa le veci di calza sotto gli stivali, e passa di poco la noce del piede. Ma il destinato a quest’ultimo uso ora nelle città dicesi piuttosto calzino. E nei due primi usi soltanto comporterebbesi il diminutivo calzerottino.

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Scarpetta, Scarpino, Scarpina,
Scarpuccia, Scarpettina, Scarponcello
Ciaba, Ciabattino
Tacco, Taccone, Tomaio, Quartiere, Orecchie, Suolo, Suoletta
Toppa, Vantaggino, Toppina, Toppetta, Toppettina.

Scarpetta, per lo più, leggiera e da donna; scarpino, leggiero e da uomo e da donna; scarpina, scarpa di piede piccolo, e così scarpettina; scarpuccia, anche non piccola, ma guitta o trita; scarponcello, scarpa forte e che chiude più, non ancora stivaletto.
In qualche dialetto, il calzolaio (congiunto, in origine, dell’imperatore Caligola) è scarparo; altrove, per eleganza di lusso esotico, la bottega del calzolaio dicesi sublimemente stivaleria. Il Villani c’insegna che nella repubblica di Firenze l’arte si partiva in calzolai, pianellai, zoccolai. E nella repubblica delle lettere? Veggasi il capoverso seguente.
Ciaba per ciabattino è dell’uso più famigliare, e non converrebbe per indicare sul serio il mestiere, ch’è serio, come i letterati e i politici sanno. Ciaba, innoltre, non ha plurale, di solito, né traslati. D’artefice dappoco, di scrittore che acciabatta, diciamo, ch’egli è un ciabattino. Raccontasi di Gian Gastone de’ Medici che, dopo aver fatto assaporare a’ suoi cortigiani il medesimo vino chiuso in diverse bottiglie come altrettanti liquori l’uno più prelibato dell’altro, chiamò il ciaba alla sua mensa, e fece a lui sentenziare qual fosse il gusto delle persone di corte.
Tacco è la parte che rialza il suolo della scarpa e dello stivale; se più alto, è taccone [Nel passo del Buonarroti, che la Crusca cita, io credo che taccone abbia questo senso, non l’altro di toppa; senso che pare disusato, in Toscana, ma vive in altri dialetti]. Mettere sotto un tacco una cosa, vale: non ci pensare, non ne avere paura; analogo alla figura del mettersi sotto i piedi, o del gettarsi dietro alle spalle. Battere il tacco, il taccone, i tacchi, famigliarmente, è andarsene, fuggendo o no; vedere i tacchi uno o di più, gli è il non vedere che andati già, e non li potere raggiungere.
Poiché siamo a parlare di scarpe, diciamo che il tomaio è la parte superiore [Serdonati: «Scarpette o pianelle senza tomaio.... a guisa di sandali»]; il quartiere, quella di dietro; le orecchie, là dove si lega il nastro; il suolo, di sotto [Crescenzio: «Cuoia ottime per far suola [plurale] di calzari». In altri dialetti italiani usa la suola, la tomaia, femminini]; la suoletta, il suolo più morbido dentro alla scarpa; che rompendonsi una scarpa da una parte, le si mettono i vantaggini; rompendonsi di sopra, vi si cuce una toppa, una toppina, una toppetta, una toppettina (il secondo segnatamente è eufemismo che tiene del vezzeggiativo).
Mettesi un tacco (ed è un pezzetto di carta) sotto i fogli che sono per essere impressi al torchio, per togliere le disuguaglianze del piano sottoposto, e far sì che l’impressione cada uguale su tutte le parti del foglio. Quest’atto da alcuni dicesi taccheggiare.

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Ciabatta, Pantofola, Pianella, Babbuccia, Sandalo, Zoccolo.

Ciabatta, scarpa vecchia; babbuccia, pianella da state, o pianella de’ Turchi; pantofola, da camera, per lo più di cimossa, foderata di pelo o no; pianella, scarpa da casa, usata una volta, senza il quartiere dietro, con un tacchettino com’usan le Orientali [Sacchetti: «Pianelle aperte». Le pianelle, in alcuni dialetti, si chiaman babbucce; ma la stessa origine della prima di queste due voci significa la forma; e però è da serbare l’uso toscano. In più dialetti e nel greco moderno e nello slavo, babbuccia invece della b ha la p le due volte; come a’ Greci il nonno è pappos, che consuona al babbo nostro. E forse il vocabolo della calzatura, viene dal portarlo le vecchie]. Una ciabatta può servir di pantofola; ma impropriamente; la pantofola può essere bella e nuova, ma sempre da camera. La pianella è gentile; la babbuccia, per noi, non è che da casa, e più semplice della pantofola, di forma s’approssima alla pianella; portasi d’ordinario la state, e le son di vario colore [Buonarroti: «In pantofole, in pianelle, in trampoli»]. La pianella può farsi pianellina e pianelluccia; gli altri non portano diminutivo.
Didimo Chierico soleva dire, che le pantofole del marito sono un gran nemico all’onestà della moglie. La sentenza è vera, nel mondo in cui viveva Didimo Chierico, dove la donna aspira alla beatitudine di diventare ciabatta più presto di quel che bisogna, ciabatta di molti; ma in società meno guaste, le pantofole possono essere conciliatrici d’amore.
Sandali, specie di scarpa senza tacco e senza quartiere, che si fermano sul davanti con striscie di pelle. Le usano i cappuccini e altri ordini di religiosi, e i fratelli di alcune compagnie laicali. Ed è voce storica d’antico calzare.
Zoccolo, è scarpa scollata, con pianta e tacco alto di legno; anch’essa per lo più senza quartiere. L’usano per difendersi dall’umido gli stallieri, i baccalari, e certe donne in Toscana che portano l’acqua, e però dette acquaiuole. Farsi gli zoccoli, si dice di chi, passando per un campo umido, raccoglie ai tacchi delle scarpe tanta mota, da parere ch’egli abbia un altro tacco più alto, come quel dello zoccolo [Zoccoli, poi, diconsi quei pezzi di carne secca che mettonsi nelle frittate. Onde: frittate con gli zoccoli]. – Meini.

3504

Fodera, Federa, Soppanno
Federa, Guscio
Fodera, Fodero
Rifoderare, Rinfoderare.

Federa, la sopraccoperta di panno lino o di drappo a guisa di sacchetto, nella qual mettonsi i guanciali [Bellincioni; Pulci]. La fodera è dunque interna, e del vestito e d’altro; la federa, esterna, e d’un uso speciale.
Soppanno, la parte della fodera che guarda il petto e la vita; può comprendere anco l’imbottito [Varchi: «Il qual lucco portano foderato di pelli, o soppannato di velluto e talvolta di dommasco: e di sotto chi porta un saio, chi altra vesticciuola di panno, soppannata». Soppannato dicesi di vestiti gravi. Un vestito da donna non si direbbe soppannato, neppure dai contadini, i quali però dicono soppannare la carniera. L’esempio del Varchi fa pur conoscere che il soppanno deve essere di materia che possa dirsi panno: delle pelli non gli è potuto venir detto. Ma soppanno e soppannare sono termini serbati soltanto dal popolo che parla più all’antica: fodera e foderare hanno scacciato le prime due dalle bocche civili. – Lambruschini]; né mai si direbbe soppanno la fodera dappiede al vestito [Firenzuola: «Queste parti si possono aiutare colle bambage o coi soppanni» (il seno delle donne, per parere più pieno). Cotesta specie di soppanni non si potrebbe dir fodera. E in altri casi la voce rimasta nel contado potrebbe tornare opportuna anco nelle gentili scritture]. Ben soppannato, dicesi di chi è ben coperto.
Guscio, quell’invoglio di panno a spina, e di due o più colori, che ricopre e dà forma alle materasse, a’ guanciali, e simili; trapunto, e che non si può levare senza che quelli si guastino.
La federa de’ guanciali ricuopre il loro guscio, e mutasi per pulizia. Le materasse, i cuscini da sedere, i sacconi, le coltrici, hanno gusci; non federe. Queste diconsi ancora federette, e in alcuni luoghi foderette; e questa è forse l’origine della voce; ma per distinguere la fodera sotto da quella di sopra, s’è forse mutata una lettera.
Guscio, talvolta, quel sacco grossolano che involge le merci, come lana o cotone, e che nessuno di certo direbbe federa. – Polidori.
Foderansi i vestiti e altro di pelli, di drappo, di tela, e simili: la foderatura costa tanto.
Nel traslato, famigliarmente, aver foderati gli occhi, vederci poco; foderar le parole, dicesi di coloro che ripetono, parlando, alcuna delle parole già dette: i’ l’ho veduto, i’ l’ho.
Fodero, della spada, d’armi da taglio. Riporre nel fodero, rinfoderare [Il Salvini, figuratamente (in modo strano): «Lumache, nella vagina delle membra, rinfoderabili»]; mettere di nuovo la fodera, rifoderare.

3505

Fiocco, Cappio, Galano, Nastro, Fettuccia
Fiocco, Nappa, Frangia, Gallone, Penero
Fiocco, Bioccolo, Vello
Fiocchetto, Fiocchettino, Fiocchino.

Cappio, nodo, fatto in maniera che tirandone uno dei capi, sciogliesi facile. Il galano è in forma d’annodatura, ma segnatamente a ornamento, e forse ha che fare con gala; e serve specialmente a vestiti di donne.
Fiocco, di neve, di lana, di cotone, o d’altra cosa soffice e leggiera; se più leggiera, bioccolo. Fioccare, cadere in abbondanza, della neve: e traslatamente di faccende, di sventure [Davanzati: «Fioccavano in quest’anno tante cause»], di croci. Così Luigi Filippo, trasformato in nastro, fioccava sul petto dei sudditi.
È modo proverbiale: fare una cosa co’ fiocchi, farla con solennità o con pienezza.
Nappa non è fiocco. Le nappe usava una volta alle tende delle finestre, e in alcuni luoghi usa ancora; con la nappa davasi e ora si ridà la polvere cipria; nappe quelle che pendono da’ baldacchini [Serdonati: «Baldacchino di seta rossa, colle mazze dorate, colle nappe pendenti di seta attorta». Il Redi usa nappetta; e si può nappettina] o nelle parature delle chiese, o quelle in cui finisce il cordone che serve per tirare il campanello nelle case; finisce in nappa il cingolo de’ preti, e quello che si cingono i fratelli delle compagnie quando vanno in processione ed uffiziano; finisce in nappa anco la militare cintura; la libertà di taluni finisce in nappe, idest coccarde. La nappa è filo, di seta, d’argento, d’oro.
Il fiocco delle scarpe, quel d’un cappello da donna, quel d’una rete da mettere in capo [Ariosto: «Rete d’or tutta adombrata Di bei fiocchi vermigli, al capo intorno»], non è nappa certo, molto meno un fiocco di neve, o un fiocco di lana, che non è vello (giacché vello è tutta la lana dell’animale tosato) ed è più grande d’un bioccolo [Firenzuola: «Della preziosa lana dell’auree chiome tu me ne arrechi un fiocco»; «Tra le frondi del bosco ritroverai alcun bioccolo dell’aurea lana»]; onde diciam bioccolino; non mai fiocchino in questo senso. Direbbesi, fiocchetti di neve.
Ognun sa quel che sia far le cose co’ fiocchi; non tutti forse sapranno che raccogliere i bioccoli è, nella lingua famigliare toscana, ascoltare gli altrui discorsi e raccattarli per poi rapportare [Allegri: «Attenti son tutt’insieme per raccorre i bioccoli»]. È traslato campestre, che dipinge ricerca sollecita d’ogni minuta cosa. È egli adunque possibile che il male sia cosa sì bella da doverlo con tanta cura ragunare, filare e tessere e ricamare?
Anco al noto giuoco della berlina, quegli che va attorno per raccogliere i motti da dirsi a colui ch’è in berlina, si dice ch’e’ raccatta i bioccoli.
La frangia è all’orlo delle tende o dei vestiti [Vita pittori : «Nel Pallio comune non erano fibbie né frangie»]. E, nel traslato, frangia, quanto di non certamente vero aggiungesi alla narrazione del vero. In questo senso tutte le narrazioni sono in qualche parte romanzi storici, tutte hanno un poco di frangia; coloro che la vogliono far più bella son quelli che più deturpano il vero.
Da frangia: frangiato [Salvini: «L’oro di cui la veste è tessuta e frangiata»], e frangiaio e frangiaia, che vende frangie; da nappa: nappella e nappettina; da fiocco: fiocchetto, fiocchettino, fiocchino [Fiocchettino ha più vezzo; e sebbene la desinenza in -ino, sia, d’ordinario, più gentile, fiocchetto pare ch’abbia più garbo qui di fiocchino], fioccone.
In alcuni dialetti le nappe d’oro si chiamano galloni: ma gallone, in Toscana, è la striscia d’oro o argento o altro che orna una paratura o altra cosa da ornamento. Il penero è quell’orlo quasi sfilacciato alle fasce de’ bambini; e peneri quelli de’ tovaglioli, delle tende. Nelle tende, quella parte della frangia che finisce in tanti fiocchettini di fila, sono i peneri. Penerata quella parte dell’ordito che rimane senz’esser tessuta.
Nastro s’usa in Toscana; fettuccia, in altri dialetti. Pare però che la fettuccia sia sempre di cotone o di seta; il nastro può essere lavorato con oro [M. Villani: «Velluto con un nastro d’oro, largo quattro dita»].
Quello che le donne mettono al cappello è nastro; quel delle scarpe è nastro. Comprasi un braccio o due di nastro. Con la fettuccia si lega, s’avvolta; col nastro e si lega e s’abbiglia e s’addobba.
Nastrino è più usitato di fettuccina anco fuor di Toscana; e nastrini è una minestra di paste. Non parlo dei nastri di cavaliere, co’ quali talvolta frenasi l’uomo come un cavallo. Al qual proposito ci sia conceduta, a modo di digressione, la distinzione seguente; la quale, però, potrebbe aver molto che fare col raccogliere i bioccoli.

3506

Decorato, Titolato.

La decorazione d’un ordine cavalleresco o d’altro segno d’onore è chiamata così per modo di dire, ché non tutti siffatti segni danno veramente decoro. A certe decorazioni è congiunto un titolo; ma i titoli che vengono dalla nascita o dall’uffizio o dal grado non sono decorazioni. Così a un dipresso il signor Zecchini.

3507

Ghirlanda, Corona, Diadema, Serto, Benda
Il diadema, La diadema.

Diadema, fascia avvolta intorno al capo in segno di regio potere. E anco quell’aureola che ponesi intorno al capo delle imagini de’ santi, segno di beatitudine. Il popolo lo fa femminino [Lippi: «Cangiò la diadema in un turbante». Di diadema regio, massime in senso storico di tempi antichi, non soffrirebbe mai il femminile]; ma giova non seguitare quest’uso.
Corona, d’oro, di spine, di ferro, di fiori, di gemme, di stelle. Corona reale, imperiale [Corona, anco di saracche. Caro: «Incoronato di saracche e trippe»]; ornamento dei re, e d’altri, detti anco: teste coronate; corona di Francia, di Spagna; sacra corona, titolo e appellativo di re.
Nel traslato, quel che circonda o persona, per consultarla, o per udirla, o per corteggiarla, o cosa. Monte incoronato di selve, di torri. Corona di soldati alle mura di città da difendere.
Ghirlanda di fiori, d’erbe. Tale quella che si pone ai morti in istato di verginità. Lippi. «Perché volea morir con la ghirlanda» d’una che volea conservarsi pulzella.
Serto, e di regnanti, e di poeti, e d’uomini illustri; piuttosto del verso.
Benda, fascia da avvolgersi intorno al capo; segno di cecità o di dignità. Poeticamente: regie bende, benda imperiale. Benda d’amore.
Benda il velo delle donne. Dante: «Femmina è nata e non porta ancor benda», o delle monache. Dante: «Le sacre bende». – Cioni.

3508

Gioie, Gioielli, Gemme, Margherite
Vezzo, Collana, Monile.

Le gioie, a ornamento della persona, e delle femmine specialmente. Onde: corredo di gioie, tutta ingioiata.
Vezzo è monile da appendere al collo [Lippi: «Si mise il vezzo al collo e ciondoli agli orecchi»]; di gioie, di perle, di corallo. – Romani. – La gioia può essere ancora greggia: il gioiello, è lavorato con più o meno finezza. – A.
Gemma, ogni pietra preziosa lavorata, ogni pietra dura intagliata. Gemme, degli anelli, non gioie. Gioie, le gemme che sono specialmente ornamento alle donne. Nelle gemme si guarda più alla grandezza, al valore; nelle gioie, al luccicare, alla trasparenza, alla bellezza di fuori: gioie false, non gemme. Le perle son gioie, non gemme. – Gatti.
– Le margherite vengono dalle conchiglie. Cicerone: «Nego ullam gemmam aut margaritam fuisse». Svetonio: «Gemmas aut margaritas quingenties una donatione contulerit». Plinio: «Scrinium auro gemmisque aut margaritis pretiosum».
Le gemme son di vario colore; le margherite, di bianco. Le margherite al dir di Servio, foravansi (e si forano anche oggi per infilarle); le gemme no. – Popma.
Nel traslato, gemma l’occhio delle viti; e gioia e gioiello e gemma, persona o cosa sommamente cara e pregevole. Meini.
Di persona, il dire: è una gioia, è lode d’amabilità, di virtù. In questo senso a essa persona, per vezzo o per celia: gioia mia. È un gioiello, è un vero gioiello, dice pregio più singolare. Né s’usa alla persona stessa: gioiello mio, né ha senso di celia o ironia. Anco di cosa: è un gioiello, denota bellezza rara e gradita preziosità. Gemma usasi in altra forma: ella è la gemma delle spose. Ma anche assoluto: è una gemma, è lode segnatamente di pura onestà. Certe donne che sono una gioia son tutt’altro che gemme. Poi d’una città dicesi che è la gemma d’Italia, e c’è chi dice una città, una provincia, è la gemma della reale, della imperiale corona.
Margheritine, quelle di vetro, per le quali Venezia è nota in tutte le parti del mondo.
Vezzo, un filo o più di corallo, perle, o granati; collana, quasi collare d’oro o d’argento, lavorata e tempestata di pietre, o smaltata e via discorrendo. Il vezzo è più corto e cinge più il collo che la collana; chiamavasi collana la catena d’oro da cui pendeva, quando la moda voleva così, l’orologio delle signore; che qualche volta la appuntavano, per maggiore sfoggio, alle spalle di qua e di là in modo che se ne vedesse la lunghezza. Bene il Manzoni usa: vezzo di granati, collana d’oro. Monile, non è che del verso. – Bianciardi.

3509

Ornamenti, Fronzoli.

Ornamenti ha usi più generali e più nobili. Fronzoli ornamentucci di poco valore, da donne, da bambini, da uomini vani, più bimbi e più femmine che i bambini e le donne. I diamanti non sono fronzoli; ma i nastrini, le buccole, i fermagli che non sian d’oro, e simili. – A.

3510

Gala, Trina, Guarnizione, Gallone.

Le trine posson essere d’oro [Salvini: «Trine d’oro»], di seta, di refe, di cotone, di lino; più ordinariamente, di cotone; la gala è di cotone o d’altro filo che si trae da materie vegetabili.
Trina per berretta da donne o per altro; non è gala cotesta. Non ogni guarnizione è gala. Quella da collo non è, propriamente, guarnizione; ma sì quelle dappiede o alle maniche o all’orlo del vestito.
La guarnizione può esser di pelle o d’altra roba, o della roba stessa del vestito; non la gala [Buonarroti: «Guarnelletto bianco, ed a guarnizioni azzurre e d’oro»].
Gallone è una specie di guarnizione a liste d’oro, d’argento o di seta. Le pianete, i piviali e altri paramenti di chiesa hanno il gallone. A’ setini i paratori appiccano il gallone per ornamento. Anco le livree hanno il gallone, che quanto è più bello, più dimostra la servitù di chi ne va grave. Da gallone si fa gallonare, gallonato e gallonaio, cioè venditore e fabbricator di galloni. Trinare non è dell’uso; trinaio e trinaia (che vende o fa trine), sì. – Meini.
Gala non genera che galante e galticcia, gala meschina, degna sorella al galante.

3511

Gala, Gale
Vestire in gala, Vestire in abito di gala
Da gala, Di gala.

La gala è quella striscia di trina o tela o altro che le donne portano sulla baverina o a’ fazzoletti o in fondo al vestito; e gli uomini allo sparo della camicia; e è distinta da quella specie di gale che portansi a’ polsini delle maniche, e che diconsi manichini; e in questo senso gale non è che il semplice plurale. Ma gala, innoltre, significa abbellimento più elegante o diverso dall’ordinario, e dicesi: essere in gala; andare o mettersi in gala; abito di gran gala.
Allora il plurale di gala denota non tanto il festivo sfoggiato vestire in una o in altra occorrenza, ma l’amore smoderato e l’affettazione di tali ornamenti. Può l’uomo, anche modesto e non curante dei lusso, venir costretto a mettersi in gala; la donna vana ama sempre le gale; è vizio in lei lo star sulle gale [Varchi: «Sono in pregio le gale e le attillature, e si bada solo a ornare la bellezza del corpo, manifesto argomento della bruttezza dell’animo». Cecchi: «Stanno più... sulle gale e sulle usanze che... Quelle delle gran doti»]. Amar la gala, star sulla gala; non si direbbe comunemente, né: abito di gale, o simile.
Di chi la colpa se la donna mette nelle gale e nelle spese e nei pericoli che ne seguono, tanta parte de’ suoi pensieri? Dell’educazione. Un contadino o tutto in gala pare più ridicolo di donna matura tutta gale, e non è.
Quando diciamo: gala a corte, gran gala, intendiamo non solo del vestire, ma e della festa che richiede la gala ed è occasione di quella. Senso che il plurale non ha. Giorni di gala, son quelli ne’ quali bisogna presentarsi con abiti non di moda, ma d’uso un po’ antiquato per il taglio e per la forma; e questi abiti si chiamano da gala, di gala. Ma col di, può accennare più l’eleganza che la straordinarietà e la ricchezza. La persona stessa è di gala; non mai, da gala.

3512

Ciarpa, Ciarpe
Ciarpa, Ciarpame, Ciarpume.

Ciarpa, arnese vile; e in genere, vestiti o altro, qualunque roba di poco prezzo, e male atta all’uso. Ciarpe anche le frutta acerbe e poco sane, che fanno per gola ai ragazzi, come certe ciarpe politiche a’ barbuti. – A.
Ciarpame, quantità di ciarpa e di ciarpe. Ciarpe, anche parlando di cose non materiali; ciarpame, non tanto.
In una raccolta di libri si trova di molta ciarpa; in un giornale, di gran ciarpa. D’altro che di cenci o di roba di poco prezzo, non si direbbe, parmi, ciarpame. Ciarpume, e di cose materiali e d’altre, suona ancor più dispregio.
Un autore, per modestia, dirà che ha fatto stampare le sue ciarpe; ma, se lo credesse, non le avrebbe fatte stampare. Le raccolte che un tempo usavansi per nozze o per simili occasioni quasi sempre eran ciarpe. Tra le discussioni erudite v’è di molta ciarpa. Il plurale comprende nel titolo di dispregio tutta la cosa della quale si tratta [Comp. Mart.: «Con cenci e ciarpe per la via». Caro: «Pasquino quest’anno ha detto di molta ciarpa»]; il singolare, una certa quantità.

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Cencio, Canavaccio, Ceneracciolo, Straccio
Cencino, Cenciuccio, Cenciuolo, Cenciolino
Stracciato, Straccione, Cencioso
Cenciaia, Cenciata, Cenceria, Cenciume.

Canavaccio [Dicesi anco canovaccio; ma il primo sembra più conforme all’origine, che pare essere canapa], panno di lino, o di tela, grosso e ruvido, per lo più, da cucina, da spolverare, o altri simili [Canavaccio, anco quella tela grossa che i sarti mettono per fortezza ne’ soprabiti, nelle giubbe e altri tali vestiti]. Un cencio può fare da canovaccio; ma c’è de’ canavacci nuovi e sodi, che non si possono dire cenci. Cencio è qualunque sorta di panno o di lino o di lana, reso ormai guitto e trito dall’uso. E per essere questo secondo di senso più generale, diciamo tanto: un cencio di vestito, quanto: un cencio di canovaccio. Ceneracciolo, quel canavaccio che copre i panni sudici nella conca del bucato, e sul quale si mette la cenere.
l. Cencio è straccio di panno lino o lano consumato; straccio è panno di qualunque genere. 2. Straccio può essere un pezzo della roba stracciata; il cencio può essere intiero. 3. Lo straccio può essere meno consumato del cencio. 4. Nel cencio, talvolta, si guarda non altro che un panno il quale abbia perduto il corpo o il colore, la freschezza, l’appariscenza; onde dicesi di cosa mencia e sbiadita o guitta, che pare un cencio; e di donna rinfichisecchita, ch’è un cencio [Donna che rammenta i freschi anni passati, famigliarmente dirà: quand’ero ne’ miei cenci. Parodia del dantesco: «Tu ne vestisti Queste misere carni»]. Straccio non ha questo senso. 5. In modo che tiene dell’iperbolico, dicesi de’ vestiti non ricchi, tanto stracci quanto cenci. Gli stracci, in questo senso, sono vestiti più grossolani; i cenci possono, nella loro povertà, esser puliti e ben tenuti; nel qual senso s’adopera anco il diminutivo cencini. 6. Straccio, quando denota la rottura che resta nella cosa stracciata, ovvero la seta de’ bozzoli stracciata col pettine o cardo di ferro, ognun vede come differisca da cencio. 7. Cencio ha il diminutivo [Anzi n’ha più. Cencino e cenciuccio e cenciuolo. Il primo indica povertà linda; il secondo, la semplice povertà; l’ultimo è quasi vezzeggiativo, ma è meno usitato. Cenciolino, piuttosto] e il peggiorativo; straccio, no. Straccione dicesi, non: cencione; cencioso, non: cenciato; stracciato, non: straccioso. Voi potete avere un vestito stracciato, o anco di solito andare stracciato senz’essere uno straccione. Questo dice miseria triviale: ma il cencioso è più meschino a vedere. Lo straccione può essere grasso e fresco; spendere nel mangiare anco quel che dovrebbe al vestire. decente. Figuratamente, cencioso, il misero per avarizia, il gretto e guitto in ogni cosa: e c’è de’ cavalieri con anima di cenciosi.
Cenciaia, cosa vile come cencio, o massa di cenci. Cenceria, massa di cenci, anche portati per vestito, o d’altre cose di poco valore. Cenciata nella locuzione: dar la cenciata, per gettare altrui nel viso un cencio intriso d’inchiostro o d’altra lordura, o per qualunque altro simile atto di scherno. Dice anche l’effetto; onde, in vedere macchia o altro segno al riso d’alcuno, si dice: chi v’ha fatto codesta cenciata? Come sbacchiare dall’imagine di bacchio, si stende al senso generico di gettare. Cenciume è più che cenceria: entrare (si direbbe) in una casa, e trovarvi di gran cenciume. Il cenciume del povero può mandare innanzi a Dio odore più grato che le morbide vesti de’ ricchi.
Se questa famiglia dà in cenci, e dal diadema si va al ceneracciolo; non è mia colpa.


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