Venerdì 16 agosto 2002    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

Prefazione

I. Come della ricchezza delle lingue s’abusi

Fra le molte tribolazioni che ingombrano la via degli autori, non è la minima vedere i proprii intendimenti o non compresi o presi a rovescio; sentire da qualche interrogazione, più strana che la famosa del Cardinale, escire una lode, più amara d’ogni censura più acre. Io scrivente, per esempio, sentii più d’una volta, a proposito di quest’opera, rammentarmi, come cosa non dissimile, il dizionario del Rabbi. Dimostrare a costoro come e perché il Dizionario del Rabbi sia misfatto più grave che il Rimario del Ruscelli, e come il mio lavoro intendesse appunto allo scopo contrario, era buttar le parole; onde stimavo meglio rispondere con mansuetudine: Questa è cosa un po’ differente.

Né quella buona gente diceva sproposito tanto strano quanto pareva all’orgoglio mio. Fatto è che il dizionario del Rabbi è come l’ultima conseguenza di quello che gran parte de’ nostri scrittori da gran tempo e pensano e fanno. Ai quali la varietà de’ suoni par cosa più desiderabile che la proprietà e l’evidenza del dire; e a occhi chiusi scambiano l’un modo con l’altro affine, pure perché men volgare, a quel ch’essi dicono, o perché il numero lo richiede (come chi dicesse in grazia della rima), o per non ripetere la medesima parola, ch’è vizio dagli umanisti con severità biasimato.

Né questa è già malattia di tale o tal uomo letterato, di tale o tal parte dell’educazione letteraria. Vedete nelle edizioni a uso del serenissimo Delfino di Francia fatte da’ Gesuiti (parecchi de’ quali nelle cose di questo mondo e dell’altro misero la rettorica, quasi condimento di sapor zuccherino, cioè fiacco, lassativo e stucchevole), vedete consumato un sacrilegio appetto a cui le bestemmie de’ romantici sono giaculatorie; vedete tradotti i poeti latini in prosa ladra, e l’oro delle parole proprie scambiato col piombo d’altre sinonime; come chi insegnasse, tirando nel bersaglio, a non imbroccare nel segno.

Il qual sacrilegio è dei comentatori mestiere, trastullo e gloria; e per commetterlo i più di loro si credono messi al mondo.

Non parlo del Biagioli né dei pari suoi morti o viventi in odore di pedanteria; lascio stare il tristo servizio che rendeva quel Francese a Virgilio e al Delfino, voltando i sovrani versi: «En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi; Sunt lacrymae rerum, et mentem mortalia tangunt», voltandoli in questa prosa: «Ecce Priamus: hic quoque datur virtuti sua mesces, est commiseratio calamitatum et casus hominum movent corda». Ma nessuno vorrà dir pedante Enrico Stefano. Or volete voi sapere come lo Stefano interpreti l’ovidiano bellissimo: «Grande dolori Ingenium est»? Ecco: «Maius doloris quam gaudii est ingenium».

Di tutti poi, o quasi tutti, i dizionarii è peccato accumulare vocaboli di senso variissimo per dichiarare i significati di un vocabolo solo. E non era necessità che il Monti e altri lo rinfacciassero alla Crusca siccome a sola colpevole, se lo Stefano non n’è franco, né quella sana mente del buon Forcellini. Il primo dei quali ἀβελτερία vi spiega con stoliditas, stultitia, amentia, vesania; il secondo, animadversio con attentio, consideratio, notatio; poi animadversor, qui animadvertit et attente observat; poi animadversus, animadversio, castigatio; poi animadversus, consideratus, perspectus, cognitus; poi animadverto, animum adverto, attente considero, cognosco. La qual diversità di spiegazioni porta con sé quattro mali: superfluità, improprietà, confusione, contradizione. O le voci dichiaranti quella di cui si tratta, hanno (che non può essere) tutte il medesimo senso; e moltiplicarle non giova: o hanno senso diverso; e fate di ciascuno di quelli un distinto paragrafo. Questo che par lieve difetto, e a’ provetti non nuoce, guasta le menti inesperte; avvezza a quell’uso promiscuo di voci, da cui tanti stili verbosi, ampollosi, falsi, e donde alla fine lo spossamento e la corruzion della lingua. Di qui venne in parte a noi (sebbenenon paia) la smania di quello stile aulico, che, non appropriando la dizione al soggetto, ma dai comuni usi de’ vocaboli, come da trivial cosa, aborrendo, non può nella sua cortigianìa non essere tanto affettato e impotente quant’è superbo. Di qui l’opinione che belle possan essere le parole e pieno lo stile nella difformità de’ concetti e nella vacuità dei pensiero.

II. Falsa ricchezza

Le idee a poco a poco si vengono in più ordini particolari suddividendo, e ciascuna suddivisione ampliando. Laddove l’occhio nudo non vede che una via lattea, l’armato di lente discerne schiera innumerata di stelle; laddove all’occhio inesercitato non apparisce che un punto, l’esercitato discerne varietà, moltiplicità, discontinuità, opposizione. Que’ gradi, già inosservati, d’un’idea, formano col tempo scienze e vocabolarii e mondi novelli.

Or quando ciascuno anello della lunga catena d’enti e di relazioni corporee, intellettuali, morali, ha un nome suo proprio, incomunicabile e noto; la lingua è ricca. Ma che m’importa ch’io possa adombrar un’idea in dieci modi, se dieci altre idee mi mancano d’un nome lor proprio, e m’è forza significarle con uno dei dieci modi che servivano a denotare quell’una? Quando la coltura degl’ingegni non sia intrinsecata alla vita della nazione, ma ristretta in poca gente divisa tra sé e dal resto della nazione, allora s’ha questa falsa ricchezza di cui parliamo.

A denotare le più tra le comuni idee della vita, gl’Italiani hanno dovizia di frasi gaie, modeste, possenti. Anco la lingua delle arti adulte già innanzi il secolo decimosettimo è in buona parte determinata in Toscana, siccome presso quel popolo che, dopo la civiltà rinnovata, fu dei primi a fiorire nell’opere della mano. Dell’arti e delle scienze modernamente salite a grandi incrementi non possiam dire altrettanto. Ma l’un de’ modi di bene determinare il linguaggio nuovo, gli è non viziare con nuovi abusi l’antico, e proporre a sé questa norma, ancor più morale e civile che filologica: sinattanto che due idee si potranno significare con due promiscui vocaboli entrambe, s’avrà sempre un linguaggio pieno d’equivoci, d’errori, di discordie. Presentatemi due idee in due nomi promiscui; io mi crederò d’averne tre delle idee: le significate da’ due nomi, e la terza, della promiscuità d’esse idee da nomi promiscui significate; e chiara non ne avrò neppur una. La terza idea, per lo meno, sarà erronea; l’errore si moltiplicherà per il numero e degli usi e degli usanti: e la lingua col tempo si renderà inetta a trattare segnatamente quelle materie dove un equivoco costa troppo.

Certamente la copia delle voci è ricchezza; ma la copia non consiste nel numero, ricchezza inerte d’avari. Se altro non hanno le voci di differente che il suono, e non la maggiore o minore latitudine o determinazione del concetto, le sono ingombro della memoria, non agevolezza all’arte del dire. Quando, per esempio, il signor Gamba consiglia che si registri nel dizionario arrugare, intende, io spero, d’ascriverla al numero delle voci morte o mezzo morte [1], perché non veggo uso alcuno di quel verbo, dove non cadano i più comuni corrugare, increspare, raggrinzare, raggrinzire, aggrinzare, avvizzire, appassire, ammencire. Poi, se volete leccume (direbbe il Cesari) d’eleganza, troverete accrespare che in Toscana non è morto ancora, e crespare che non ha esempi, ma è padre legittimo del tuo crespamento, o Francesco da Buti comentatore; e avvizzare, se non vi dispiace, o, se meglio vi garba, appagare, son pronti a’ servigi vostri.

Il Girard paragona le voci superflue a piatti vuoti: ma i piatti vuoti son buoni per mutare, giovano a pulizia; dove le voci superflue fanno confusione, e la confusione è sudicia cosa.

III. Che le ripetizioni non sono contro natura

«Si dirà che la copia delle voci risparmia le noiose ripetizioni: ma la noia (risponde il Girard) viene dalla ripetizione dell’idea ben più che del suono. Se la medesima voce, ritornando, dispiace, dispiace non per l’uguale impressione che ne riceve l’orecchio, ma per quella che n’ha la mente. I pronomi, che pur si vengono ripetendo a ogni tratto, non danno noia perché necessarii; ripetonsi li articoli e le preposizioni spessissimo, che, destinate a indicare una relazione della cosa, non hanno valore determinato di per sé; e però quella indicazione, a ogni nuovo oggetto a cui s’applichi, si rifà nuova».

Il numero, sia poetico sia oratorio, dev’essere dall’idea dominato, non già dominare. E cotesta timidità del ripetere, dove occorra, la medesima voce, è condannata dall’esempio de’ grandi scrittori. Ma i grandi scrittori sono del numero di quella sguaiata gente che «Dice le cose sue semplicemente» [2]; che non cerca, ma trova, uno stile di colore sano, di forma snella, d’abito conveniente al soggetto; gente che non conosceva punto gli artifizii de’ tanti chiarissimi d’oggidì.

Non accade cercar tropp’addentro per rinvenire con che pensata (se così posso dire) e maestrevole noncuranza gli scrittori grandi adoprassero le medesime voci più volte in breve trattodi discorso, dove le sentissero acconcie. Giova recare esempi di poeti, siccome di quelli a cui più larghe licenze vengono concedute, sebbene i poeti più grandi ne usassero meno di quel che i prosatorelli moderni facciano.

Apriamo la Commedia di Dante; ed eccoti nel primo canto via ripetuto ben quattro volte. Oh gran padre Allighieri, non sapevate voi dunque che la nostra lingua bellissima aveva pure e strada e sentiero, e altre voci significanti a un bel circa il medesimo, che potevano fiorire il vostro stile di variata eleganza? E paura, questa brutta parola che tanti coraggiosi d’oggidì non fanno sentire, ma sentono tanto bene, paura nel primo della Commedia cinque volte ritorna. Non aveva egli in pronto l’inesperto poeta terrore, timore, spavento, pavento, tema, temenza, dotta, dottanza, e altri assai? Ma al poeta inesperto paura piacque, e in diciannove versi lo mise tre volte, e cinque in cinquantadue, e due (cosa orribile!) in cinque. E questo medesimo cosa, non lo ripete egli in sei versi due volte? E tra ritrovare e trovare, ci corre egli più spazio che di cinque versi? Nulla dico di volgersi che ricorre tre volte; nulla di vista, che due; nulla di perdere, ripetuto con semplicità scolaresca in tre versi. Ma come tacere di quella bestia? Come di quel luogo, triviale parola, la cui ripetizione è così triviale? E, dal luogo venendo al tempo, come non s’accorgere che il primo canto della città senza tempo, di questi tempi ne ha quattro?

Non parlo di fare, ripetuto otto volte nel primo canto di Dante. Ma il Petrarca, scrittore sollecito de’ minuti ornamenti, il Petrarca ristrinse in vieminor numero di parole il suo linguaggio poetico, né dalle ripetizioni aborrì. Prendiamo la Ballatetta «Lassare il velo», da Gian Jacopo citata [3] (ch’è non piccolo onore): e troveremo in quattordici versi due volte vedere, desiare due volte non lontan da desio, be’ due volte; poi morta e morte, amore e amoroso quasi accosto; due volte velo, e velati lì presso. E chi potrebbe numerare le ripetizioni ineleganti di cui pecca il Petrarca, e che i nostri innumerabili maestri avrebbero con avveduta severità tolte via?

L’Ariosto? Peggio. Qui non cade dover notare della ripetizione delle rime, altra Cariddi che i nostri nocchieri insegnano ad evitare [4]. Ma quanto a ripetere modi e voci, oh il povero scrittore che era messer Lodovico [5]! Sarebbe troppo crudele oltraggio alla fama sua, e troppo offesa al gusto fine de’ nostri Longini moltiplicare gli esempi.

E il più doloroso si è che i grandi scrittori, in questa come in altre cose, tengono il modo del popolo ignorante, o, per meglio dire, della vilissima plebe; la qual non teme di ripetere tante volte il medesimo vocabolo quante le fa di bisogno per significare la medesima idea. Perché, il popolo non ha sinonimi; e le voci di senso affine serbano, nel quotidiano commercio del parlare, differenza di valore ben ferma. Il qual difetto popolare richiama alla mente un altro errore grossissimo; che norma della scritta è la lingua parlata; vale a dire, che gli uomini scrivono e parlano per far intendere il lor pensiero; o, per dirla altrimenti, che scambiare i segni degli oggetti egli è uno scambiare gli oggetti stessi. Dal qual errore seguirebbe che l’uomo del volgo ha idee, nel suo cerchio, più chiare che non abbiano molti letterati chiarissimi, onore della penisola; assurdità manifesta.

IV. De’ sinonimi

Quintiliano l’aveva già rettamente notato: «Non semper haec inter se idem faciunt; nec, sicut de intellectu animi recte dixerim video, ita de usu oculorum intelligo; nec, ut mucro gladium, sic mucronem gladius ostendit» [6].

E quella gran mente di Tommaso d’Aquino [7]: «Sinonimi diconsi i vocaboli che significano affatto il medesimo. Tali vocaboli, messi insieme, rendono il dire inetto. Notisi, però, che i sinonimi veri son quelli che significano una cosa medesima secondo la medesima ragione dell’essere di quella; ma quelli che denotano le varie ragioni dell’essere di una cosa, non significano per l’appunto il medesimo».

Se fossero sinonimi veri, in una lingua sarebbero due lingue; perché, trovato il segno denotante un’idea, non se ne cerca altro più. E l’uso di tutti i popoli, per licenzioso che paia e vagante a caso, mai (nota il Dumarsais) non si parte da questa norma; né mai dà luogo a parole che dicano per l’appunto il medesimo d’altre parole, senza proscrivere la vecchia, o senza assegnarle alcuna varietà, non foss’altro, di grado.

Non è dunque a credere che le voci sinonime abbiano in sul primo denotata per l’appunto (come vuole il Boinvilliers) la medesima cosa; poi, sentita la necessità di parlare chiaro, essersene le differenze venute determinando. Non mai così forte, come ne’ primordii della civiltà, gli uomini sentono il bisogno di parlare chiaro; e, meglio che la chiarezza, cogliesi da’ parlanti altamente persuasi e veracemente commossi la prima condizione della bellezza vera del dire, l’evidenza. Così (per prendere esempio da cosa apparentemente più notabile, ma non più importante dell’umano linguaggio) le civili costituzioni in sul principio, perché non materialmente determinate e scritte su un foglio di carta, credonsi essere state ondeggianti all’arbitrio delle passioni e del caso; e pure non c’è legge più forte del tacito, universale e quasi ispirato consenso.

Il signor Laveaux, considerando che sinonimi veri la lingua non ha, intitolò la sua opera, Dizionario sinonimico; ma e’ non fece altro che coniare una voce non bella, senza togliere l’improprietà. Meno male attenersi all’antico; giacché non si corre, usandolo, rischio alcuno d’errore. Ognuno sa che sinonimo è voce così inadeguata come sono metafisica, fisica, matematica; ma quel che significhi, ognuno può intendere chiaro. Io non ho voglia per ora di affaticarmi a persuadere ch’altri l’accetti, un titolo più proprio, che piaccia a tutti, e piaccia anco a me.

V. Utilità ideologica dello studio de’ sinonimi

Nella scelta che molti scriventi fanno de’ vocaboli, la proprietà è la ragione a cui meno si bada; bensì l’essere tal vocabolo adoprato da scrittore di pregio, il parere più dolce all’orecchie o più nobile, l’essere meno usitato o più strano. Quindi rimescolate nell’uso nauseose anticaglie; quindi cacciate, fuor di tono, nella prosa le frasi della poesia; quindi posto il pregio dello stile in ciò che più s’allontana dal semplice e dall’evidente. Quindi l’improprietà del linguaggio scientifico; quindi l’impopolarità, anco in opere di mero diletto.

Bene osservava il Campanella che «le equivocazioni e sinonimità fanno doglia ai savii che veggono non potersi sapere, superbia a’ sofisti che mettono il sapere nelle parole, ignoranza a tutti» [8]. E il Locke: «Uomo che adopra voci alle quali non dà chiaro senso e determinato, inganna sé e gli altri». La quale sentenza doveva egli applicare a sé stesso un po’ meglio; e, più di lui, farne loro pro i suoi seguaci.

Dalle idee, mal sottintendendo frantese (avverte il sig. Guizot), vengono le contese in fatto d’arte, di scienza, di negozii privati e pubblici: questo è grave impedimento alla cognizione del vero; questa è pericolosa arme in mano de’ tristi. Una disputa di parole inceppa sovente il commercio delle idee e degli affetti; e le più sane menti vediamo averne danno molesto. Perché la confusione de’ significati (ben dice il Roubaud) è come un saggio della confusion de’ linguaggi.

La proprietà (dice il Girard), levando via le parole superflue, condensa il concetto, e lo fa più potente; dà chiarezza al discorso e delicatezza; sgombra i modi approssimativi, de’ quali gli uomini sì nel parlare e sì nel pensare s’appagano malamente; agevola lo studio e l’insegnamento delle scienze, e di queste assicura il cammino. La proprietà viene dal sentire e dal far sentire le idee che sono da ciascun vocabolo significate; e le più principali più vivamente.

Or quanti sono i vocaboli di senso o non bene o mal noto? Coloro che più sanno, con più modesta franchezza confesseranno la propria ignoranza. E il significato persin de’ vocaboli più comuni è talvolta o dimenticato o forzato dai più dotti scrittori e più diligenti.

VI. Utilità estetica di detto studio

«Se giovi badare alle differenze de’ significati (diceva un critico troppo indulgente a me) possono dubitare soli coloro che dettano in uno stile scompigliato, con frasi squarciate alla francese o alla settentrionale, senza evidenza, senza proprietà. I quali poi lo sconcio stile pretendono onde stare coll’abusato nome di libertà, e col professare di non voler ridurre il pensiero servo alla parola. Ma nel fatto è pigrizia indegna; è un non vedere come siano tutt’uno pensar bene e scriver bene» [9].

Per non conoscere le sottili differenze de’ significati, quante proprietà delle lingue morte passano inavvertite ai più; quante bellezze (osserva il Roubaud) perdute ai nostri occhi, perché le menome pieghe e le gradazioni de’ colori ci sfuggono, e l’artifizio dagli antichi posto nella scelta delle parole è sì rado compreso da noi! Come ci compiangerebbero quella buona gente, a vedere, non dico le nostre prose e’ versi latini, ma le traduzioni nostre e i comenti!

Un uomo che ben sapeva le difficoltà e gli artifizii dello stile, nota che tra tutte le forme atte ad esprimere un’idea, una forma è la meglio: non sempre la si trova, ma sempre la c’è; e fuor di quella, ogni altra è impotente [10].

Di qui l’utilità del ben dichiarare ciascun vocabolo della nostra presente lingua, per agevolarne a noi l’uso, ai posteri l’intelligenza. Né solamente alla storia della lingua lo studio dei sinonimi giova, ma esercita grandemente la sagacità dell’ingegno; e, di difficile ch’era in prima, riesce poi agevole e grato sopra ogni dire. E, facendosi testimone e interprete dell’uso, siffatto studio l’uso stesso conferma e rischiara.

Insegnare l’uso (avverte il sig. Guizot) della ricchezza che abbiamo tra mano, gli è più che creare ricchezza nuova. E il Boinvilliers: «Un trattato de’ sinonimi è alle opere degli scrittori grandi, come un trattato de’ colori è a’ dipinti de’ sommi maestri. Né questo crea il pittor grande, né quello il grande scrittore; ma giovano».

E, per conoscere come dalla scelta dei vocaboli appropriati siano avvivate le imagini, e reso colorato e potente il dire, basta notare che ne’ tempi quando le lettere vengono decadendo, allora segue e l’abuso de’ sinonimi, e la tediosa uniformità che riesce dall’abusata varietà [11]. Cicerone, che in sua gioventù s’addestrava a rendere in altre parole i concetti dei buoni scrittori, s’accorse poi quanto vizioso fosse siffatto esercizio; non però che nelle opere sue più consumate non si conosca talvolta lo spirito del retore, confuso all’anima del grande oratore.

Io non intendo che la distinzione dei vocaboli sia l’unica via di sentire e di conseguire quella proprietà efficace ch’è il suggello d’ogni potente parola; dico che il distinguerne le differenze può non essere senza giovamento a raddrizzare l’esposizione delle idee e le idee stesse, cioè l’educazione di questa povera e dolorosa famiglia umana.

VII. Predecessori del padre Rabbi

Per sinonimi intendevansi un tempo sole le voci scientifiche denotanti la cosa medesima per l’appunto; e ne’ codici antichi, di tali sinonimie ne rincontriamo parecchie, le quali potrebbero forse illustrare la storia della scienza: senonché in queste stesse è da notare una qualche differenza, non foss’altro, del maggiore risalto che l’uno di questi vocaboli dava più dell’altro a un’idea o principale o accessoria, secondo le opinioni degli autori che l’hanno usato, e de’ luoghi e de’ tempi [12]. Ma più vecchia origine e più trista ha il mal vezzo dal quale fu dettata l’opera del padre Rabbi. E in Isidoro di Siviglia vediamo precedere alle distinzioni delle voci affini (lavoro non accuratissimo, ma pregevole per quel tempo) il misfatto filologico che il Rabbi ingrossò in un volume. Or ecco come incomincia Isidoro:

«Venne tempo fa alle mie mani una cedola di Cicerone che chiaman "sinonimo" la cui forma m’indusse a scrivere una certa lamentazione, attenendomi non allo stile di lui ma all’affetto mio proprio.

Anima mea in angustia est; spiritus meus aestuat; cor meum defluctuat; angustia animi possidet me; angustia animi affligit me: circumdatus sum enim malis, circumseptus aerumnis, circumiclusus adversis; oblitus sum miseriis, opertus infelicitate, oppressus angustiis. Non reperio uspiam tanti mali profugium, tanti doloris non invenio argumentum...» [13].

E tira via su questo tenore. La Ragione, non meno loquace dei Dolore, gli risponde con la medesima copia. Non so veramente qual cedola abbia Isidoro trovata e di che grammatico, dove le frasi di Cicerone, e d’altri e ben altri, saranno state a questa maniera infilate; ma, per avverso che uno sia a Marco Tullio, si può ben dire che di lui certamente questo reo moltiloquio non era. E Isidoro poteva passar meglio il suo tempo.

Ma prima ancora che la civiltà, maturandosi, avesse prodotta la Regia Parnassi, e fatto d’una montagna bella di nevi e d’allori una corte (la colpa è d’Omero, anzi di Crise sacerdote, che si divertì, nel dolore, a gridare sulla riva del mare: Apollo re; sebbene tra ἄναξ e βασιλεύς sia, in origine, differenza quanta forse da Superiore a Illustrissimo), prima della Regia Parnassi l’esempio d’Isidoro era stato da altri valorosamente seguito; ond’io trovo in un codice antico questi fioretti di linguaggio poetico, degni che se ne facciano ghirlande da appendere alle tombe d’Alberto Lollio e del Bembo: «Abundantia - Fertile cornu - Fertilitas - et laeta cornu prodit ampio Copia - Copia ruris honorum opulenta benigno cornu manabit ad plenum tibi - Pleno Copia larga sinu - Fertilitatis opes» [14].

E, per venire all’Italia, precursore del padre Rabbi abbiamo (oltre ai tanti Tesori) un Giovanni Pasquale, che in simile modo si pensò di mostrare al mondo le bellezze della lingua italiana [15]; e se volete saggio del suo lavoro, eccolo: «Cesare stabilì di passar nelle Gallie, ovveramente determinò, risolvette, statuì, fermò, propose, deliberò, dispose, divisò, fece o propose consiglio, divisamento, risoluzione, proposta». Se Cesare potesse leggere le bellezze del Pasquale, direbbe non più: Venni, vidi, vinsi; ma: Son venuto, giunto, arrivato, capitato; ho veduto, mirato, scorto, adocchiato; ho vinto, rotto, sbaragliato, sconfitto. - Abiit, excessit, evasit, erupit. Del resto, a Giovanni Pasquale e a tutti i chiarissimi della sua immortale famiglia potrebbesi ripetere il motto antico: Non potevi bella, e l’hai fatta gonfia. - Divitias miseras!

VIII. De’ sinonimisti greci e latini

Nello studio del comparare i sensi dei vocaboli e del distinguerli, i moderni, così come in quasi tutte le cose, ebbero predecessori gli antichi. De’ sinonimi aveva già scritto lo stoico Crisippo [16], dacché segnatamente alla severità stoica tale precisione piaceva: di che gli dà lode Girolamo, che nella eleganza infuse la dottrina, e la virtù riscaldò con l’affetto. E Platone, il qual deride le cure soverchie spese da’ sofisti nel comparare i vocaboli [17] con l’abuso della cosa ne mostra già l’uso frequente; ma, scrittore corretto egli stesso, ci porge esempi non pochi di vocaboli e modi che i mediocri adoprano senza discrezione, e che allo stile di lui, usati con proprietà più severa, aggiungono chiarezza e efficacia. In età più tarda un Seleuco Alessandrino trattò dei sinonimi. Non altro a noi venne d’opere tali che un opusculo d’Ammonio [18]; colle distinzioni sparse nelle nomenclature di Tommaso Maestro, d’Emmanuele Moscopulo, di Frinico, e d’altri [19].

Il trattatello d’Ammonio grammatico d’Alessandria, vissuto, al dire del Fabrizio, sulla fine del quarto secolo, altri lo lodò come pieno di notizie preziose; altri (tra’ quali Enrico Stefano, definitore infelice, come abbiam visto) lo spregiò forse troppo [20]. Vero è che Ammonio spese talvolta le cure in distinguere voci di senso chiaramente diverso, talvolta frantese gli autori citati; ma queste macchie non coprono tutti i pregi del suo lavoro; né sarebbe falsa scusa imputarne almen parte ai copisti. Lavoro di grammatico, non già di filosofo, è il suo; ma il senno non manca; e buone osservazioni vi si rinvengono, e tradizioni dell’uso importanti. Altri si fecero belli dell’opera sua; segnatamente Eustazio, che mai nol rammenta, ed Erennio Filone, il cui trattatello è quasi una copia dell’ammoniano. Il sig. Pillon, recatolo in francese, l’arricchì di sue osservazioni e d’esempii; vi aggiunse distinzioni tolte da altri grammatici, e offerse modestamente il suo lavoro come saggio del molto che resta a fare intorno a’ sinonimi greci.

Anco i Latini conobbero l’utilità d’indagini tali. Sono distinzioni di voci affini in Varrone, in Seneca, in Quintiliano.

E Cicerone aveva già detto: «Sebbene i vocaboli paiano quasi del medesimo valore, pure, perché le cose differiscono, vollesi che nei vocaboli fosse altresì differenza» [21].

E degli apparenti sinonimi da Cicerone appunto adoprati, Asconio ed altri notarono le differenze. S’aggiungono le distinzioni di Festo, di Nonio Marcello, di Donato, di s. Isidoro; poi del Vavasseur, dello Scioppio, di Enrico Stefano, e d’altri; tra’ quali è a rammentarsi il Brissonio [22], il Brown, e l’Eberhard, al cui lavoro sta in fronte un discorso intorno alla teoria de’ sinonimi. Un de’ primi e de’ più noti fu Ausonio Popma; che, nato in Frisia, morì sul finire del secolo XVI, o nell’incominciar del seguente. Il Seybold ai sinonimi aggiunge gli omonimi, cioè le voci uguali di pronunzia o d’ortografia, differenti di senso. Ma l’opera del signor Gardin Dumesnil, perfezionata da molti poi, merita più speciale commemorazione di lode. Di dotti lavori recenti mi tolsero poter prendere contezza le occupazioni e le infermità.

IX. De’ Francesi

«Autore moderno (disse lo Zannoni) che tratti di proprietà di vocaboli attenenti ad antiche e morte lingue, non può pretendere speranza di far perfetto il suo lavoro: i libri d’esse fino a noi pervenuti non le contengono intere; e, se anche le contenessero, mancherebbe la scienza dell’uso che, pressoché tutta, s’apprende dai parlanti. Adunque, rispetto solo alle lingue viventi, può con pieno profitto scriversi dei vocaboli affini» [23].

I lavori intorno ai sinonimi dell’Adelung e degli altri Tedeschi, l’ignoranza della lingua a me tiene celati. E il simile deve la mia modestia confessare del trattato dei sinonimi turchi del fu Ismaele Akki Effendi, stampato a Costantinopoli non è molto. Quanto agl’Inglesi, il Blair toccò delle sinonimie nel Corso suo, e ne recò qualche esempio. I fratelli Piozzi (ch’altri mi dice essere una Inglese moglie d’un Italiano) ne diedero un libro, e due volumi ne uscirono tradotti in francese. Al Portogallo diede un buon trattatello il san Luigi vescovo di Coimbra, pulito scrittore e dicitore facondo, già preside del parlamento. De’ sinonimisti francesi dirò un po’ più a lungo.

I germi dell’opera che i buoni studii debbono all’abate Girard [24], erano già nelle distinzioni fatte dal Bouhours, dal Menagio, dall’Andry de Beauregard, e dal La Bruyère. Ma conveniva trattar di proposito l’argomento; e ciò fece il Girard in modo nuovo e con senno raro. Disse il Voltaire [25] che quel libro vivrà quanto la lingua francese, e che ad essa lingua varrà a conservare la vita. E i Francesi moderni, sin de’ più celebri, farebbero bene a rileggerlo.

L’Enciclopedia non neglesse i sinonimi; e del d’Alembert vi s’incontrano molte distinzioni. Debole al paragone l’opera del Beauzée. E de’ soprannominati nessuno comprovò con esempi le distinzioni additate; sebbene il Beauzée consigliasse altrui questa cura.

Nel 1780 l’Accademia francese coronò l’opera dell’abate Roubaud, già coronata dalla pubblica lode. Il quale in prova delle argute sue distinzioni, non isceglie gli esempi più gai, ma i più calzanti; né varietà però, né calore gli manca. Nato povero, egli ebbe dall’ingegno e pane e fama; né la povertà lo fece cupido o vile; ma visse franco amico del bene, e alla forza non giusta s’oppose talvolta con animoso coraggio. N’ebbe in premio l’esilio; e nell’esilio scrisse i Sinonimi. E gli uffizii in terra straniera proffertigli rifiutò, per amore di libera vita [26].

L’opera di lui volse a tale studio l’attenzione di molti; e parecchi libri su questo argomento uscirono, fin di donne. Cominciavasi a vedere più chiaro che mai, come la parola non sia cosa a caso, ma porti in sé un sacro sigillo che umano arbitrio non può cancellare.

Le distinzioni dei tre nominati godono continuo l’onore della ristampa; a una delle quali il signor Guizot prepose un suo discorso, e la arricchì d’altre nuove distinzioni [27]. La signora Faure pensò di fare i sinonimi occasione a morali e piacevoli insegnamenti; e ottenne, mi pare, l’intento [28]. Il signor Boinvilliers, ristampando la raccolta del signor Guizot con poche giunte e mutazioni, vi appose le etimologie meno dubbie; e premise, quanto alle distinzioni generali che hanno lor ragione nella desinenza e nelle particelle annesse al vocabolo, alcune assai buone avvertenze [29].

X. Degl’Italiani

In Italia nessuno, prima del Soave [30], aveva, ch’io sappia, espresso il desiderio di tale lavoro. Anzi il Varchi nell’Ercolano, il Bembo nelle Prose, e il Cesari in quelle ch’egli per eufemia chiamò Grazie, avevano coll’esempio consigliato la cosa contraria. Poi rinnovò il desiderio, nella «Biblioteca Italiana», l’Acerbi, o piuttosto chi scriveva per esso [31].

Nel 1821 uscì il breve saggio del Grassi, pulitamente scritto e assai saviamente pensato. E’ propose le differenze più palpabili, le illustrò con esempi quasi sempre opportuni e con diffuse dichiarazioni; condì le distinzioni con qualche buona sentenza. E quel lavoro piacque sì che le ristampe moltiplicarono più che a lavoro filologico non sia dato sperare. In una recente ristampa uscirono in luce, distinti de’ medesimi pregi, alcuni articoli postumi.

L’opera dell’abate Romani è qual poteva essere d’uomo digiuno delle eleganze e delle proprietà della lingua, mal curante e dell’autorità degli scrittori buoni e dell’uso migliore. Gran parte del suo libro è spesa in dimostrare che le voci affini, dalla Crusca apposte a quelle che le occorre di spiegare, non sono sinonime; ma egli le differenze di quelle voci non sa trovare il più delle volte. Ora si ferma a distinguere cose evidentemente diverse, o a cercare distinzioni laddove non sono, o a porne di false; ora s’appoggia a etimologie fallaci, ora a esempi non valevoli o non bene intesi; e le distinzioni più chiare offusca con le molte e improprie parole. E il peggio si è ch’e’ vuol raffazzonare la lingua a suo modo; onde saviamente fu detto di lui: «Cosa veramente nuova, che, per determinare il significato delle parole, non s’abbia più da ricorrere all’uso, ma alle regole stabilite dall’abate Romani. Egli non ha posto mente, che lo scriver bene non istà nel riformare la lingua, ma nel servirsi bene della già formata» [32]. Scegliere dalla lingua, formata già, l’uso migliore; mettersi alla testa, non alla coda, dell’uso (come un profondo filosofo, e a me caro, molt’anni fa mi diceva), certamente è l’uffizio del buono scrittore; ma voler combattere l’uso a petto a petto, è pazzia simile a quella d’un capitano che, facendo a calci co’ propri soldati, sperasse avanzare terreno e ottenere vittoria.

Non però che il lavoro del Romani abbiasi a credere inutile. Dopo aver detto che la lingua da lui raffazzonata è un po’ la lingua di Casalmaggiore (della qual terra egli non uscì mai se non a gite brevissime), un po’ certo gergo non parlato da mortale nessuno; egli è mio debito aggiungere ch’io del suo libro ho profittato più volte, e che sovente lo cito, correggendo senza contradire, ampliando senza ostentare le giunte, e a lui il merito attribuendo.

All’abate Romani succedette o precedette di poco, con i sinonimi inseriti nel suo dizionario, l’abate Nesi; e l’uso della lingua toscana, sua natia, a ben discernere lo aiuta sovente. Poi l’abate Gatti (i sinonimi paiono fatica gradita a’ preti e a’ santi), l’abate Gatti e i successori di lui, signori Rocco e Volpicella, nel Dizionario di Napoli, il signor Ambrosoli nel dizionario dell’Alberti, compendiarono, depurarono, corressero le distinzioni del Romani, troppo più concedendo loro talvolta d’autorità che non si meritassero, ma il più sovente adoprandovi il proprio senno e l’acume. Altre distinzioni aggiunsero essi del proprio; delle quali io mi sono giovato. Della traduzione in Parigi stampata dei sinonimi del Girard e del Beauzée, in due volumi, senz’ordine d’alfabeto e senz’indice, parlerei se traduzione fosse, e non un misto fra italiano e francese, inesplicabile a me che poco intendo le lingue miste; ma è da credere alla buona intenzione, e di questa saperne grado.

XI. Varie specie de’ sinonimi

I sinonimi della lingua italiana riduconsi (nota il Romani) alle specie seguenti:

Derivati dal greco o dal latino, che hanno nell’italiano la voce corrispondente; come coscienza e sinderesi, cavallo e destriero.

Voci da varii dialetti, o dall’uso della lingua de’ dotti, o da altri usi speciali passate nella lingua comune: capo e testa, ventre e pancia, serviziale e cristero.

Voci figurate od onomatopeiche, corrispondenti ad altre che dipingono meno: loquace e cicalone, ginepraio e inviluppo.

Le voci più veramente sinonime sono quelle che in diversi luoghi o tempi denotarono il medesimo oggetto, e ora denotano quel medesimo senza aggiunzione o detrazione di significati notabile. Ma quivi pure (ben dice il signor Guizot) le delicatezze dell’uso, la collocazione, la varietà degli stili, cioè delle materie ragionate e degli uomini a cui si ragiona, e delle circostanze di luogo e di tempo, inducono qualche tenue varietà.

De’ sinonimi meno intimamente affini, e però più necessaria a distinguere, ecco le fonti:

Quando al vocabolo generale si sostituisce il significante la specie o l’individuo: albero a pianta; a cavallo, bucefalo.

Quando si scambiano o par che si scambino i gradi d’intensità: contento, gioia, tripudio.

Quando non si bada alla varietà della cagione o del modo, ma piuttosto alla conformità dell’effetto, come: sorpreso, attonito; creazione, generazione; nettare, mondare.

Quando le materie differiscono: lastricare, acciottolare; o le forme: colmo, cima; o i luoghi: regione, provincia; o gli oggetti: genitrice, segnatamente della specie umana; madre, anco di bestie e di piante, e figuratamente di cose. O le relazioni: reggere, governare; o gli usi: albergo, ospizio; o le impressioni corporee: agro, brusco [33].

Altre sinonimie vengono dalle desinenze; altre dalle particelle annesse al vocabolo (di che dirò poi); altre dal vocabolo che originò quello del quale si tratta; altre da una circostanza accessoria, indicata comechessia dall’uno dei due vocaboli affini: altre consistono nel porre, in luogo del verbo, una frase intera; dell’avverbio, la frase avverbiale; della voce semplice, una composta; altre vengono al linguaggio dall’uso traslato [34]; altre finalmente da quelli che paiono (ma non sono) capricci dell’uso.

Più importanti a distinguere, perché d’ordinario più complesse, sono le idee comprese ne’ verbi, poi quelle de’ nomi, ultimi i nomi proprii. E né pur questi si possono sempre scambiare a caso. Non solo il ciuco non sarà potuto chiamare cavallo, sebbene si dica corsiere per ironia, e sebbene dicasi a caval d’un ciuco; ma Alcide per Ercole (nota il Dumarsais) sarebbe in molti luoghi affettato.

XII. Delle maggiori o minori affinità

L’idea comune a due o più vocaboli, i quali non variano se non per essere gradazioni e determinazioni di quella, è l’idea principale. Ne’ vocaboli confratello, collega, socio, la principale è l’idea di vincolo sociale; le accessorie sono, in confratello, l’idea religiosa; in collega, l’idea d’uffizio o di occupazioni comuni; in socio, l’idea d’utile.

E in ciò si fonda la distinzione tra le parole decenti e le indecenti, negata da’ Cinici, appunto perché non badavano alle idee accessorie che l’uso può congiungere alla principale, innocente per sé. Poi (nota il Roubaud), dalla indifferenza delle voci e’ passavano a quella degli atti, e nessuno atto indecente riconoscevano, di nessuno arrossivano. Il qual sofisma adduceva scherzando un vecchio poeta francese, per dimostrare come sia lecito il nominare le più sudicie cose «Proprement et communément, Pour croître notre entendement» [35].

Dunque, per meglio determinare le cose dette, notiamo col sig. Guizot, che le idee dai sinonimi espresse, sono o subordinate una all’altra, o coordinate sulla medesima linea. Le prime si recano tutte all’idea principale, e con varie gradazioni la rendono; le seconde contengono un’idea comune, poi altre, proprie a ciascuna di loro. La prima specie di sinonimie fu negata dal Fischer; ma non a ragione.

Più l’idea generale è prossima alla particolare in cui consiste la differenza, e più l’affinità delle due voci è stretta. Ma se l’idea generale comune a entrambe è lontanissima dalle accessorie proprie a ciascuna delle due voci, e’ non saranno sinonimi veramente. Mare e fiume non sono sinonimi, perché l’idea comune acqua è tanto lontana per ampiezza, che non si può confondere a quelli; ma fiume e corrente sono sinonimi, perché più prossima la comune idea d’acqua che corre.

Certamente: è cosa più facile discernere le particolarità che un vocabolo speciale aggiunge a un vocabolo generale, del vedere le differenze de’ vocaboli denotanti idee collocate quasi nella medesima linea [36].

Fu già toccato che que’ che trattarono de’ sinonimi, presero come tali sovente parole che l’uso notissimo ben distingue. Su questo non è regola generale da porre. Laddove l’uso della lingua è noto a pochi, o mal noto, si può nelle distinzioni allargare la mano. La sinonimia allora diventa un pretesto d’indicar cose buone a sapere, un mezzo di rendere più comune il linguaggio, cioè di stringere tra le anime umane vincoli nuovi d’intelligenza, e quindi d’amore.

Il simile sia detto de’ sinonimi scientifici e de’ poetici. In lingua sì ricca, com’è l’italiana, giova d’ogni maniera d’usi e d’affinità dare un saggio, per addestrare a ogni maniera d’esercizio le menti. Giova notare sin le varietà di pronunziare e di scrivere che ne’ varii luoghi d’Italia e ne’ varii scrittori s’incontrano, per conoscere qual fosse il più comune uso, e per indagar le ragioni di tale varietà; per distinguere quelle che vengono da corruzione della favella, quelle che da inesperienza o licenza degli scrittori; e se l’inesperienza sia novità dell’arte o ignoranza, se la licenza sia ambiziosa, se grave o leggiera e per modo di celia. Giova distinguere le varietà che la poesia o la prosa poetica indussero per servire al metro o al numero o alla così detta eleganza; e le varietà rese necessarie dai costumi nuovi, che più specialmente si possono chiamare storiche: dico, più specialmente, perché tutte servono ad illustrare la storia degli umani concetti e costumi.

XIII. Norme del distinguere. L’uso

Il lettore domanderà: Quali norme vi siete voi prefisse nella distinzione de’ vocaboli affini? Vi siete voi attenuto all’etimologia più remota, o alla più prossima? Alle analogie grammaticali, o alle onomatopeiche? All’autorità degli scrittori, o della lingua parlata? E tra gli scrittori, quali più autorevoli a voi, gli antichi o i moderni? E tra gli antichi, i trecentisti, o i cinquecentisti, o i migliori tra que’ del secento? Tra’ moderni, i più severi o i più liberi, gli scienziati o i retori? Avete voi fatto alcun conto dell’autorità dei Latini? Avete voi temuto d’accostarvi a’ Francesi? Avete sdegnati affatto i poeti? E quanto all’uso vivente, siete voi ligio a quelli che altri chiama eleganze, altri idiotismi toscani? Siete voi curante dell’uso de’ varii dialetti d’Italia? E tra i dialetti stessi di Toscana non iscorgete voi varietà nessuna, e tra le varietà non fate voi scelta? In queste interrogazioni si raccolgono tutte quasi le questioni riguardanti la lingua, e le difficoltà che si parano innanzi a chi pone lo studio in siffatti lavori.

L’uso più generale e più ragionevole: ecco la principal norma ch’i’ mi son posta nel mio. Quando la lingua scritta, e antica e moderna, quando la parlata e di Toscana e di tutta Italia, quando l’etimologia e la ragione concorrono nell’assegnare a una voce il medesimo significato, io abbraccio questa conformità come legge gratissima e come augurio di piena verace unità. Ma quando sono condotto a dovere scegliere tra l’autorità degli antichi e l’uso vivente, io sto sempre per l’uso vivente; se non là dov’esso apparisca cattivo, o incerto e tale da poterglisi sostituire un uso più certo e migliore.

La lingua parlata in altre parti d’Italia rade volte, forse non mai, s’oppone direttamente all’uso della lingua parlata in Toscana; senonché, dove quella tace, questa ha sovente una buona norma da porgere. Non è colpa mia se in Toscana le differenze d’alcune voci sono più acutamente osservate; se alle gradazioni varie d’un’idea corrisponde la varietà d’appropriati vocaboli; se molti di quelli che fuori di Toscana son giudicati arcaismi, qui vivono tuttavia. Giova, io credo, agli Italiani, impararli piuttostoché disprezzarli, poiché significano acconciamente idee che negli altri dialetti non hanno segni equivalenti, o li hanno men proprii, meno conformi alle analogie della lingua scritta, meno gentili, men noti. E come negare ora di fare cosa che gli avi nostri, ben più superbi e rissosi di noi, e a’ quali almeno era potenza di rissare e pretesto di insuperbire, fecero volonterosi? Come mai dimenticare che gli scrittori toscani furono a tutta Italia esempio d’ornato parlare; e che sin gl’idiotismi della toscana pronunzia furono, o come regola o come eccezione, adottati dalla lingua scritta di Italia? [37]

Mi si conceda insistere un poco su questo argomento: e si creda che non smania vana di dispute mi fa parlare, ma carità dell’Italia, da sì lunghe contese e sì misere lacerata.

XIV. Dell’unità della lingua

Un egregio scrittore, onorando d’amorevole commemorazione l’opera mia, diceva: «Come ne’ sinonimi, così in tutte le altre questioni riguardanti la lingua, cotesto sistema [dell’uso più generale e più ragionevole] invocato già da gran tempo dal buon senso di tutta la nazione, avvalorato dall’esempio di alcuni scrittori giudiziosi, abusato dalla intemperanza di molti, questo sistema dovrà, all’ultimo, prevalere; o l’Italia non avrà mai lingua comune, popolare, corrente» [38]. Soggiungeva poi: «V’hanno in questo dizionario [parlando del mio] alcune voci o distinzioni di voci che nella maggior parte delle provincie italiane non sono, né saranno mai forse, popolari; perché le gradazioni delle idee e le modificazioni del sentimento non possono essere sempre perfettamente uniformi in una nazione che sotto un nome comune abbraccia popoli differenti d’origine e di carattere, con abitudini e tradizioni diverse. Ma questo che importa? Uno scrittore il qual debbe sempre aspirare ad essere inteso da tutta la nazione, potrà qualche volta con buon giudizio esprimere con due o tre voci un’idea che in qualche provincia esprimerebbe forse felicemente con una sola, né alcuno avrà diritto di censurarlo. Ma quando egli vuole adoperare quest’unica voce, in tal caso chi dirà ch’egli non debba usarla in quel senso in cui l’usa la provincia dov’essa è popolare?»

Troppo è vero che questa mirabile insieme e deplorabile varietà d’origine, d’indole, di costumi, di sorti, la qual corre tra popolo e popolo italiano, gravemente contrasta con la tanto predicata unità della lingua comune; unità dalla quale meno si scostarono gli scrittori che più fedelmente s’attennero al toscano idioma. Ben dice il valent’uomo: Lingua veramente comune l’Italia non ha. Per giungere il meglio che si possa a quest’alto fine, giova ingegnarsi di rendere più generale l’uso che è già più comune, ch’è meno difficile a diventar generale, e che, per buona ventura, è tutt’insieme il più ragionevole. Giacché, quanto al voltare in perifrasi idee che richieggono e hanno nella lingua parlata di ciascun dialetto un vocabolo solo, ognun vede come ciò nuocerebbe alla proprietà ed alla forza, renderebbe intollerabili molti libri, e molti trattati d’arte o di scienza impossibili.

Con questa mira appunto diedi luogo nel mio dizionario a vocaboli e a modi toscani che in qualche altra parte d’Italia son poco noti; e se più noti per l’opera mia divenissero, io sarei lieto d’aver in alcuna piccola parte aiutato a questo bene inestimabile, e che tant’altri inchiude in sé: l’unità della lingua.

Dalla sgarbatezza del pronunziare e del leggere e del recitare, alla ben più deplorabile diversità di scrivere e di pensare e di sentire, ogni cosa ci mostra la necessità urgente di ridurre queste sì disgregate membra in bella e potente unità. Ma a cotesto bene non ci meneranno certo né coloro che dicono: «La pronunzia dei Fiorentini potrebbe farli credere strettissimi parenti dei popoli di Valcamonica» [39]; né coloro le cui scaramucce letterarie intorno alla lingua versano sul campo d’una erudizione sempre facile, sovente importuna.

E qui (volgendo il discorso a tutt’altri che all’autore sopra rammentato) mi sia concesso dir cosa nella quale tutti, spero, vorranno convenire; giacché mi par tempo oramai di guardare questa e altre questioni di letteratura e di più gravi argomenti, dal lato dove più le opinioni s’accostano, che da quello dove si allontanano più.

Ognuno vorrà, spero, concedere che all’espressione di ciascuna idea basti un solo vocabolo; ognuno vorrà concedere che il vocabolo più analogo alle forme della lingua scritta merita d’essere agli altri prescelto. Or quand’anco altri dialetti d’Italia avessero, per significare certe idee, voci e modi più belli di quel che siano i toscani; se questi modi, se queste voci non siano stampati del conio della lingua comune, se l’uso più autorevole non li renda facilmente accettabili a tutti gl’ltaliani, se dicono non più di quel che dice la voce toscana corrispondente, non veggo ragione d’introdurre o di conservar nella lingua cotesta ricchezza oziosa. Se un dialetto, qualunque sia, ha un buon vocabolo da presentare, che denoti idea da altri vocaboli non denotata, lo presenti nel nome di Dio, e ogni savio scrittore l’accetterà; ma voler travasare nella lingua comune le inutili sinonimie de’ dialetti, sarebbe un moltiplicare le difficoltà del bene scrivere e del ben intendere, senza che ne venga né ricchezza alla lingua né precisione alle idee.

Si dirà che tale trasfusione da nessuno è tentata. E tanto meglio. Giacché nessuno la tenta, nessuno si vanti di volerla o poterla operare. E si confessi che dal meglio di tutti i dialetti insieme sbattuti non uscirà mai lingua comune, che sia tollerabile, che sia intelligibile. Buona quantità di voci son comuni, sì, a tutta Italia; ma, quand’anco tutte coteste voci adoprassersi per tutta Italia nel senso medesimo (che non è), questa tale quantità non è sufficiente a formare una lingua.

XV. Della lingua parlata

Per disegnare certe gradazioni delle idee, certe particolarità degli oggetti, forza è venire alla lingua parlata, e saperne cogliere, non il triviale e il guasto, ma il bello ed il necessario. Senonché, quanto alle turpitudini del parlare plebeo, sono oramai giudicate le esagerazioni del Perticari; il quale insegnava a chi avesse la bontà d’ascoltarlo che «la mala forza della plebe è tale che tutto l’edifizio grammaticale sprofonda»; che «la plebe non conosce il bisogno di significare il proprio concetto con precisione e rigore; oggi guasta quello che ieri creò; non sa né di regola né di freno, non istà mai nelle stesse vestigia» [40]. Diresti che il valent’uorno accenni alla plebe de’ marchesi e de’ conti, poich’egli stesso altrove confessa che «i nomi prima escono dalla loro natura che dalla memoria de’ popoli; e che ne’ monti e nei campi rimane la parte più antica del comune linguaggio». Chi è che osi negare oramai, negl’idiomi popolari essere deposto il germe del vero; e la scienza non essere ad altro buona che a ritrovarlo ed a svolgerlo, quando pure sia degna di tanto? E sin nelle lingue de’ selvaggi fu già notata una regolarità, una sapienza, emulatrici delle più colte favelle che noi conosciamo. Que’ popoli dunque hanno sugli altri vantaggio, dove la lingua scritta è più prossima alla parlata. «I Sassoni sono i più colti popoli della Germania, i Toscani dell’Italia; e la nazione francese è la più colta di tutta Europa, generalmente parlando, perché la lingua delle leggi, dei libri delle istruzioni non è diversa da quella che sa parlare il popolo più abietto» [41]. Se la Francia sia la più colta nazione d’Europa, non so; ma certo la coltura è più facile a lei, anco per la ragione dall’autore accennata. Quanto al popolo abietto, rammentiamoci che il Napione era conte: Galeani Napione di Cocconato. Noi che conti non siamo, terremo in migliore stima il popolo abietto; e avremo dalla nostra un gentiluomo [42] nel credere che, là dove la lingua scritta s’accosta alla parlata, debb’essere più potente, perché di necessità meglio determinata e più chiara; perché nel parlare l’uomo non corrotto è guidato da certe norme sapientissime di natura. Ed è pure la terribile cosa dover confutare chi le disprezza!

Prendiamo esempio da un altro conte piemontese, l’Alfieri; il quale alle vive ricchezze toscane attingeva, e i modi dalla plebe parlati notava ammirando [43]. I quali modi se i Toscani volessero nel comune dizionario registrare, e fare di pubblico diritto quella necessaria parte di lingua che all’Italia colta ancor manca, farebbero eloquente risposta alle ciance dei pochi (se pur ve n’è) che tuttavia si compiacessero in controversia oziosa e importuna, fomentatrice de’ municipali orgogli che furono sventura d’Italia. Egli è ben vero che alcuni de’ modi che l’Alfieri notava non sono colti nel vero significato; isbagli non infrequenti a chi non è nato Toscano, sbagli de’ quali le fronde dell’insalata posson essere un saggio, e il far del seco è l’ideale supremo. Or se uomini ingegnosi e periti cadono in sbagli siffatti, che sarà della greggia? Che sarà di certi autori di lessici e di grammatiche, i quali dagli antichi sempre traggono le autorità, su quelle fondano i loro precetti, senza dire, e sovente senza sapere, se l’uso corrente a tali autorità contradica, o faccia eccezione; ch’anzi dànno quisquilie sovente per gemme? Poi, corretti, risbagliano. Di che vo’ citare un esempio del Biagioli. Egli aveva avvertito che gl’infiniti sostantivati nel plurale non s’usano più; ma un Toscano gli ebbe a notare che dall’uso non paiono sbanditi modi simili a questo: "Egli ha de’ fari, che non mi piacciono». E così parlari, e qualch’altro. Il Biagioli, generalizzando (come fa chi non conosce l’uso da sé), disse in una ristampa della grammatica, che tali infinitivi peuvent plaire aux connaisseurs de la langue.

XVI. Autorità ed esempi

Un altro Piemontese giova citare al proposito nostro. Giuseppe Grassi, scrivendo del suo Dizionario militare a Gian Pietro Vieusseux, diceva: «Ecco il lavoro più difficile e più importante di tutta l’opera mia; lavoro che non si può condurre né cogli autori né co’ vocabolario, ma ch’è tutto delle officine toscane: è questo una minuta nomenclatura di tutti i ferramenti, strumenti, e parti diverse delle artiglierie, per le quali ogni Stato italiano ha le sue voci proprie desunte dal proprio dialetto. Quindi la necessità di ridurle sotto una lingua comune che sia norma e regola a tutti i dialetti particolari; né questa lingua comune può rinvenirsi altrove che in Toscana».

Il qual desiderio del Grassi non è stato adempiuto. Gioverebbe che quella parte di lingua militare che in Toscana si conserva vivente, e (a supplire alle mancanze di lei) quella che vive in altre italiane provincie, fosse accuratamente raccolta. Gioverebbe in quel dizionario fermare quali vocaboli convenga rimettere o ritenere nell’uso, quali sbandire come sinonimi inutili, o come improprii; senza le quali avvertenze l’opera del Grassi non farà che aggravare l’incertezza e la confusione, invogliando i mediocri a scegliere fra le parole ivi notate le meno conformi all’uso moderno, e così a screditare la lingua nativa, e rendere quasi desiderabile l’uso, vergognoso sì, ma uniforme e costante, de’ modi stranieri.

Ogni incertezza sarebbe, del resto, tolta via se le milizie piemontesi, napoletane, parmigiane, modenesi, romagnuole accettassero il linguaggio militare toscano; e per quelle voci che al toscano mancano, scegliessero o dagli altri dialetti o dall’uso antico, in modo che se ne potessero escludere le francesi. Allora tra la lingua parlata e la scritta non sarebbe discordanza dannosa alla diffusione delle discipline strategiche, e all’intelligenza de’ libri. E questo adduco qui per esempio di tutte le altre arti e discipline, che di lavori e provvedimenti simili avrebbero di bisogno.

D’un altro Piemontese erudito ci giovi sentire l’opinione sopra tale argomento [44] «Quella nazione che prima ebbe ed in maggior numero volgari scrittori, impresse alla lingua da loro adoperata un suggello suo proprio... Vano ed ingiusto sarebbe negare alla nobilissima nazione toscana le prerogative acquistate col numero e con la qualità de’ suoi scrittori; vano ed ingiusto affermare che la popolare favella in sull’Arno non avanzi in bellezza e dignità tutti i dialetti d’Italia. Però, senza torre affatto a questi il privilegio di contribuire, dove possono, ad accrescere di qualche rara aggiunta la ricchezza e maestà della lingua, diremo che nel popolo di Toscana son da cercare principalmente le foggie con cui vestire i nuovi pensieri, e le novelle cose, le quali o fra noi nascono o ci sono d’oltremonte recate; e che nel popolo di Toscana sono eziandio da cercare quelle locuzioni le quali, perché destinate a significare certe particolarità della vita domestica, s’incontrano troppo di rado ne’ libri, e sono generalmente ignorate; né dai dialetti ond’usano le altre provincie, si potrebbero lodevolmente derivare». Quest’è il punto pratico della questione, questo il solo che importa.

Del resto, gli spregiatori dell’uso toscano non possono non condannare col fatto il proprio disprezzo. Taluni di loro son anzi ligi seguaci de’ modi toscani; senonché l’uso vivo confondono col morto; tra le varietà degli stili una sola forma conoscono e imitano, e con quella trattano tutta sorte argomenti. Altri poi, che l’uso toscano non degnano, vediamo cadere nel fiacco, nello sguaiato, nel ruvido, ch’è una pietà. Non vi parlo del Cesarotti o de’ seguaci di lui; ma prendete cosa più antica, prendete il dialogo di Pierio Valeriano intorno alla lingua, il qual dialogo non manca di sale, e di quel buon senso ch’è più raro assai dell’ingegno. Ivi egli afferma che quanto ha di bello il toscano, è lingua comune; e il toscano dispregia col pretesto solito degl’idiotismi; quasiché l’uso toscano sia tutto idiotismi; quasiché la grammatica non basti a correggerli quando bisogna; quasiché ai non Toscani basti la grammatica e il loro dialetto a farli parlatori eleganti. Ora vedete con che sorte di lingua e di stile il Valeriano difende la sua lingua comune: «Per mia fè, Colozio, ieri sera vi portaste bene: prometteste venir a cena con noi: non solo non veniste, ma pur non mandaste a dire che non venivate. Noi aspettassimo fino a notte, e le vivande svanivano, in modo che Messer Mario rinnegava le stelle».

E il traduttore del Volgare Eloquio, l’inventore dell’Omega italiano, l’autore dell’Italia Liberata, per vedere come scrive, leggete la sua lettera alla Pia Sanseverina, dov’egli le insegna ch’essa è nata uomo, d’animo e di corpo composta, e che la prudenza è tra le operazioni per le quali la donna può acquistare immortalissima fama; e che «Gneo Pompeo, il qual fu virilissimo uomo, fu calunniato come effeminata persona per grattarsi il capo con un dito solo».

Ma gli esempi dell’Ariosto e dell’Alfieri parlano chiaro assai. E quando il signor Gamba attesta che il Savonarola scrisse assai meglio dopo aver fatto soggiorno lungo in Firenze, diffìnisce in modo assai chiaro la lite.

XVII. Necessità della lingua insieme e della civiltà nostra

Coloro che meglio scrivono, in tanto scrivono meglio in quanto attinsero a’ Toscani, o ad altri che da quella fonte derivano. E se più vi s’attingesse, molti difetti dello stile italiano si verrebbero dileguando: e quella prolissità che pare fatta compagna indivisibile alla gravità e all’eleganza; e que’ latinismi inutili; e que’ modi indeterminati e impotenti in cui molti pongono l’eleganza e la gravità; e quelle bellezze con tanta cura raccolte, con tanto stento commesse, che sono come i fiori secchi del botanico accanto a fiori ingemmati dall’aurora nascente; son quasi mummie venerabili per antichità in mezzo a un coro di giovani donne danzanti e belle. Non s’avveggono che un modo tanto più dev’essere accetto, quant’è più comune; che il più comune, in fatto di lingua, come in molte altre cose, è quasi sempre il più bello; che non nell’uso di vocaboli reconditi, ma nella scelta e nella collocazione dei noti a’ più, è posto il pregio della vera eleganza [45]. La forza scompagnano dall’eleganza; delle quali due doti la congiunzione è sommo pregio dell’arte e dono rarissimo di natura: e a congiungerle aiuta appunto la norma dell’uso, dalla quale apprendesi quella virile schiettezza ch’è il linguaggio della verità degnamente sentita. Per non ricorrere alla norma d’un determinato uso vivente, la lingua nostra dall’una parte è sopraccarica d’ornamenti, dall’altra è ignuda o rattoppata di cenci stranieri.

Il bisogno di ben parlare si fa sentire specialmente nelle traduzioni de’ libri trattanti, non cose generiche, ma scienze; dove a ogni tratto è forza cercare vocaboli che rendano le idee così spiccate e in rilievo, come sono nella lingua da cui si traduce. Scrittori gravissimi, e terribili di maestà, qui v’aspetto. Scrivetemi con la vostra lingua aulica un trattatello astronomico, tecnologico; e se da quella trarrete tanto tesoro di modi da significare le cose della natura e dell’arte con proprietà, con franchezza, con uniformità, cederemo alla vostra eloquenza.

E il medesimo dicasi de’ libri destinati al popolo e a’ giovanetti. Un uomo d’ingegno non volgare, non ben conosciuto dagl’Italiani, scrisse a uso de’ fanciulli parecchi libri, per il suo tempo, assai buoni; e li scrisse, non senza cura d’inserirvi alla meglio i modi famigliari toscani: ma, ignaro com’era dell’uso vivente, propose molti modi antiquati, che renderebbero oscuro e ridevole il dire di chi nel famigliare discorso li adoperasse [46]. Qui, ripeto, si sente il vuoto delle questioni tra noi con tanta acrimonia agitate. Citare passi di Iacopone da Todi e di Ciullo d’Alcamo; arzigogolar congetture per ispiegare in qual modo l’Italia si creasse una lingua scritta senza ricorrere alla Toscana, dove tuttora vive la maggior parte della lingua usata nel trecento o ne’ secoli susseguenti; ridersi del Burattello; vantare la lingua dei Volta e dei Piazzi, come se il Volta e il Piazzi scrivessero più elegante del Galilei, come se i dizionarii scientifici compongano intera una lingua: son belle prove d’ingegno: chi dice di no? Ma tutto cotesto non insegnava al Taverna a non chiamare ribrezzo il brivido della febbre. E il Taverna è scrittore accurato; e quanti ribrezzi simili abbia lo stile moderno, chi potrà numerare? c’è da far rimbrividire davvero.

Il Perticari nella sua Apologia ha dimenticato di citare un trattato di mercante o d’orefice o di pittore lombardo da potersi contrapporre a quelli del Vasari, del Cellini e del Pandolfini, cioè dell’Alberti. E me ne duole per la sua lingua cortigiana. Raffrontate la traduzione toscana del Viaggio di Marco Polo con la lingua illustre del Veneto Ramusio; dove, da poche parole in fuori, ogni cosa è in grammatica; e vedrete che dalla facil cura di ridurre a grammatica le desinenze e il costrutto, al dono della vera eleganza, è lunghissimo l’intervallo.

XVIII. Obiezione grave

Diranno: E i Toscani scrivon eglino tutti in modo esemplare? Pochi, rispond’io, scrivono in modo tollerabile; in modo degno de’ loro maggiori e della lingua da quelli redatta, pochissimi. Ben sorge una generazione che, ornata di nobili intendimenti ed affetti, s’ingegna di ritemprare nelle correnti della più schietta lingua viva lo stile. Ma i più de’ maturi sono scrittori cattivi, appunto perché non approfittano della lingua parlata, perché credono che un dotto scrivente, una persona per bene, debba stampare il suo pensiero rabberciato in tutt’altro modo da quel che si parla. Anzi taluni paiono d’opinione che, siccome un valent’uomo non deve parlar come pensa, così non debba scrivere come parla. Ecco ragione di più perché gl’Italiani, de’ quali taluni intendono così bene l’artifizio dello stile, vogliano invitare l’esempio del buon Manzoni, e facciano miglior uso che i Toscani stessi non degnano delle toscane ricchezze. E così fa il Lambruschini che, nato in Genova, dimorante in Val d’Arno, scrisse trattatelli agrarii dai quali si vede quanto sugli altri dialetti si vantaggi il toscano parlato oggidì. Paragonisi gli scritti di lui con quei dell’Aporti: paragonisi l’opera del Dandolo col libretto del Lambruschini sui bachi da seta; e si giudichi. In siffatte cose un esempio, ed esempio tale, a ogni uomo ragionevole è assai.

Più delle dispute e de’ precetti e delle grammatiche e de’ dizionarii varrebbero certamente gli esempi. «Se la Toscana (diceva il Cantù dietro al Manzoni) avesse prodotto a’ tempi nostri il Goldoni, deh quanto avrebbe vantaggiato la lingua comune il trovare vivo ne’ loro scritti quel parlare che debbesi andar cercando sulle rive dell’Arno! Quanto vantaggerebbe se colà si stampasse qualche cosa di simile all’Enciclopedia o al Giornale delle cognizioni utili, ove i compilatori non avrebbero che a dire nella lingua usuale tante cose il cui nome proprio, a chi non è di colà, è sì faticoso a trovare!»

Facciano certi letterati toscani a senno loro; ma, per malandato che scrivano, non vieteranno a me d’ammirar quella lingua che fin gli annunzii di gazzetta può fare eleganti. Nel numero XXXVIII della «Gazzetta fiorentina» del corrente anno [47] si legge: «In questa città di Firenze ed in via Maffia si appigiona una vasta e comoda scuderia lastricata e in volta, per ventiquattro cavalli, lunga braccia quarantaquattro, larga braccia quindici, circondata di mangiatoie, colonnini, battifianchi, pila grande di pietra, e sua tromba di piombo, due stanze, e stanzini per i finimenti e biada, con comoda scala di pietra che serve per salire al fenile, e con ribalta, puleggia, e burbera per comodamente portare sopra il fieno».

Chi questo annunzio scrisse, non è un letterato, di certo; lo giuro per l’ombra di Benvenuto Cellini.

XIX. Del padre Cesari, e di cose simili

I Toscani, scrivendo una lingua barbara e non parlata che dai servitori di piazza o da qualche mezzo gentiluomo o mezzo letterato infrancesato; i non Toscani, adoprando a sproposito le toscane eleganze, nocquero alla fama del caro idioma.

Al senno dello scrittore spetta rigettare le parole non convenienti al suo stile, cioè al suo concetto; a lui spetta, con parsimonia e accorgimento, rimettere nell’uso della lingua viva le buone locuzioni della lingua scritta, parlate altra volta. Cotesto è dello scrittore esperto e diritto e dovere; ma dovere ben raro. Il fondo della lingua dev’essere comune, com’è comune quest’aria che respiriamo; perché la parola è il respiro della intelligenza. Ma certe anime buone, per amore della semplicità del trecento, perdettero la semplicità; e affettarono quella schiettezza il cui principal pregio è non essere punto affettata.

Il Cesari, benemerito degli studii italiani, e fornito d’ingegno più desto e di più sodo sapere che dagli scritti suoi non paresse, il Cesari diede pretesto a molte e non troppo ingegnose facezie contro le toscane eleganze. Egli che non solo il Perticari ma il Monti stesso diceva (me presente) scrittori privi di naturalezza, egli si sarà creduto di scrivere naturale dicendo: «Ho riso anche non poco di quei molti oppositori, i quali peccato che siano Italiani; ma egli sono troppo, che dovevano essere Vandali ed Ostrogoti» [48].

A divenire scrittore, non grande, ma più che comune, non altro mancava al Cesari che imparare a distinguere dalla morta la lingua viva; ché, quanto al mescolare ne’ gravi soggetti modi famigliari, questo può talvolta essere pregio e necessità [49]. Ma il Cesari confondeva gli stili, confondeva i linguaggi de’ secoli diversi; e, per amore della mal conosciuta proprietà, scriveva assai volte improprio. Di che noi demmo prova dieci anni fa, recando di lui una lettera di Cicerone tradotta, e notando le mende. La qual dimostrazione, alquanto men severa, e meglio fondata nell’uso, gioverà qui ripetere.

Metello a Cicerone

«Se sei sano, sta bene [50]. Io credea già che, per lo nostro amor [51] vicendevole e per la riconciliazione nostra, tu non dovessi così fare strazio [52] di me lontano: né il fratel mio Metello [53], per una sua [54] parola, dover essere nella vita e nelle fortune [55] da te oppugnato. E se la bontà [56] di lui poco poteva fargli scudo [57], certo [58] la dignità della casa nostra, e l’opera [59] mia per te [60] posta e per la repubblica, dovea metterti in buon riguardo [61]. Or ecco lui circonvenuto e me deserto [62] da cui meno si conveniva. Io dunque [63] vivo in lutto e in tristezza [64], standomi al governo d’una provincia e d’un esercito, e tuttavia [65] in guerra. Nel che essendo tu uscito dalla ragione [66] e dalla clemenza de’ nostri maggiori, non maraviglia [67] se te ne pentirai [68]. Io non mi aspettava da te un animo tanto volubile verso [69] me e i miei. Tuttavia, né questo dolor di famiglia, né ingiuria di chicchessia, mi storrà dalla repubblica [70]. A dio [71]».

E questo buon Cesari, dopo sepolta la vita sua nelle miniere del secolo decimoquarto, non sapeva distinguere l’oro dal piombo; e si lasciò ingannare alla meschina contraffazione intitolata Storia di Semifonte, e ad altre ancora. E, nel giudicare la bontà degli scrittori, si confondeva in misero modo. A credere a lui, noi avremmo, tra imbalsamati e fradici, un’infinità di classici da fare spavento; tanto che, non pure una biblioteca compiuta, ma sarebbe difficile possederne il catalogo intero.

E nell’interpretare e nello stampare cotesti classici, quanti granchi il valent’uomo non prese! Ma l’arte del dare in luce i vecchi testi, che, dopo sì lungo esercizio, dovrebb’essere perfezionata in Italia, aspetta anch’essa il regno di quel senso comune che in tutte le cose umane pretende autorità: tanto egli è importuno e tiranno. Senonché di coteste semplicità tripudiano i nemici della pedanteria, e col nome di pedanteria notano ogni studio ch’abbia per fine la fedele e potente significazione delle idee e degli affetti. Non facciamo che, a proposito di testi, e’ passino, con l’associazione delle idee ch’è in costoro sì rapida, da’ testi a’ cocci. E in verità, qualche freddura, o qualche risentimento sarebbe almeno in parte scusato da questa profana superstizione che la voce testo (comunemente indicante la parola ispirata da Dio, e originariamente non altro denotante che la tessitura del periodo) osa appropriare agli scritti di un secolo solo, per elegante ch’e’ sia come tutti di pari bellezza e autorità quasi che tutti i modi che in quelli s’incontrano, debbano presso gli scriventi avere autorità simile a quella che presso i credenti ha l’evangelista Giovanni e il legislatore Mosè.

XX. Seguaci del padre Cesari, e seguaci del conte Perticari

Pochi seguaci ebbe il Cesari, ma coraggiosi. E per saggio del loro coraggio recherò qui d’uno di essi, defunto, un frammento della vita di Licurgo; frammento non molto laconico, ch’io accorcerò per offrire ai lettori pura e semplice la vecchia eleganza.

«Si cominciò dal bucinare agli orecchi, indi a far de’ cerchietti su pe’ canti, per ultimo a dire sbarbazzato quanto fosse zaroso lasciare lo re nato in mano di cui tanto caleva lo spegnerlo. Il bolli bolli si fu levato sì forte, che Licurgo, veggendo la mala parata, dovette prender confino. Ma Sparta, in breve stanca delle domestiche dissensioni, mandò più volte a pregarlo che piacerli dovesse a tornare, come unico soprattieni de’ mali dello Stato. Dopo molte preghiere e fregagioni, Licurgo calò; e poco stante si fu trasmutato in Sparta. - Mandò consultando la Pizia, la quale, poscia ch’ebbesi alquanto rimescolata sul treppiede, e stata in tentenne, chiamar dovessero mortale o nume... Nume Licurgo, esclamò... Ma in una sommossa levatasi per rispetto d’una legge che andava a dirittura contro i ricchi, ei fu colto da un colpo di pietra che l’occhio gli spiccò netto dall’occhiaia: e tale fu la pazienza ch’egli fece apparire nella sua infermità, che Alcandro stesso, il suo offenditore, l’agrume e l’aloè gittando della rustica ed aspera sua natura, mutò l’odio in amore».

Diranno che dall’aver io raccozzate queste frasi sparse in discorso più lungo, apparisce maggiore che in sé non sia la stranezza loro. Ma facciamo simil saggio sopra stile diverso da questo, fondato sull’uso più generale e più ragionevole; e, tranne qualche leggiera inconvenienza, che potrà venire da compendio di siffatta maniera, non ci sarà punto da ridere.

Tutti coloro che dall’uso si partono (o scelgano i modi più comici o i più dignitosi) dànno sempre un po’ nello strano, e sono pedanti. E quando un altro anonimo, seguace della maniera del conte Perticari, ci dice: «Allorquando incontra vedere cosa moderna che renda imagine del sovrano sapere degli antichi», subito viene alla mente il dantesco: «... com’egli incontra Ch’una rana rimane»; e l’altro: «Tale imagine appunto mi rendea Ciò ch’io udiva, qual prender si suole Quando a cantar con organi si stea».

E quando egli esclama: «Quanti affetti ne incuora!...» e’ ci fa tornare a memoria: «... Lo tuo ver dir m’incuora Buona umiltate, e gran tumor m’appiani».

Fra il rimescolarsi della Pizia sul treppiede e l’incuorar degli affetti, è minore distanza di quel che a taluni paia.

XXI. Del conte Perticari suddetto

Il Perticari stesso (alla cui graviloquenza gli artifizii del Bartoli sono come un riccio di contadinella a una parrucca incipriata), il Perticari che deride il Salviati dell’aver chiamato dèi casalinghi i Penati, sentite con quali parole lo biasimi. «Quasi che, dice, quegli dèi fossero dell’ordine de’ colombi» [72]. Io non so veramente se sia cosa più nuova associare all’idea de’ Penati quella de’ colombi, o all’idea de’ colombi quella de’ frati.

Giova osservare che la straordinarietà del linguaggio, la quale dà talvolta allo stile cert’aria di dignità, è pregio tutto posticcio che non compensa il difetto di pregi più intrinseci. Molti si credono d’essere scrittori non comuni, allorché rinvolgono un’idea comune in abito straordinario; ma converrebbe, in quella vece, sotto forme comuni, rendere accessibile e, quasi direi, perdonabile la straordinarietà dell’idea. La forza, la grazia, la nobiltà dovrebbesi collocare nella semplice significazione d’un vero e gentile concetto. La parola allora sarebbe bella non d’ornamenti accattati, ma della sua vergine, nudità.

Disputand’io, or fa dieci anni, della necessità di lasciare al linguaggio poetico alcune voci e frasi sue proprie, m’intesi da un gran poeta rispondere: «Non conviene che la poesia venga a disturbare le cose di questo mondo». Risposta che a molti parrà bestemmia; ma piena di senno, e degna di vero poeta. Con cotesto principio d’una lingua poetica da sé, non solamente la poesia diventò gergo, ma la prosa stessa ebbe a raccattarne il contagio; e cominciò ad affettare certi modi che, se fossimo meno preoccupati da abiti pedanteschi, ci moverebbero a riso.

E’ sarebbe ormai tempo d’accorgersi che all’uso, siccome al popolo, prima di farci degni di comandare, bisogna sapergli ubbidire; che l’efficacia de’ grandi scrittori è dovuta appunto a questo rispetto delle forme comuni, al disprezzo d’ogni rettorica smania di singolarità. Del quale rispetto ci siano esempio i tre più insigni scrittori di Roma, Cesare, Virgilio, Cicerone; ci siano testimonianze le acerbe e non ingiuste censure da molti antichi mosse agli arcaismi di Tucidide e di Sallustio.

Ciò che fu detto (e non so se a ragione) d’una quasi sconosciuta traduzione di Cesare [73], parmi il più invidiabile elogio dello scrittore: «In questo lavoro non parole nuove né recondite, non sentenze perverse, non traslati inusitati troverai, ma parole piane e lucide, sentenze composte e ordinate, e finalmente forme di dire da molti consumatissimi uomini usate». Non affettata gravità, non vezzi mendicati, non armonia artifìziosa oltre a quello che il soggetto richiede, son pregi del buono stile; ma l’uso di quelle vive eleganze che, dalla natura ispirate a’ popoli, risultano dal comune consenso, dalla comune esperienza. Non siano le parole quasi manto larghissimo che ricopra un’idea meschina e trita; non si preponga il luccicante allo splendido, il vezzoso al bello, l’ampio al grande, il magnifico al conveniente, la maschera al volto vero.

La lingua della Commedia di Dante era tutta (tranne i termini scientifici e qualche latinismo raro) parlata in Toscana; le voci e i modi che in Dante ci paiono de’ più strani, si trovano usati in altre opere di famigliare linguaggio. Da ciò non viene che il linguaggio di Dante sia prosaico; ma appare che la sua lingua poetica non era diversa da dell’umile prosa. Quello che rende poetico il dire delí’Allighieri è non la stranezza de’ vocaboli, ma la scelta e la collocazione corrispondenti alla poesia del concetto. Giova lavare alla fine quel grande poeta dalla taccia d’audace licenza e di stranezza affettata, che molti gli appongono tuttavia, come lode; taccia che troppo sarebbe vera se le locuzioni che agli ignari del vecchio linguaggio vengono inaudite, avesseegli osato di proprio arbitrio coniare.

XXII. Dell’uso più ragionevole

Abbiam veduto che l’uso della lingua parlata è unica norma alla scritta; che l’uso toscano è il meno ignoto alle altre parti d’Italia, quello la cui autorità è più consentita nel fatto, e da molti anco in parole; il più facile a diventar generale, il più conducevole al fine a cui dobbiam tutti tendere, l’unità della lingua. Abbiam veduto come chiunque dall’uso si diparte, va nell’assurdo; e tanto meno è visibile l’assurdità, quanto meno patentemente alla legge dell’uso è fatto oltraggio. Ma io sul primo, alla condizione dell’uso più generale un’altra ho soggiunta: «e più ragionevole». Di che mi facevan carico uomini rispettabili, e non toscani; quasiché, dicevano, all’arbitrio degli umani ragionamenti debba lasciarsi rimpastare la lingua. Atteniamoci, seguitavano, all’uso toscano, e avremo lingua comune; e questo ci basti.

Certamente il toscano è da prescegliere, per la ragione assai valida, ch’e’ fu sempre, a dispetto de’ litiganti, e dai più savi de’ litiganti stessi, prescelto; e anch’io lo dissi lingua più che dialetto. Aggiunsi, però, ch’egli era da prescegliere, perché più gentile. Questa è ragione che, unita a quell’altra, ha il suo peso. Né l’uso è venerabile, se non perché sulla natura delle cose si fonda, il più delle volte, e nelle materie più gravi. Ma a giudicare la convenienza e la proprietà de’ vocaboli, l’uso per sé solo non basta; se pure non si voglia il criterio del La Mennais anco alla letteratura applicare, come facevano i settatori delle idee del Bonald nel tempo che il La Mennais col Bonald andavano per la medesima via. Contro la piena dell’uso, buono o reo ch’egli sia, forza, è vero, d’ingegno non vale; ma si può moderarne l’impeto, antivenirne i traviamenti, cansarli almeno in parte; si può scegliere tra due usi il migliore. Questo si fa comparando la voce o il modo con le analogie della lingua, per vedere se sia conforme a quelle; cercando se il traslato (poiché gran parte della lingua è traslati) sia dedotto da relazioni troppo lontane, o accidentali, o false, o distrutte dal tempo.

Ripetiamo: il toscano è da prescegliere, perché stato sempre dagli scrittori adoprato come principal norma; sta bene. Ma è egli un caso cotesto? Io non credo. Io credo che in queste cose della lingua, così come intutte, la Provvidenza abbia la parte sua; e che, quand’anco questo dialetto non sia stato prescelto perché migliore, si è trovato, e si può dimostrare, che gli uomini non si potevano risolvere a scelta migliore. Il fatto si è (e questo pure è fatto) che, guardando alle tre norme con le quali si può giudicare la bellezza d’una lingua, dico l’etimologia più prossima e d’evìdenza irrecusabile, l’analogia filosofica e la grammaticale, l’armonia musicale e l’onomatopeica; guardando alle tre dette norme, si vede che cotesto caso il quale sposò l’italiano pensiero alla favella toscana, è caso sapiente; che questa necessità di presceglierlo e di sempre più fedelmente amarlo, è provvida e bella necessità.

Dunque, se, dopo avere affermato che un dialetto fra tanti dev’essere agli scriventi principal norma, perché senz’esso non s’ha lingua né una né ferma né intelligibile, io soggiungo che cotesta norma, anco per altre ragioni, merita che sia seguita, non mi par di dire bestemmia.

XXIII. Del come interrogare le norme dell’uso

Ma nel conoscere l’uso, nel condurre ad evidenza que’ fatti stessi de’ quali i sensi ci son testimoni, sorgono inaspettate difficoltà che richieggono dottrina e, massime, docilità. Noi vediam tutto giorno uomini di studio e d’ingegno, che visitano la Toscana, che vi dimorano, partirsene o viverci insensibili alle bellezze di quella soave lingua. E questo perché non hanno mai esercitata la penna sopra argomenti ne’ quali le ricchezze della lingua viva si fanno, più che altrove, sentir necessarie; perché, non nel popolo e nelle campagne, ma nelle conversazioni e negli alberghi hanno costoro cercata la toscana eleganza. Né a quegli stessi che la cercano là dov’ell’è, riesce facil cosa conoscerla per intero, e offrirne ai lontani giusto concetto. Molte voci in Firenze ignote, suonano famigliarissime in altre toscane città; molte vivono in qualche angolo del contado. In una città medesima, a un ordine di persone tal voce sarà famigliare, che sarà ignota all’altro. Domandate a un uomo del popolo se tale o tal modo sia in uso; dirà che no: poi lasciatelo un po’ parlare, e quel modo stesso che gli sonava nuovo, troverà nel suo discorso un cantuccio dove con grazia adagiarsi. Anco vivendo in Toscana, e Toscano essendo, non è facil cosa potersi accertare che l’uso d’un modo o d’un vocabolo sia spento in tutto. Io domandavo a un agronomo valente, il qual convisse a lungo co’ campagnuoli, se appiccarsi dicessero del seme affidato alla terra. - No - . Esco fuor di porta, e a un contadino domando: Quando il seme piglia, come dite voi? - Ch’e’ s’appicca - . Un altro Toscano usava, parlando, pauroso per atto a far paura, l’usava per mostra d’erudizione, accennando al verso di Dante; e da me, non toscano, apprendeva usarsi in Toscana pauroso a quel modo.

Per essere degno di sentire, e di far sentire altrui tutte per l’appunto le idee e i sentimenti de’ quali una moltitudine d’anime ragionevoli ha voluto fare interpreti certi suoni, vuolsi, oltre alla volontà dell’apprendere, l’abito dell’osservare, e l’esercizio sovente dello scrivere, e quel senso del conveniente, senso che con parole non si definisce. Di che, per ammaestramento dei lettori e per trastullo mio, vo’ recare un esempio; e non fa che sia tratto da lingua morta.

Un ampliatore del lessico forcelliniano, il quale non dubitò di scrivere tra le voci latine adoneus per idoneus, e agnasco per agnosco, menò poi rumore perch’io nell’oraziano: «Iam te premet nox, fabulaeque Manes», invece d’interpretare manes quae sunt fabulae, che a me pareva modo forzato e insolito, feci fabulae aggettivo, sul fare dell’altro oraziano: «... quae loca fabulosus Lambit Hydaspes»; e manes feci femminino, difeso dall’autorità di Lilio Gregorio Giraldi, che ne sapeva più di parecchi seminaristi di Padova, e che scrisse dii deaeque Manes; difeso dalla forma grammaticale della voce, che ambedue i generi comporta, siccome immanis e simili. Or quand’ebbero di questa non conosciuta femmina (modestamente scopertasi a me giovanotto) levato que’ buoni seminaristi il rumore grande, eccoti che ritrovano in una antica iscrizione infemminite le Mani. Ma lasciamo stare i morti, e torniamo al proposito nostro.

Se un modo toscano antiquato ha nella lingua vivente toscana un sinonimo più noto, o più facile a diventare comunemente noto, e più degno di ciò; quand’anco l’antiquato viva in un dialetto toscano, o d’altra parte d’Italia, al più recente sarà buono attenersi. Ond’io non vorrei (come vuole un egregio critico benevolo a me) riporre nel commercio degli scriventi certe maniere lombarde, non per altra ragione se non perché nel Sacchetti o in altro antico se ne trovano esempi. Se al Toscano d’oggidì mancassero modi equivalenti, se i modi lombardi potessero in alcuna cosa giovare alla più efficace manifestazione del pensiero; non farebbe di bisogno, a raccomandarli, l’autorità del Sacchetti. Ma con un esempio alla mano (senz’altro) io potrei far passare nella lingua troppe e troppo strane cose.

Indizio, rade volte fallace, della ragionevolezza dell’uso e della sua generalità, è la costanza. L’uso costante ha il suggello della tradizione, ch’è tra le consuetudini la più venerabile, ch’è più potente assai della legge. L’uso segna alle lingue il cammino, non l’impedisce; né vieta si vengano ogni di più svolgendo, secondo l’indole loro e il bisogno de’ tempi. Ma l’uso parziale, momentaneo, arbitrario, giova saperlo distinguere, evitare, imperargli chi può. La misera smania di novità, smania che oggidì ci possiede; il colpevole disprezzo delle vecchie e delle patrie cose, disprezzo sovente originato da grossa ignoranza; ci fanno imaginare necessità di nuove parole a denotare le idee che noi abbiamo o quelle che i Francesi e i Tedeschi hanno per noi; ovvero idee mozze e confuse, che, a ricompierle e a sbrogliarle, troverebbero espressione assai conveniente nell’italiano delle buone avole nostre. Non temo che queste parole sian prese come un tributo ch’io voglia rendere alla pedanteria di certi scolari, e a quella, ancor più cocciuta e perversa, di certi maestri. Ma dico che l’errore contrario è non meno pedantesco nella sua licenza, e più barbaro. E questi sùbiti amori che d’ogni cosa ci pigliano, noi generazione volubile e languida, sono indizio d’antiche e non facilmente sanabili malattie. Dunque al fugace uso del parlare, così come alle servili novità del vestire e del pensare, non ci abbandoniamo leggermente; perché non c’è cosa che più delle inutili o mal condotte novità faccia retrocedere e i linguaggi e le istituzioni. Rammentiamo che gli usi più antichi sono sovente i più schietti; e la schiettezza aggiunge, anzi che detrarre, alla forza.

Per quel consenso mirabile ch’è tra tutte le cose buone e le belle di questo mondo, si trova che l’uso de’ meglio parlanti in Italia è il più antico; e che insieme esso ha ragioni buone; sicché le anomalie stesse vanno soggette a norme generali degnissime di meditazione, le quali dipendono dalle sovrane leggi moderatrici dell’umano pensiero.

XXIV. Del come insegnarlo

L’uso degli scriventi in tanto è autorevole, in quanto sull’uso de’ parlanti si fonda, e non fa che ragionevolmente ampliarlo. La lingua parlata dev’essere norma perpetua alla scritta, e perché più ricca, e perché più sicura.

Tutto quant’ha la lingua del popolo (purché non difforme inutilmente da grammatica, e non rappresentante imagini sconce, le quali del resto più abbondano nel linguaggio delle città) prendasi a piene mani; delle idee che al popolo non son comuni, l’espressione domandisi a quell’ordine di persone ch’è meglio versato in esse; se la Toscana non la dà (cosa rara, ma certo possibile), la si cerchi ne’ dialetti men dal toscano lontani, poi mano mano negli altri; se la lingua parlata ne manca, ricorrasi a’ libri; se i libri tacciono, sull’analogia delle voci note voce nuova si formi.

L’uso della lingua parlata in presente, non solo raccogliesi da’ meglio parlanti, ma anco da’ parlanti men bene, ha conferma, non foss’altro per la ragion de’ contrarii. Quanto alla parlata in altri tempi, l’uso deducesi da’ lessici, dalle grammatiche, dalle memorie storiche, dalle lettere, dalle commedie, da’ proverbi; poi dagli scritti di stile e soggetto meno comune; poi dalle analogie (cautamente consultate) della lingua madre con le derivate da quella. Gli scrittori testificano i mutamenti delle lingue, li compiono, talvolta li esagerano. Talvolta in due scrittori della medesima età si rincontra la medesima voce in due significati diversi, e fatta sinonimo a due serie diverse di vocaboli, perché l’uno autore l’adopra nell’uso più antico, l’altro nel più recente; ma questo segue il più sovente in tempi rettorici e critici, quando lo studio predomina l’ispirazione e la spegne.

Per conoscere appieno gli usi e di lingue morte e di vive, giova interrogare e i buoni libri e anche i men buoni. Ben dice il Mastrofini: «Io non ho mai potuto comprendere come, trattandosi d’opere di lingua, niente si tien per buono in alcuni, e in altri tutto si tiene per ottimo» [74]. Poi, tra gli esempi da citarsi giova scegliere quelli dove l’autore non ad altro mirò che ad esprimere con semplicità il suo pensiero; e quelli ov’e’ parla di cose meglio da lui sapute.

Appunto per dare a conoscere intero l’uso della lingua toscana, i vecchi accademici abbondarono in citazioni, che a molti paiono soverchie e ridicole, d’autori e chiarissimi e oscurissimi; ma nella storia della lingua anche queste apportano qualche luce. E se il Monti e altri badavano a ciò, forse avrebbero men duramente assalita quella benemerita gente. Vero è che a’ dì nostri convien fare altrimenti; molti esempi inutili giova dal dizionario tor via, molti aggiungere necessarii; le parole cadute dall’uso o nell’uso rarissime, distinguere con un segno; trarre giunte quasi innumerabili dall’inesausta miniera dei vivo linguaggio toscano.

Nell’uso, prime a notarsi sono le affinità de’ vocaboli; ma più delicate, e tanto più degne di nota, sono le differenze, per avvertire le quali si badi al significato delle voci più ovvio; al quale, determinato che sia, le gradazioni si possono raffrontare. Il significato più ovvio fornisca la prima dichiarazione; perché, rinchiudere, come taluni pretendono, in una definizione sola tutti i significati del vocabolo, è voglia d’uomini poco esperti. Certo è che nella dichiarazione prima deve quasi sempre essere il germe e la ragione delle più tra le dichiarazioni che seguono; perché quel senso della voce è primieramente notabile che desta per primo l’idea comune a tutti o quasi tutti i significati di lei.

Percorrendo (nota il signor Guizot) tutti i significati, e ordinandoli, si conosce in qual d’essi la voce di cui si tratta venga ad essere affine d’un’altra voce, in quale di più; distinguonsi delle dette voci le parentele; s’impara a comporre gli articoli della sinonimia, collocando sotto una rubrica le voci più direttamente affini e in più d’un’idea combaciantisi, le affinità più oblique in altri articoli registrando.

XXV. Dell’etimologia, come norma alle distinzioni

Lo studio etimologico, considerato in sé, ci aiuta a conoscere la sapienza e la poesia nascosta nelle radici e nelle desinenze, a cercare nelle lingue i monumenti delle consuetudini antiche e delle credenze. «Perché, dice il Grassi, la storia delle parole è pur quella de’ fatti d’una nazione; e nelle macchie fatte alla lingua d’un popolo son chiare a vedersi l’insolenza del vincitore e la vergogna del vinto». Le lingue madri, anche morte, possono su quelle che vengono succedendo, appunto come delle nazioni spente rivive alcuna parte nelle nazioni che ne derivarono, o scesero dalla medesima fonte.

Siccome le origini delle voci illustrano la storia civile e la intellettuale de’ popoli, così questa quelle. Diverse cagioni possono far sì che non sempre la natura del popolo si rifletta evidente in ogni particella dei suo linguaggio; ma alcuna qualità se ne riflette pur sempre. Nelle età più maschie e più schiette la lingua suona più evidente, spedita; poi sia carica d’artifizio, poi imbarbarisce; poi, ultima peste, diventa affettata. Onde la storia dei costumi e quella de’ vocaboli si dilucidano a vicenda.

Per recare un qualche esempio della fecondità meravigliosa di tale studio, vediamo nella lingua greca quanto bello quell’ ἀβακέω, che dall’ignoranza del parlare viene a significare povertà della mente; quanto bello l’ ἀβίωτος βίος contrapposto al vita vitalis di Tullio, e dagli autori cristiani applicato segnatamente alla vita de’ sensi; quanti pensieri non desta il confronto delle idee che ad ἀβλαβής congiungevano i Greci, i Latini a innocens, noi a innocente; quante lezioni di morale e di politica nel significato di ἀβλεπτέω, che vale e non vedere e peccare; quanti pensieri nascosti in senza re, che ne’ più antichi ha senso buono, in Plutarco equivale a senza governo, nei Cristiani riacquista la sua dignità, anzi l’accresce, e significa libero; onde Clemente Alessandrino lo numera tra gli attributi della divinità: Θεός, παντοκράτωρ, μόνος ἀγέννητος, καὶ αβασίλευτος - τὸν μόνον ἀγέννητον καὶ ἀβασίλευτον, καὶ ἀδέσποτον.

Come si compiace il buon Padre in questi aggiunti significanti libertà! Come pare li contrapponga a quel Giove servo dei Fato, quel re degli Dei che cede alle ire di Giunone e alle carezze di Tetide!

E in tutte le voci, fino ne’ nomi proprii, la scienza delle origini è feconda di belle conseguenze. E fu già notato come certi cognomi abbiano segreta corrispondenza con la natura di que’ che li portano. Sebbene molte origini paiano casuali o arbitrarie, in molte abbian parte le anomalie del linguaggio; pur giova conoscere che quelle stesse anomalie non sono, com’altri miseramente declama, dettate da capriccio, ma dalle leggi dell’eufonia, o da ancora più alte. Ed è singolar cosa appunto notare come la pronunzia toscana, anco in quel che pare difetto, serbi le vestigia della lingua madre, e sia, se così posso dire, pronunzia etimologica.

XXVI. Dell’etimologia, come conferma dell’uso

Ciascun vocabolo (dice il Roubaud) ha nell’intero linguaggio la ragione sufficiente di sé. Né il trasmutarsi delle lingue può mai traviare tutte quante le voci dall’origine loro.

E queste variazioni stesse di suono e di senso son cosa importante a conoscere, perché ciascuna variazione di senso, oltre al denotare le mutate idee, genera tra i vocaboli sinonimie nuove; e, quand’anco un degli affini cada in disuso, gli altri ritengono dell’antica analogia qualche traccia, quasi sempre rimane alla voce un po’ del colore de’ significati per cui venne passando.

Aggiungo che l’uso, se nella significazione di ciascuna voce da sé fornisce norma assai chiara, negli accoppiamenti delle voci e ne’ traslati, ne’ quali consiste lo stile, non dà sempre lume sufficiente; e qui l’etimologia può giovare tanto più quant’ella è più prossima. Per esempio: derivare la stirpe, perché, domando io, non sarà buon modo di dire? Perché rigettata dall’uso? Ma, se l’uso ammette derivare e stirpe; perché sarà dunque men bello l’accoppiamento di que’ due vocaboli? Lo dice il senso originario delle due voci; l’uno riguardante acqua che corre, l’altro pianta che cresce. Se avesse all’etimologia posto mente, non avrebbe il Rousseau cominciato un suo libro da queste parole: je forme une entreprise; ch’è una delle rare ineleganze di quello stile non meno elaborato che ardente.

Se noi potessimo dimenticare le origini tutte, e se, potendo, dovessimo; allora la legge dell’uso rimarrebbe sola regina del dire: ma, poiché tale ignoranza non ci è concessa, ci giova profittare di quest’altra norma, dico, le origini; cioè della tradizione, ch’è parte anch’essa dell’uso, e sovente ne dà la ragione, sovente lo conferma, lo illustra, mostrando come e per quali vie venisse il vocabolo dalla sua sorgente ingrossando d’idee, o deviando dal primo significato.

Al qual fine giova massimamente comparare gli usi della lingua propria coi corrispondenti della greca e della latina, sue fonti precipue; e anco delle viventi che alla latina son figlie.

Io non dico dunque che s’abbia a rifondere tutt’intera la lingua per ricondurre le parole ai significati dell’antica origine; impresa che, fosse pur possibile (e, grazie al cielo, non è), toglierebbe al linguaggio il suo prezioso uffizio di rendere come specchio le tradizioni e i costumi de’ popoli; ne farebbe un gergo non intelligibile se non ai pochi iniziati alla scienza etimologica; e da ultimo tornerebbe vana, perché tra non molti anni il corso prepotente delle cose ricondurrebbe quelle medesime deviazioni (o simili a quelle) che, guardate coll’etimologia sotto gli occhi, paiono tanto strane. Ond’io non vorrei accettata, se non per metà, la sentenza del Vico, uomo di scienza più divinatoria che induttiva, là dove dice: «Tanto importano i parlari de’ quali sieno stati autori i sapienti uomini, che ci fanno risparmiare lunghe serie di raziocinio». E di che parlari son eglino mai stati autori gli uomini sapienti? Non mancherebbe altra sventura che questa alla povera umanità. I sapienti uomini creatori di parlari sapienti, sono gl’ignoranti illuminati dall’amore e dal dolore, cioè dall’Altissimo.

XXVII. Quale delle due norme prescegliere?

Insufficiente norma, e spesso fallace, poneva dunque alle sue indagini il Grassi; e confessava egli medesimo tale insufficienza: «L’autorità più universalmente ammessa, è l’uso; sopra questo solo fondarono le loro belle trattazioni i francesi Girard, Voltaire, d’Alembert, l’inglese Blair ed alcuni altri: ma sarebbe stata presunzione anzi temerità, ad uno scrittore non toscano dettar canoni sull’uso corrente delle voci italiane, lontano da quella felicissima contrada nella quale, per giusto privilegio di circostanze fisiche e morali, scaturiscono perenni le purissime fonti della lingua parlata, e si conservano le vive testimonianze della scritta». Onde, lasciando da parte l’uso, il Grassi s’attiene all’etimologia delle voci; la quale ben giova a conferma, e talvolta a temperata correzione o rinnovazione dell’uso; non è mai norma da seguire ove all’uso contrasti. Né (così mi ragionava un degno uomo) sarà vietato da clamo il chiamare a bassa voce, né da senior il dire a un bambino gnor sì. Falso è che la natura delle voci non sia mai soggetta a cambiamenti: né pare a me che «l’entrare coraggiosamente nel labirinto delle etimologie, sia unico modo di procedere con sicurezza all’inchiesta del valore intrinseco delle voci». Tanto incerta è la strada per questo labirinto, che al Grassi convenne «ridurre, com’egli dice, a certezza storica quelle origini che furono finora travisate o da strane congetture o da ingegnose finzioni»; gli convenne, insomma, fondare il certo sull’incerto; e che l’impresa gli sia sempre bene riuscita, non direi veramente. Siccome la scienza etimologica, sola per sé, quasi mai non basta a dimostrare evidentemente un’origine storica o una filosofica verità; così non basta a governare l’uso della lingua, e a tenere le veci di quello. Chi dalle origini sole volesse dedurre la definizion de’ vocaboli, darebbe a ogni passo contro l’evidenza del senso comune. Né dalle origini deduconsi sempre, né tutte, le vere differenze dei vocaboli affini; e il Grassi stesso non l’ha sempre osato tentare; e s’egli avesse a più larghi limiti steso il lavoro, se ne sarebbe, savio com’era, avveduto ben presto. Ma e’ non s’appigliava al più lontano anello della catena, se non perché disperava di tenere il più prossimo, ch’è il miglior uso vivente: e questa confessione onora la lealtà, non meno che il senno, di lui.

Anco al Roubaud fu rimproverata, non senza ragione, la smania di fondare le distinzioni sopra etimologie mal certe e remote; le quali la verità delle distinzioni, anziché confermare, farebbero dubitabile. Ma talvolta le etimologie gli giovano a dimostrare la ragionevolezza dell’uso. A cotesto non aveva pensato il Girard, la cui opera, più gradevole a leggere, manca talvolta di solido fondamento. Il Boinvilliers, rigettando le mal audaci etimologie del Roubaud, che le trasse dal troppo noto Court de Gibelin, offre le più ovvie e probabili. Le quali, se non sempre necessarie a illustrare la sinonimia, inutili affatto non sono mai.

Le etimologie ch’io adduco nel lavoro mio, non sono di molte; e mai non le pongo principal fondamento alle distinzioni; acciocché, se l’etimologia paresse a taluno dubbia o fallita, o dubbie non paiano le distinzioni fondate su quella. Così potess’io in ogni cosa fuggire la servilità e la licenza di quella che un antico chiamava perversa grammaticorum subtilitas.

XXVIII. Delle desinenze, come norma alle distinzioni

Il Romani e il Boinvilliers e il signor Guizot notano come dalla desinenza il significato de’ vocaboli prenda varietà. E quantunque il Romani tentasse questa prova senz’esperienza dell’uso, e senza delicatezza di sentire filologico, dell’intenzione e della prova, fatta comecchessia, è da rendergli lode.

Non a caso, ripetiamo, furono costituite le lingue, ma con divina sapienza; onde ciascuna inflessione, così come ciascuna particella, ebbe il valore suo proprio, con meravigliosa costanza assegnato. Delle particelle lo vediamo chiarissimo tuttavia: e similmente, le desinenza non avrebbero potuto variare il significato della voce, se un significato in sé non avevano. Onde nulla vieta pensare che i diminutivi e le altre parole derivate non siano che parole composte; il che vedesi chiaro in certe famiglie di vocaboli. Perché nessuno negherà che la desinenza in -fizio, per esempio, venga da fare. E la nostra avverbiale in -mente non è che mente sostantivo, accoppiato a un participio o a forma simile; e così forse amerò non è che ho ad amare, onde gli antichi Toscani fecero amarabbo, e i Napoletani tuttora amaraggio. Che se di tutte le desinenza noi non conosciamo l’origine, e di talune la sbagliamo; la nostra ignoranza non è buona ragione a negare il principio, confermato non solo dalle alquante analogie che son note, ma ancora dall’ordinario procedere della umana mente. Ho detto sbagliamo di talune, perché non è a credere che in tali indagini si possa evitare ogni sbaglio. Ma non per cotesto debbonsi disprezzare, come taluni fanno in cose di lingua, le induzioni generali, senza le quali nessuno studio è possibile; le quali rigettare (ben dice il signor Guizot) gli è un perdere il frutto delle osservazioni raccolte e de’ tentati lavori, un rendere poco meno che sterili le esperienze fatte dagli altri e da noi.

Tutto quanto i detti filologi dissero su questo soggetto di più ordinariamente vero (appurato alla meglio, e ampliato) riducesi, se non erro, alle cose seguenti.

Desinenze de’ sostantivi
-à dice qualità vivacità
  stato, cioè complesso di qualità più o meno costanti dignità
-aggio cose riguardate come appartenenti a una specie erbaggio
  atto per lo più efficace, o condizione comecchessia notabile vantaggio
-aglia moltitudine dappoco ciurmaglia
  azione alquanto intensa battaglia
-aia di tale o tal luogo: luogo di piante sparagiaia
-aio professione o arte fornaio
  abito parolaio
  luogo destinato ad un uso granaio
-ale cosa o persona destinata ad un uso:  
  - cosa serviziale
  - persona servigiale
-anda cosa da fare o che si fa; dal gerundio latino lavanda
-enda   faccenda
-ano mestiere magnano cortigiano
  ordine, posto anziano
-anza atto o stato considerato nel presente sostanza
  quindi sentimento speranza
-enza   reticenza
    temenza
-arca dal greco, che val comandare monarca
-ario professione antiquario
  cosa fatta o destinata all’uso ch’è indicato dalla voce stessa calendario
-erio o -ero   battisterio
-irio   collirio
-orio   mortorio
-aro professione macellaro
-asmo sentimento abituale e forte entusiasmo
-esmo   tenesmo [75]
-ata l’atto compiuto cannonata
  atto prolungato o ripetuto chiacchierata
-ato azione, in quant’è consumata [76] peccato
  uffizio cavalierato
  persona fornita d’uffizio magistrato
-cida da caedo, tagliare parricida
-cidio l’atto parricidio
-cipio da caput principio
  da capio participio
-cordia da cor concordia
-edine qualità abituale o proprietà acredine
-idine   libidine
-udine   longitudine
-ere abito ciarliere
  mestiere droghiere
  strumento brachiere
  libro novelliere
-erio atto o serie d’atti adulterio
-ero   ministero
-esimo dottrina cristianesimo
  atto battesimo
  partizione numerale centesimo
-essa femminino, di persona contessa
  - di cosa madrigalessa
-ezza astrazione delle qualità più durevoli bellezza
-fago dal greco, che vale mangiare antropofago
-fizio da fare benefizio
-fora dal greco, che vale portare: cosa che portasi nel proprio o nel traslato anfora, metafora
-getto da iacio (che valeva non solo gettare con impeto, ma porre; come il βάλλω de’ greci), cosa che si pone o è posta oggetto
-ia atti considerati nella loro generalità (talvolta significa e l’abito e l’atto) furfanteria
  proprietà o uso di persone infanteria
  proprietà o uso di cose artiglieria
  luoghi dove s’esercita una specie d’atti stamperia
  scienza o arte geodesia
  stato non abituale frenesia
-ico professione chimico
-igia qualità per lo più non buona alterigia
-ina luogo destinato ad un uso cucina
-ismo modo di dire o fare atticismo
    fanatismo
  dottrina o metodo giansenismo
-ista professione o dottrina Deista
  mestiere ebanista
-ita abito stilita
-izia affine a -ezza pigrizia
-logo dal greco, che vale discorso, idee che concernono la parola dialogo
-loquio da loquor, del parlare anche questo colloquio
-mento atto o oggetto producente un effetto ragionamento
-odo dal greco, che vale via metodo
-oia recipiente o cosa in genere destinata ad un uso. Varietà della desinenza -orio tettoia
-oio il simile. - Luogo abbeveratoio
  strumento accappatoio
-olo vedi -uolo  
-one azione manifestazione
  stato dall’azione prodotto perfezione
-ore agente più o meno abituato autore
  qualità avente varii gradi splendore
-orio luogo o strumento destinato ad un uso:  
  luogo dormentorio
  strumento sospensorio
  adunanza uditorio
-scopio dal greco, che vale guardare microscopio
-sidio da sedeo presidio
-stizio da sto solstizio
-ule cosa ad uso (varietà d’-ale) grembiule
-uolo mestiere fruttaiuolo
-ura effetto dell’azione creatura
  tempo e modo e spesa dell’azione acconciatura
  qualità o senso non leggiero arsura
Aggettivi
-abile che può essere
  (imaginato) imaginabile
-ibile (fatto) fattibile
-ebile   indelebile
-obile   mobile
-ubile   volubile
-evole   cedevole
  che dev’essere [77] amabile
    terribile
    flebile
    indissolubile
    lagrimevole
-ace qualità potente vivace
  abituale loquace
-aceo materia erbaceo
-aio vedi -ario  
-ale che appartiene a... (ai costumi) morale
  degno o proprio di... (di bestia) bestiale
-ano appartenenza [78] umano
  di dottrina cartesiano
  di patria veneziano
-asco e simile di patria o derivazione bergamasco
-esco di derivazione giovenalesco
-usco   etrusco
-ante che è nell’atto di... amante
-ente   scrivente
  che è, per abito, pronto all’atto penetrante
    veggente
-ardo qualità intensa gagliardo
  però talvolta non buona perché eccessiva codardo
-are che appartiene a... consolare
  però conforme a... regolare
-ario abito mercenario
  quindi qualità più abituale ordinario
  quindi più rilevata plenario
  quindi uffizio o relazione civile locatario
  quindi derivazione imaginario
-astico appartenenza ecclesiastico
-ato qualità più ferma d’-evole sensato
-ero qualità abituale lusinghiero
-ere (simile: meno usit.) leggiere
-ese derivazione francese
    borghese
-ento qualità intensa violento
-eutico relazione varia ermeneutico
-fero dal latino fero, idea di portare fruttifero
-fico da facio magnifico
-ico (sdrucciolo) appartenenza o somiglianza angelico
  dottrina platonico
-ido qualità candido
-ile appartenenza civile
  (sdrucciolo) possibilità duttile
  facilità rettile
-ingo abito per lo più non rumoroso casalingo
-ino patria parigino
-ito participio aggettivo che ha sempre qualcosa del passato inaudito
-ivo che ha efficacia di... o che tende a... negativo
-ondo qualità abbondante facondo
  quindi forte furibondo
-orio che ha per fine o per effetto ilusorio
-oso qualità abituale virtuoso
  quindi non leggiera gravoso
-urno durata diurno
-uto qualità che si dà frequentemente a conoscere nerboruto
-vago da vagor girovago
-voro da vorare carnivoro

Le significazioni accennate convengono a parecchi de’ vocaboli al modo medesimo desinenti, non a tutti però: onde, a volerle allargare soverchio, si risica di farne, più che non bisogni, dubitabile l’autorità. Chiaro è che ne vanno esclusi tutti i vocaboli più o men primitivi, i più prossimi cioè alla radice monosillaba: né, per avere cura e dura la desinenza di creatura, si ha a cercare in que’ bisillabi il senso dalla desinenza indicato.

Badisi innoltre che una desinenza medesima può denotare più cose, come abbiam già veduto. E per vederlo più chiaro, prendiamo una delle più semplici, in -ore. Che, quand’anco significhi persona che fa, può avere due sensi, l’atto e l’abito: quand’indica l’atto, ell’è affine al participio in -ente; quando l’abito, ha senso più proprio suo. Per esempio, amatore può significare e chi di presente ama persona o cosa, e chi per abito è disposto ad amare una specie di persone o di cose. Or tali differenze in buon dizionario giova che siano specificate. Giova sopratutto, che la definizione del lessicista non falsi il significato che la desinenza ci segna.

Non mi si rechi dunque a colpa s’io mi fermo talvolta à notare differenze di vocaboli le quali dalla desinenza sembrano nettamente assegnate; perché non sempre le differenze che indica essa desinenza, osservansi in quelle lingue stesse che sono più ubbidienti alle norme dell’analogia; e quando pure s’osservassero, giova, per chiarezza de’ meno esperti, la norma generale a qualche caso specificatamente applicare.

XXIX. De’ diminutivi

Quanto alle desinenze accrescitive, peggiorative, dispregiative, ognun le rammenta. Delle diminutive darò la nota, per dimostrare la ricchezza e l’efficacia della lingua.

-acchia cornacchia [79]
-acchino lupacchino
-acchiotto lupacchiotto
-acchiuolo sbirracchiuolo
-accica filaccica
-accina e -accino donnaccina [80] e omaccino
-acciolino turacciolino
-acciolo strofinácciolo
-acciotto omacciotto
-acciuolo buacciuolo
-accola donnáccola
-*agna, -agno rigagna [81], rigagno
-agnolo rigagnolo
-agnoletto rigagnoletto
-arella, -arello [82] sommarella, pesciarello
-astrello polpastrello
-atella fossatella [83]
-*attello lupattello
-*attino lupattino
-*atto lepratto
-attolo bugigattolo
-attolino bugigattolino
-azza signorazza [84]
-azzuolo pretazzuolo
-cello giovincello [85]
-cine cercine [86]
-colo libercolo [87]
-ecchia orecchia [88]
-ecola bazzecola [89]
-ella acetosella
-ello monello
-elletta faldelletta
-ellettino uccellettino
-ellina catinellina
-ellinuccio uccellinuccio [90]
-ellotto porcellotto
-elluccia e elluccio gonnelluccia e cattivelluccio
-elluzzo cattivelluzzo
-erattolo bucherattolo
-erella e -erello pioggerella, vanerello [91]
-erellino bucherellino
-*erognolo verderognolo
-erottolo pianerottolo
-erottolino bamberottolino
-erozzo bacherozzo
-erozzolo bacherozzolo
-erozzolino bacherozzolino
-*eruccio scapperuccio
-erugio matterugio
-erugiola acquerugiola
-*eruzzo forteruzzo
-esco fresco [92]
-etto visetto
-ettino giovanettino
-ettine (f.pl.) libréttine
-*ettolo fochettolo
-ettoncino cassettoncino
-ettuccio librettuccio
-ettuolo birbettuolo
-ezza orezza [93]
-icchio nasicchio
-icchietto spicchietto [94]
-iccio rossiccio
-icciattola opericciattola [95]
-iccico molliccico [96]
-iccino miccino [97]
-iccioletto muriccioletto
-icciolino muricciolino
-iccioluzzo vermiccioluzzo
-icciotto salsicciotto
-icciuola besticciuola
-*icciuzzo orlicciuzzo
-*icciuzzino orlicciuzzino
-icello solicello
-icellino navicellino
-iciattola febbriciattola
-icina porticina
-ico spizzico [98]
-icola pellicola
-icoletta particoletta
-icolino articolino
-icoluccio fascicoluccio
-iculo folliculo
-*igatto bugigatto [99]
-igattolo bugigattolo
-igia cinigia
-*igino fantigino [100]
-iglia, iglio fanghiglia, artiglio [101]
-*iglietto vermiglietto [102]
-iglioncino bariglioncino
-igliuolo fondigliuolo
-igno vitigno
-ignolo comignolo [103]
-ignoletto lucignoletto
-ignolino lucignolino
-illetta pupilletta [104]
-illetto spilletto [105]
-illettino spillettino
-illino arzillino [106]
-illo codicillo
-illuzzico a spilluzzico
-ino visino [107]
-inello bambinello
-*inelluzza berghinelluzza
-inetto tavolinetto
-inino piccinino
-inuccio tavolinuccio
-inuzzo uccellinuzzo [108]
-ipola casipola
-isco asterisco [109]
-*iscello ramiscello [110]
-ischio nevischio
-*isino fantisino [111]
-istio nevistio [112]
-*istiuolo palchistuolo
-itello capitello
-itolo capitolo
-itoletto capitoletto
-itolino gomitolino [113]
-izzo rubizzo [114]
-occetto bamboccetto
-occhia ranocchia
-occhiella ranocchiella
-occhietto pinocchietto [115]
-occhina capocchina
-occino fantoccino
-occio bamboccio
-*occo anitrocco
-occolo anitroccolo
-occolino bernoccolino [116]
-ogno giallogno
-ognolo verdognolo
-ola bambola
-oletto scampoletto
-olettina lodolettina
-olino fessolino
-olinetto sassolinetto
-oluzza allodoluzza
-oncello sabbioncello [117]
-oncino sacconcino [118]
-oncellino bottoncellino
-onchio ballonchio [119]
-*onco barlonco
-onzo raperonzo
-onzolo pretonzolo
-ore Gròppore [120]
-oretto maggioretto [121]
-orino giallorino
-oscello arboscello
-oscellino arboscellino
-otto giovanotto
-ottella pagnottella
-ottino passerottino
-ottolo viottolo
-ottolina pallottolina
-ottoletta pallottoletta
-ottuccio salottuccio
-ozzo predicozzo
-ozzola gallozzola
-ozzolina gallozzolina
-ozzoletta gallozzoletta
-scello vascello [122]
-uca pagliuca
-uccia bambinuccia
-uccica vetturuccica
-uccino lettuccino
-ucciolo cucciolo [123]
-*ucello ramucello
-*ucino barbucino
-ucola finestrucola
-ucolina pagliucolina
-ligio calderugio [124]
-ugiola acquerugiola
-uglio cespuglio [125]
-uglietto cespuglietto
-ula formula
-ullo fanciullo
-ulletto fanciulletto
-ullino fanciullino
-*ulluzzo fanciulluzzo
-uletta capsuletta
-uncolo peduncolo
-uncola caruncola
-uncoletta caruncoletta
-uola spesuola
-uolina figliuolina
-uoletto figliuoletto
-*uolinetto figliuolinetto
-uoluccia bestiuoluccia
-upola casupola
-upoletta casupoletta
-upolina casupolina
-uscolo corpuscolo
-uscoletto maiuscoletto
-*usculo minusculo
-*uscello ramuscello
-uzza letteruzza
-uzzino ferruzzino
-uzzola pietruzzola
-uzzolino minuzzolino

XXX. Osservazioni generali sui diminutivi

Quel che taluni, e Toscani, m’opposero, dell’avere io registrate tra’ diminutivi parole che tali non paiono, non mi muove a accorciare la serie; dacché io bado all’origine e al senso; e quanto più il diminutivo è latente, tanto più merita che sia riguardato; e talvolta, come tutte le cose modeste, ha più bellezza e valore. Io noto anco le varietà che alla forma medesima vengono da una lettera aggiunta o levata, giacché la non è più la medesima forma; e ognun sa quanto possa una lettera a mutare talvolta anco il senso. Non intendo che tutte queste forme varie variino il senso altresì; e ben so che parecchie sono di mera eufonia; ma le non attestano però meno la pieghevolezza e soavità della lingua, e quella ricchezza che vorrei dire morale, cioè accomodata ai delicati bisogni del sentimento; ricchezza ch’è parte intrinseca della verità metafisica e della bellezza ideale. E più spesso che non paia segue che le differenze più tenui portino nell’uso del diminutivo quella diversità ch’è dal vezzo alla goffaggine, dalla carezza all’impertinenza; siccome può, per contrario, talvolta seguire che le desinenze più diverse, fin quelle dal diminutivo all’accrescitivo o al peggiorativo, vengano quasi a suonare il medesimo.

Ma dalle dugento forme notate detraggansi le disusate oggidì, detraggansi quelle che posson parere troppo tenui varietà d’altre forme; ne rimarranno pur tante, quante non so se lingua vivente ne conti. E s’altri volesse, celiando, opporre, questo essere indizio di piccolezza, noi celiando diremmo ch’è di grandezza, perché le cose piccole non discerne se non chi è più grande di loro. Ma sul serio affermiamo, questa varietà denotare senso sicuro del conveniente, del delicato, del leggiadro; e ricca armonia, e amore e bella necessità di segnare i gradi e le misure delle cose, e vaghezza non tanto d’impiccolire per dispregio, quanto d’attenuare per vezzo o pietà, o per iscusa, che può essere atto di pietà generosa. Perché i diminutivi di vezzo sono in assai maggior numero che que’ di dispregio.

E tra le forme diminutive non ho computato se non le evidenti, molte aggiungendo in nota, che forme positive per certo non sono, molte omettendo; quali scricciolo, chiacchierino, mingherlino, *giammengola, combriccola, corbezzola, *boccicata, *saltabeccare e simili; senza dire dei diminutivi indiretti, che risultano dalla desinenza in -aglia, e da particelle variamente accoppiate, quali subacido, sogghignare, *sottoridere, *biscantare, e altri non pochi.

Or la forma diminutiva, sebbene non sia nell’ultima sillaba, ha pure la medesima o somigliante virtù; e poterla quasi inviscerare al vocabolo, è ricchezza vera. E siccome l’un diminutivo abbiam veduto sopra l’altro ammontarsi, e o l’imagine farsi più tenue, o al significato di piccolezza congiungersi un senso di dispregio o di vezzo o di pietà, e il dispregiativo e l’accrescitivo al diminutivo accoppiarsi; così da queste medesime congiunzioni operate dentro in corpo alla voce, escono ancor più varii accozzamenti d’idee, ed espressione potente ed agile di sentimenti delicatissimi. Quindi le incommutabili parole: vivacchiare, facicchiare, canticchiare, furbacchiuoleria, sfilaccicare, biancastrone, malazzato, rinvecchignito, salterellare, porcellone, animalettucciaccio, donnettuccia, pazzerellone, schiantettare, bezziccare, scricchiolare, fatticcione, appiastriccicare, piccinaccio, navicellaio, ammoncellare, piovigginare, bambinaio, abballinare, scalducciare, bacicchiare, accucciolarsi, scodinzolare, spruzzolatina; e simili senza numero.

I nomi proprii anch’essi dal diminutivo acquistano convenienza, snellezza, espressione nuova; e il lungo Bartolommeo si trasmuta in Bartolo, Meo, Meino, Meuccio; e Leopoldo, e Leonardo, e Bonaventura in Poldo, in Naldo, in Naldino, in Ventura e Tura; e Ambrogio in Brogio e in Gino; Pietro fa Pierino, Pierotto, Pietruccio; Maria fa Marietta e Mariuccia; Giuseppe fa Geppe, Beppe, Geppino, Geppetto, Beppino, Gioseffina, Giuseppina, ch’esprimono col vario suono varietà di giudizii e di sentimenti.

Tutte quasi le desinenze di vocaboli abbiam veduto comportare uno o altro diminutivo: e così tutte le forme grammaticali; il participio, che fa sbarbatello, malatuccio, assennatino (più radi turbatetto, affamatuzzo); l’avverbio, che fa tardetto, adagino, maluccio, a chetichella, solettamente; l’addiettivo esprimente quantità non piccola, come moltetto, e in qualche dialetto (suono inelegante, ma che dice altra cosa) moltotto; il superlativo, del quale abbiamo un esempio scherzevole in corbellissimo, esempio che può diventare fecondo. Fino a’ nomi di patria attenuano in diminutivo, e ne fanno lucchesino, francesina; fino al peggiorativo ingentiliscono a questo modo, e per annataccia affamata i contadini vi diranno annatina. Che mirabile disposizione d’animo e di mente indichi questa annatina che attenua il dolore e ingentilisce il bisogno, io non potrei dire, senza parere a taluni esageratore e matto. Poi, del diminutivo fanno dispregiativo, pure infemminendo: padronella, favetta. All’incontro il femminino immaschito è lode: donnino. Ne’ nomi proprii de’ luoghi, da ultimo, è, per più varietà, scambiato, oltre al genere, il numero: Monte Carelli, Gianella, Bisticci, Citille, Casole, Montefioralli, Panzalla, Istia, e simili. E i nomi proprii ci danno altre forme diminutive, oltre alle notate, e sono conferma alle incerte oltre alle sopra notate: Botronchio, Fucecchio, Navacchio, Voltiggiano, Vallico, Vicarello.

Spiegare in brevi parole le tenui differenze che tra le desinenze numerate pon l’uso, sarebbe impossibile. Dirò solamente così per le generali, e senza contare le eccezioni, e senza colorire le sfumature, che -acchio e -accola e -anghera, co’ derivati, sono alquanto spregiativi, e l’-ino, aggiuntovi, appena li tempera un po’; che i diminutivi i quali si schierano intorno ad -accio, sono ancora più spregiativi; che -agno è meno gentile d’-ugola; che -arella non ha colore proprio né -itella, e tutti que’ che paion tenere del participio, ma pronunziansi brevi nella sillaba che questo ha lunga; che -astro dice qualità non buona e non forte; che -atto e i sottodiminutivi suoi hanno del meschino; che -ello e gli analoghi spesso vezzeggiano, raro ammiseriscono; che questo fa -erello più spesso, -etto talvolta, il quale è però vezzeggiativo leggiadro anch’esso segnatamente se s’incorpori ad altre forme diminutive; che -icchio dice meschinità; -iccio approssimazione, e i diminutivi nipoti suoi ingentiliscono, tranne -iccico; e così fanno sempre -icino e -icello; che -icolo, co’ suoi e con -illo, impiccolisce, non altro; -igno dice tra l’approssimazione e la somiglianza, men gentilmente denotate da -ognolo; -iglio appena diminuisce, e molto s’accosta al positivo; -fino sovente abbellisce, e più i derivati di lui; che -occhio, -occio, -onzo, -otto, -ozio, vezzeggiano poco o punto, poco impiccoliscono, sono tra il diminutivo e il positivo (ma i diminutivi di -otto impiccoliscono); che -olo sdrucciolo e -colo mutano significati, senza norma generale; che -oncino è determinato dall’accrescitivo suo; che -uccio e -uzzo, attenuando, esprime ora pietà ora dispregio, talvolta affetto; -uccica e -ucola, dispregio; -ucciolo, -uccino, -ucciolino, più che ingentilire, diminuiscono. Ma solo l’uso può farsi di queste cose maestro.

Il latino, certamente non così ricco, è men povero però di quel che pare in sul primo; e sebbene tutte le sue desinenze diminutive si possano ridurre a quattro, -ulus, -olus, -ullus, -isper (oltre alle due prette greche -ion, -iscus), pur queste poche si diramano in modi assai varii: -aculus, -eculus, -iculus, -oculus, -uculus, contratti talvolta in -acla, -icla, e simili; -edulus, -idulus; -anculus, -unculus; -asculus, -esculus, -isculus, -osculus, -usculus; -atulus, -etulus, -itulus, -utulus; -ellus, -illus, -ollus; -ellulus, -illulus; -eolus, -iolus; -erculus, -orculus, -urculus; -erion, -irion, -urion; -iscus, -isper; -ullus, che se non diminuisce, attenua almeno.

Né manca il latino di diminutivi doppiati e a più doppi: sedes, sella, sellula; ancula, ancilla, ancillula; parum, paullum, paullulum, pauxillum, pauxillulum, ch’è il quarto grado. Negli avverbi egli è forse più ricco dell’italiano per le tre desinenze in -e, -um e -o, che l’italiano non soffre sì spesso. Ma la ricchezza appar maggiore ne’ verbi i quali più minutamente significano il graduare dell’atto: Acubo, accumbo, accubito; addormio, addormisco; aegreo, aegresco, aegroto; ago, agito, actito; albeo, albesco, albicasco, albico; aperio, aperto; appello, appellito; assalio, assilio, assalito, salto, assulto; eo, ito; fumo, fumigo; canto, cantico, cantito, cantisso, canturio; mordeo, morsico; prehendo, prenso, prensito; uro, ustulo, ambustulo. Gran numero di verbi, e fecondi, ammette tre gradazioni, e fin quattro; dal verbo così finemente variato poteron poi nascere le gradazioni sì varie de’ derivati, che fanno lo stile potente, delicato, numeroso, pieghevole, snello, animoso.

E per toccare da ultimo dell’origine dei diminutivi nostri: -acchio, -accola ed -ecchio, da -aculus, -eculus; -icchio, -iccio, -igno, da -iculus, -iceus, -ineus; i quali due, con la desinenza aggettiva di derivato e col suono, attenuano il senso, attenuato viepiù da -uccio, sul fare d’-ullus, -uculus, -unculus, onde gl’Italiani fecero -occhio, -oncio, -onchio, -onzo ed -occola. Da -ulus, -olo e -uola, da -iculus, -icolo e -iglio e -igio; da -atulus e dalla forma de’ verbi frequentativa, -atto, quindi -etto e -otto. -Astro, -ello, -ullo, -ercolo, -iscolo, -fico, -ulo, -ucola, latini pretti. -Ino, piuttostoché dal tedesco, lo vorrei figliato dall’aggettivo denotante origine, ch’è nel latino e nell’illirico, e quindi dipendenza, quindi qualità ed importanza minori; ma s’altri lo vuole tedesco, e se più antico non è, pazienza.

XXXI. Delle particelle affisse, come norma di distinzioni

Le particelle accoppiate a’ vocaboli, ne allargano anch’esse e ristringono il senso con inenarrabili varietà. Rechiamone alcune.

a-, ab-, direzione accostare
intensivo abbondare [126]
separazione astenere
negativo abisso
superfluo apostumo
idiotismo affeminato
ad- adnata
af-, dal gr. ἀπό, aferesi
al-, all-, gr. ἄλλος, lat. alius, alcuno allegoria
articolo e segnacaso almeno
articolo arabo algebra
idiotismo per ar- albero
am-, intorno amputare
an- per a- anarchia
ana-, greco, per anatomia
da sé anacoreta
su anagogico
indietro anacronismo
anfi-, ἀμφί, d’una e d’altra parte anfiteatro
incirca anflbologico
ante-, di tempo anti-, anzi- avanti di luogo anziano, antivedere, anteriore
ante-, ant-, contro, κατά antagonista, anticristo
ant- a vicenda antifona
invece antonomasia
apo-, da ἀπό apocalisse
lontananza apogeo
derivazione apostolo
intensivo apologia
arch- antichità archeologo
arch-, arc- primato archimandrita, arcivescovo
avan-, avvant-, ante avanzare, avvantaggio
au-, al- idiotismo autezza, altezza
bi- due volte [127] bidente
bis- bisavolo
quindi di molto bisunto
male bistrattare
cata-, κατά, sotto catacomba
su cataplasma
di faccia catottrica
contro catapulta
per catalogo
circo-, circum circostanza
cis-, di qua cispadano
co-, con-, cum cooperare
co-, quasi riemp. cotesto e codesto
contro-, contra- contradizione
da far le veci contracchiave
da-, di luogo dappiè
di tempo dacché
qualità dabbene
de-, di-, lat. de divertire
giù depresso
intensivo declamare
di-, δύο dilemma, distico
do-, di- domandare
dia-, διά gr., per diagonale
a traverso diafano
verso diatesi
contro diavolo
intorno diadema
da diagnosi
differenza diallage
e-, ex-, es- moto da luogo evocare, estrarre
intensivo ebollizione
ec- ne’ sensi dell’ex, e dell’ ἐκ eclettico
et eccettera
eg-, ἐκ egloga
ef-, ἐπί, per efemeride
sopra eforo
em-, in- empiere
emi-, mezzo emisfero
en-, ἐν, in- enfasi
epi-, ἐπί, per epidemia
a epistola
presso epiteto
sopra episcopato
nel traslato epilettico
dopo epilogo
tra episodio
eq-, eg-, aeque equidistante, eguaglianza
estra-, extra estraneo
eu-, εὖ, bene eufonia, Evangelo
fra-, infra, intra frapporre
fuor-, for- fuoruscito, forsennato
ign-, in- e simili ignorante
riemp. ignudo
in- intensivo infatuato
negativo innocente
inf-, infra inferno
inter-, intra, intro interregno, intramezzo, introdurre
intra-, a traverso intravvedere
iper-, sopra, ὑπέρ iperbole
ipo-, ὑπό, sotto ipocrisia
la-, illac laddove
long-, lung-, lon-, longe lontano, lunghesso
ma-, mal- mafatto
mia madonna
Μά δία gr. escl. madiesì
ma-, mag-, magis maestro, magistrato
mis-, male misfatto
ne-, ni-, negazione nèttare, niuno
ob-, og- e simili obbiezione, oggetto
oltre-, di là oltremare
eccesso oltraggio
om-, ὁμοῦ, insieme omelia
palin-, di nuovo, πάλιν palingenesi
indietro palinodia
para-, accanto paragrafo
con parroco
a parenesi
di faccia parallelo
contro paralogismo
intorno parafrasi
oltre paralipomeni
pen-, quasi, dei Lat. penisola
penitus penetrare
per-, passaggio peregrinare
obliquità perverso
continuità perseverare
appartenenza pertinenza
ragione però
peri-, περί, intorno periferia
po-, post- pomeridiano, postumo
pre-, innanzi prefazione
dinnanzi presente
prin-, primo principotto
preter-, oltre preterito
pro-, per propugnare
dinnanzi proporre
innanzi profeta
oltre progresso
invece pronome
prop-, pross-, prope propizio, prossimo
pros-, πρός, a proselito
re-, ri-, rab-, e simili  
ripetizione rifare
intensivo riposare
contrario ribattere
s-, negazione sproposito
intensivo sbalordito
saz-, sat-, san-, satis sazio, satisfare
se-, separazione sedurre
sil-, sim-, sin-, e simili σύν, insieme sillogismo, simbolo
sob-, sub- e simili, sub subordinare, suddito, sobbollire
sper-, per-, obliquo: traslato, di similit. spergiuro
stra-, extra stravagante
superl. stragrande
super- superbo
tra-, tras-, trans  
oltre traslazione
fuori, extra travasare
eccesso trasalire
ter-, tri- ternario, trino
un-, una unanime

XXXII. Osservazioni generali sulle particelle

Le desinenze e le particelle dànno, se non la distinzione intera e netta, assai volte una norma alla distinzione de’ più tra’ vocaboli componenti la lingua, giacché de’ vocaboli i più sono derivati o composti. E questa delle particelle specialmente è materia importante, perché il senso loro c’è più noto, più facilmente determinabile nel sentimento, se non in parole, più costante forse nell’uso, che quello che le desinenze significano. Poi, lo studio delle particelle è studio insieme di lingua e di stile; perché, se vero è che ne’ modi, più che ne’ vocaboli, sta la ricchezza dei linguaggi e la potenza del dire; le particelle che tengono quasi il mezzo tra la voce ignuda e la frase, congiungendo le parole tra loro, o, congiunte ad una di quelle, dandole senso quasi d’una frase intera; le particelle, dico, son come i muscoli e le giunture del discorso, il quale senz’esse è cadavere a cui la vita. «Omnibus e nervis atque ossibus exsolüatur». Onde, se le particelle mal s’intendano o non bene s’adoprino, avremo facondia slogata e fiacca, o rigida e pigra.

Ho detto che il senso loro è più costante nell’uso. E qui noterò negligenza frequente ne’ grammatici e ne’ lessici, che le particelle trasmutano a mille significati diversi o contrarii, quando potrebbero spiegare ogni cosa con uno o due sensi precipui, da’ quali dedurre gli altri mostrando il congegno delle idee che via via si son venute a quel suono come incorporando. E, per prendere un esempio di ciò dallo Stefano, egli vuole che a- significhi talvolta κακός, come in ἄβουλος; e in ἀβουλία; ma questa particella di privazione non vorrà mai dire cattivo; e se ἀβουλία disse Sofocle per κακοβουλία, lo disse per indicare che mal volere è quasi mancanza di volere, è un ripudiare che fa l’uomo il pieno uso della propria libertà. Così, se il medesimo disse ἄδωρα δῶρα, non intese κακόδωρα, interpretazione prosaica ancor più che falsa: intese che dono non buono non è da chiamare dono, a quel modo che diciamo insensata la sapienza dell’uomo che dubita d’ogni cosa. Il medesimo dicasi di ἄξεινος, che non significa già κακόξεινος, ma inospito, come rendono fedelmente i Latini; e d’altri simili, dove l’a- non ha senso altro che negativo, e comprende in una lettera quella sublime dottrina, che il male non è cosa positiva, ma privazione del bene.

Vero è che tutte le lingue sogliono dare a qualche parola due sensi diversi o contrarii. Così tra’ Latini incinctus valeva e cinto e non cinto; investigabilis, e che si può e che non si può investigare [128]. Nell’italiano s’aggiunge nuova cagione di tali varietà; perché i segnacasi, confondendosi apparentemente con le preposizioni, portano ambiguità agli studiosi. Ma poi, ben guardando, si vede come i varii sensi abbiano un vincolo segreto fra loro, sì che le deviazioni stesse dell’uso non sono ad arbitrio.

Altro è, però, scoprire l’armonia delle idee ch’è tra’ varii significati; altro è volere in un solo significato materialmente costringere ciascun vocabolo, come il Biagioli fa, di dantesca e pedantesca memoria [129].

XXXIII. Delle radici più feconde

Veduto del valore ordinario delle desinenze e delle particelle prefisse, resta (per facilitare le distinzioni, e avere il franco uso de’ più tra’ vocaboli) conoscere le radici, segnatamcnte latine e greche, dalle quali più varii spuntarono italiani germogli. Le quali radici, profondamente cercate, darebbero l’ideogonia dell’italiana nazione, le cagioni e le ragioni della civiltà nostra passata e presente, i presagi della futura. Giova qui presentare talune delle più svariatamente feconde.

agere - Agente, agitare, ambiguo, attivo, atto, attoraccio, azionaccio, coattivo, cogitativo, tracotante.
βάλλειν [130] - Balestra, balistica, ballerino, emblema, parabola, parolaio, problema, sbalestrato, simbolo.
cadere - Accadere, accidentato, caduco, caduta, cascamorto, casuale, incidenza, occidente, ricadere.
capere - Accattare, accettabile, concetto, concezione, mancipio, mentecatto, precetto, ricettacolo, suscettivo, usucapione.
caput - Capitello, capitolo, capocchia, capoccia, capone, caporione, occipizio, precipite, principio, scapato.
cavere - Accusatore, causa, causalità, causidico, cauzione, cosa, cosaccio, precauzione, ricusante, scusa.
cernere - Cerna, concernente, crisi, criterio, critica, crivello, discernimento, discreto, segreteria, segreto.
credere - Accreditato, credenza, credenziale, credenzina, credito, creditore, credo, credulo, miscredente, screditare.
dare - Addizione, dedito, dono, dose, dote, editore, recondito, rendimento, resa, sudditanza.
dicere - Addetto, contradetto, dettato, disdetta, dittatore, dizione, editto, interdetto, predire, ridire.
dies - Addì, diana, diuturno, giornaletto, giornalista, giornataccia, giovedì, meridiana, meriggiare, quatriduano, soggiorno.
facere - Effetto, faccenda, facilità, facoltoso, fatta, fatto, fattura, fazione, infezione, refettorio.
ferre - Ablativo, differente, illazione, metafora, offerta, prelato, referendario, relativo, soffrire, traslatare.
γεννάω - Congegnare, generalità, genere, genia, genio, gentilità, ingegnere, ingegno, teogonia.
gerere - Armigero, belligerante, congestione, digerire, gestazione, gestione, gesto, ingerirsi, suggeritore, suggestivo.
gradior - Aggressione, centigrado, congresso, gradinata, graduale, graduato, ingrediente, ingresso, progresso, retrogrado.
grato - Aggraziato, disgrazia, gradire, grado, gratificazione, gratis, graziare, ingratitudine, ringraziare, sgradevole.
habere - Abbiente, abilità, abitare, abito, abituro, coibente, debito, dovere, inabile, proibizione.
iacere - Abbietto, congettura, giaculatoria, iattanza, obiezione, oggetto, proiettile, rigettare, soggettaccio, soggezione.
ire - Adito, coito, esitare, esito, esizio, giterella, sedizione, subitaneo, transito, uscio.
legere - Colletta, dialogo, dilezione, diligenza, egloga, elezione, leggio, lezione, raccolta, scelta.
ligare - Alleato, allegare, collegato, lega, legacciolo, legame, legatura, ligamento, obbligato, religione.
λύειν - Analisi, assoluto, dissoluto, paralisi, prosciogliere, risoluzione, scioglimenti, scioltezza, soluzione, solvente.
mens - Comentario, comento, commentizio, demenza, dimenticare, divinamente, mentale, mentecatto, menzione, rammentare.
mittere - Ammettere, commessura, commissario, dimesso, manomettere, messale, mettiloro, missionario, omettere, rimessa.
modus - Comodità, incomodato, modello, moderare, moderno, modificare, modulare, raccomodare, smodato.
noscere - Agnizione, cognizione, conoscenza, conoscitore, ignaro, ignorantaccio, ignoto, nobile, notizia, riconoscente.
opus - Adoprare, cooperatore, inoperoso, operaio, operativo, opficio, opra, opuscolo, scioperato, scioprare.
parare - Apparato, apparecchio, comparativo, comparazione, compratore, disparato, imperatore, paramento, separato.
parte - Compartimento, partecipe, partenza, participio, particola, particolare, partita, partitamente, partito, parziale.
pendere - Impensato, pensata, pensatore, pesante, ponderato, ponderoso, soprapensiero, spendere, spensierato, spesa.
posse - Impotente [131], onnipotente, podere, podestà, podesteria, possa, possanza, potenziale, potere.
quaerere - Acquisto, chiesta, conquista, inquisitore, questione, questuare, questura, requisito, richiedere, squisito.
regere - Accorgimento, dritto, ergere, incorreggibile, porgere, re, retta, scorta, sorgente.
salire - Assalire, consiglio, esule, insulto, risalto, risultare, sagliente, saliscendo, sussulto.
sapere - Assaggiare, insipido, saccente, saggio, sapienza, sapore, saputello, saviezza, savore, sciapito.
sequi - Conseguire, esecuzione, esequie, ossequio, persecutore, proseguire, secondo, seguito, sequela, sezzo.
signum - Assegnamento, contrassegno, disegno, insegnare, insigne, rassegnazione, segnalato, segnatamente, sigillo, suggello.
sonus - Assonanza, consonante, dissonanza, impersonale, persona, risonare, sonaglino, sonatina, sonetto, sonoro.
spicere - Aspettare, aspetto, cospettaccio, dispettoso, ispettore, prospettino, sospettoso, speciale, spettacolo, speziale.
stare - Armistizio, astante, circostanza, istante, prestante, restare, sostanza, stagione, stazione, stupido [132].
tendere - Attenzione, contendere, distesa, intenso, intento, inteso, pretensione, proteso, stentare, tentare.
venire - Avvenenza, avvenimento, avvento, avventura, convegno, convenienza, conventicola, convento, diventare, evento.
vertere - Avversione, avversità, conversione, diversione, diverso, diverticolo, divertimento, perverso, rovesciare, versato.
via - Andar via, avviare, convoglio, inviato, ovvio, previo, ravviatino, sviato, traviato, tre via tre, viottolo.
videre - Avvedersi, avviso, improvviso, invidioso, provveduto, provvidenza, revisore, svista, visione, visita, visivo [133].

Concludiamo. I vocaboli derivati, il cui significato è dato parte dalla desinenza, parte dalla prefissa, parte dal senso della radice loro, non sarà (nei casi ordinarii) di bisogno dichiararli con definizioni e corrispondenti latini e greci, come finora si è fatto. Ivi solo cadranno in acconcio le speciali dichiarazioni, dove le norme dette non danno intero e netto il senso che l’uso assegna al vocabolo.

XXXIV. Del lavoro mio

Qui mi sia lecito notare alcune cose intorno al debole mio lavoro.

Dell’avere distinto parole che giovano alla varietà degli stili, ancorché nell’uso sovente si confondano, non saprei, dico schietto, pentirmi, quando le distinzioni son vere, come fra latrare e abbaiare. Confesserò piuttosto il difetto contrario, l’aver speso parole a distinguere vocaboli che paiono di significato evidentemente diverso. A ciò m’indusse talvolta il desiderio d’indicare l’uso non ben noto di qualche parola opportuna, o il dovere in un articolo abbracciare più voci che tutte a un’idea comune accennavano più o meno direttamente. Certo, non sono vocaboli affini amante e sposo; ma mettendo insieme damo, sposo, amante, io do meglio a conoscere come damo sia affine ora ad amante, ora a sposo. Le due voci, non sinonime tra loro, sono sinonime ad una terza; a questo titolo insieme notate.

Avrei voluto che le mie distinzioni fossero né tanto comuni da giungere superflue, né tanto insolite da parere arbitrarie. Ambizioso desiderio, del quale non potevo io stesso al giudizio mio, nonché all’altrui, soddisfare. Alcune delle dichiarazioni che sono nelle edizioni precedenti o troppo sottili o troppo generali o speciali troppo, o non vere, saranno in questa o temperate o dilucidate od omesse.

Recando a conferma della distinzione un passo di moderno o d’antico, non intendo d’offrire a modello tutto intero il costrutto. Talvolta m’è forza citare passi dove la voce o la locuzione ch’io esamino non è adoprata in modo esemplare. Talvolta per commemorazione d’affetto, o in segno di stima, reco esempli tratti da scrittori viventi, e che non a tutti parranno autorevoli; né intendo che l’autorità loro sola sia legge.

E ho detto già, che nessuna autorità di scrittore, per sé sola, è legge. Io non credo per altro col Grassi che «molti fra i trecentisti stravolgessero le vere significazioni delle voci, e deturpassero la faccia (com’egli dice) della favella, per solo amore di novità». L’ignoranza può avere indotto taluni a prescegliere il modo triviale; l’inusitato, no mai. Non sempre seppero scegliere tra le ricchezze offerte dall’uso, ma l’uso non violarono; ed è questa la fonte della loro eleganza, questa la condanna di coloro che pecorescamente li seguirono.

Noi dobbiamo studiar negli antichi l’espressione di quella parte segnatamente dell’indole della nazione, che cogli anni si vien dissipando. Non la lingua, come lingua, bisogna ritirare a’ principii (locuzione politica del Machiavelli, che da cinquant’anni quasi ogni giorno vengono ripetendo i pedanti ingegnosi e stupidi), non la lingua, come lingua, ma come indizio d’affetti e di costumi migliori. Semplicità, proprietà, brevità, sono i pregi del dire antico. Dalla semplicità venne loro la grazia, dalla proprietà l’evidenza, dalla brevità l’efficacia. E noi moderni cerchiamo spesso il grazioso nel manierato, l’evidente nello sguaiato e nel prolisso, il forte nel contorto, se non nell’oscuro. Delle tre qualità dette, due specialmente, la proprietà e la concisione, ci mancano.

Io credo che i trecentisti alla differenza de’ vocaboli affini ponessero mente più che i moderni, non per raziocinio, ma per istinto. Certamente non è filosofo il popolo, nel senso che noi sdegnosi uomini diamo a quest’amorosa parola, ma in altro più nobile assai. Se i trecentisti errano, il più delle volte errano nella parte della lingua dove gli errori sono più facilmente correggibili; per esempio, nel tradurre. E nondimeno quelle antiche traduzioni molto giovano a determinare l’origine e il senso vero di molte voci. Talvolta, per cura del numero o per la chiarezza, due voci (in quel luogo che le usan essi) affatto sinonime, i trecentisti accoppiano insieme; e in quel luogo io noto come sia inutile il pleonasmo. In altri, ove alcuna differenza è da segnare, la segno.

Ho citato Latini e Francesi, per argomento d’analogia non per prova, e sempre avendo rispetto all’uso nostrale. Alle distinzioni dagli Italiani miei predecessori proposte, se a me paiono men che accettabili, non contradico; m’ingegno soltanto di confermare, come meglio posso, le mie. Né il lettore si corruccerà meco s’io qui m’astengo da cosa che avevo minacciata ai lettori. Dicevo che per dar saggio del come io compendio o correggo o rifaccio le distinzioni da altri date, porrei a rincontro alcuni dei loro articoli a’ miei, e in brevi note additerei le ragioni del mio fare altrimenti. Ma, ripensandoci, tale raffronto vidi dover riuscire tedioso e superfluo. Lo feci nel primo annunziare, ancor giovane, il mio lavoro; misi allato le mie distinzioni a quelle del Grassi, vivente lui [134], notando i suoi sbagli, o quelli che a me tali parevano. E questo feci, non per offendere l’uomo, ma per rammentare ai letterati chiarissimi che l’impero di Napoleone aveva legati all’Italia, rammentare, dico, che gli sbarbatelli (come il Grassi chiamava noi altri) se non ammiravano tutte, adorando, le innumerabili glorie della generazione barbuta, qualche volta ci avevano qualche ragione. Ma non giova ormai rinnovare la noiosa prova.

Qui basti dire che tutte le distinzioni date dagl’Italiani che trattarono di sinonimi, sono nella presente ristampa compendiate da me, ritoccate, illustrate, rimpastate talvolta; che mio intendimento si fu (troppo forse ambizioso) far sì che il libro mio potesse ai lettori o pigri o non ricchi risparmiare lo studio e l’acquisto degli altri libri italiani intorno alla medesima materia versanti. Si noti, però, che, sebbene le altrui distinzioni io m’ingegni di ridurre il meglio ch’io possa alla norma dell’uso, non sempre però le reputo sufficienti alla piena trattazione del soggetto, e molte osservazioni dovrei spesso aggiungere se l’articolo avessi a rifare di mio. Quel ch’io noto di loro, è lodevole, per quanto al mio tenue giudizio ne pare; ma non dice tutto. Ond’è ch’agli articoli non interamente miei (sebbene rettificati o arricchiti o rimpastati di mio) appongo il nome dell’autore dal quale li trassi, o la lettera - A. (che dice Anonimo), sì per gratitudine e sì per discarico. Né dare ad altrui più del suo mi parve prodigalità soverchia, in questo tempo che ai benemeriti predecessori è tanto avaro di lode.

Del Dizionario della Crusca approfittai grandemente; ma da esso pure dissento talvolta; senz’animosità però, e con rispetto sincero a quegli uomini «che recarono immenso bene alle nostre lettere, sì che sarebbe invidiosa ingiustizia il negarlo» [135]. Grandissimo bene; e necessario, soggiungo: onde non si saprebbe intendere come un atto di carità letteraria potesse provocare biasimi tanto severi, se gli esempii dell’ingratitudine umana non fossero troppo frequenti.

Nelle opere filologiche segnatamente, e massime ne’ Dizionarii, le omissioni, le superfluità, gli sbagli del dichiarare o del citare, i falli d’ordine e anche di massima, sono inevitabili alla più solida scienza, alla diligenza più sollecita e più paziente. In solo due facce del Dizionario Forcelliniano altri potrebbe scoprire tante piccole macchie quant’altri non ha notate in dugento facce del Dizionario della Crusca: ma che perciò? Il lessico del Forcellini rimarrà sempre un de’ meglio pensati lavori che la filologia abbia forniti sin qui.

Se poi si considera che nel Dizionario fiorentino non poteva già il senno della intera Accademia esaminare a una a una le definizioni, le dichiarazioni, gli esempii, le citazioni [136]; ogni severità, non che ingiusta, divien puerile.

Ma il tempo delle batracomiomachie filologiche dovrebb’essere finito oramai. Agevoli ciascuno, secondo il poter suo, la conoscenza della lingua comune, senza consumare il tempo in beffare o pur riprendere chi fa men bene o chi pensa altrimenti.

XXXV. De’ difetti dell’opera mia

Ripeto: in opere filologiche i difetti sono, men ch’in altre, evitabili. Difficile conoscere l’uso di ciascuna voce, ancora più difficile discernere le menome gradazioni dell’uso; difficile adagiare l’una voce sull’altra, e vedere dove combacino, dove no; dove sia maggiore il rilievo, dove più delicati i contorni: trovar parole sì sottili o sì calzanti che rendano con evidenza le differenze tenui, senza ingrossarle, difficilissimo.

La definizione non serve. E poi, quante definizioni son buone, quante non disputabili, quante possibili, quante intelligibili ai più? Meglio dichiarare esemplificando; coniare tante sentenzuole entro alle quali, come figura entro a medaglia, sia rilevato il vocabolo da illustrare. Così nella storia della lingua si dà la storia de’ costumi; e le forme varie inculcano l’idea vostra negl’intelletti variamente educati; e l’autore stesso, nell’esemplificare la differenza, la rende più chiara ai proprii occhi, e fa di migliorare il lavoro. Per distinguere equità da giustizia, non vale tanto definire le due voci, quanto mostrare quali atti insegni la giustizia, quali l’equità. Gioverebbe che ciascun articolo fosse il sunto di quanto si sa finora intorno a quella materia; e che, per esempio, dai sinonimi riguardanti le cose morali venisse un trattatello di morale compiuto. Di tale lavoro i’ ho dati pochi e deboli saggi: altri potrà fare più e meglio.

Del resto, fosser anco in siffatte opere evitati i difetti, non resterebbe men largo il campo alle critiche. Io posso, con la ragione, con l’uso, con gli esempii confermare la distinzione che do: esce uno, e mi reca in contrario un testo di lingua. Gli autori che fanno testo, son tanti, tanto diversi d’età, di patria, tanto disuguali d’eleganza, di senno, che troppe stranezze in fatto di lingua con l’autorità loro potrebbersi legittimare. L’uso più generale, più conforme a ragione, più evidente, più certo, ha le sue eccezioni: chi nega? Ma l’uomo che delle eccezioni tenesse conto siccome di regole, non solo non potrebbe compilare libro nessuno, ma non saprebbe più a quali norme, scrivendo o pensando, attenersi.

Io posso ben dire che superbo non ha senso buono; mi si citerà il petrarchesco : «... vista sì dolce superba»; ma qualche raro uso di poesia o pur di prosa non deve far dubitabile la significazione ordinaria di quella voce. S’io dico che albergo è luogo ove l’uomo non ha ferma dimora; mi si citerà «Ove alberga onestate...» e simili; ma rimarrà sempre vero che nell’uso comune le case di Alessandro Manzoni e di Antonio Rosmini e di Gino Capponi non si direbbero alberghi. Certamente, in fatto di traslati, agli ardimenti che a sé concede l’affetto, non sono da porre limiti ingiuriosi; ma degli esempii di tali ardimenti far legge, sarebbe un pedanteggiare per odio de’ pedanti.

Con ciò non intendo soffocar le censure; che anzi le invoco, e ringrazio chi me n’è stato cortese; e n’ho approfittato, e ne approfitterò a correzione in luoghi non pochi. E quelle censure mi saranno più care le quali mi mostrino dov’io abbia ignorato o franteso l’uso toscano, o fattogli forza.

XXXVI. Ancora de’ difetti dell’opera mia, poi, un pochino, de’ pregi

Mi sono, a mio potere, guardato dalle distinzioni prestabilite; ho badato che dal fatto le mie scendessero come conseguenze, interpretassero l’uso, lo dirigessero. Ma ch’io abbia sempre ottenuto l’intento, sperarlo sarebbe vanità. Quale ingegno mai, quale esperienza da tanto? Quale memoria sì ferma, da ritenere tutti gli usi di tutto il linguaggio parlato e scritto? Qual giudizio sì fine, da sempre attenersi all’uso migliore? Qual colorito e sicurezza di stile tanta, da far sentire altrui quel che l’uomo sente in sé, e non può sempre ragionare il proprio sentimento? Io, che, dalle fasce all’età di quattordici anni, attinsi ad un ruscello del dialetto veneto, quale è la lingua parlata nelle città marittime della Dalmazia (linguaggio meno impuro che molti illustri d’Italia, e men lontano dalla lingua comune, ma povero); io, che, dai quindici ai venticinque, non altro udii sonarmi all’orecchio che diciture padovane, veneziane, vicentine, veronesi, trentine, lombarde; che poi poco più di sei anni ho passati in Firenze, e poco visitai la Toscana, e non tanto conobbi di quella incomparabile bellezza quanto il desiderio e il bisogno mio richiedevano; io, cui già nocque la lettura di libri francesi, e la necessità di parlare francese e d’udirlo e di scriverlo; io, che nel mio povero stile ogni dì più riconosco tante macchie e tanti vizii, e mi veggo tanto lontano pur da quella mediocre altezza a cui salgono gli occhi miei; come potre’ io pensare d’aver sempre in sì delicato lavoro colto nel segno? E però stiano in guardia i lettori, e se alcuna cosa trovano lodevole nel libro mio, l’attribuiscano al grande amore col quale cercai le norme dell’uso, e ai consigli e agli avvisi che con istanza ho chiesti ad amici, a ignoti, a dotti, a villici, a donne.

So quanto facile sia, distinguendo, abusar dell’ingegno, e come una distinzione arguta possa talvolta ingannare. In questa, siccome in altre cose, o lettore, giova non s’acquetare al detto altrui; giova saper dubitare dell’idea nostra propria; sostener la fatica della disamina; vedere se nelle distinzioni proposte le eccezioni sian troppe, se tali che l’osservazione generale ne venga infermata. Molti, dice il Roubaud, che approvavano la distinzione data dal Girard, lette le osservazioni mie, convenivano meco ch’ell’era sbagliata, e si maravigliavano del non se n’essere accorti da sé.

Se la dichiarazione de’ vocaboli, ciascuno di per sé, occupa nel dizionario italiano dieci volumi, il confronto e la distinzione dovrebbe almeno occuparne altrettanti. E non parlo de’ vocaboli innumerabili che il dizionario non nota; non parlo né delle frasi né dei traslati, ciascuno de’ quali crea nuove affinità con nuove serie di voci e di modi. Onde non mi si apponga a colpa (com’altri già fece alla mia prima edizione, quasi che in quella stessa non fossero veramente illustrati già più vocaboli che in altro simile trattato italiano), dico che non mi si appongano a colpa le omissioni di tale o tale sinonimia; critica troppo facile, fra le tante più opportune a farsi e più giuste. Chi vuole imbandigione più lauta, apparecchi da sé. Ma, per molto che si faccia, rimarrà sempre da fare. In tali studii, così come in altri, giova indirizzare e addestrare la mente del giovane scrittore; e a lui lasciare il diletto del misurar co’ suoi passi qual parte e quanta gli piaccia del vario cammino.

XXXVII. Come usare di questo lavoro

Il presente, dunque, non è che un aiuto, un indirizzo agli esercizii che deve lo scrittore imprendere da sé, per farsi signore della parola. Perché, giova il dirlo, alle sinonimie (sia per istinto o per uso o per istudio), è condizione necessaria a farsi scrittore valente. E all’istinto ed all’uso sopraggiungere lo studio, non nuoce. Dirò collo Stefano: «Miretur forsan aliquis me has minutias tam accurate persequi, et subtilius fortasse quam par sit, examinari a me ista arbitretur: sed sciat quasdam esse grammaticas nugas quae ad seria nos ducunt. Quasdam, dico: quippe qui, alioqui, multas grammaticorum plane nugatorias minutias tanto persequor odio ut maiore nullus. Dum vero in illis sunt occupati, alia quae ad seria ducere nos possunt, vel omnino praetermittunt vel oscitanter tractant».

Non sarà più, speriamo, che la letteratura italiana si divida in due schiere; di barbari, e di pedanti. E questo dobbiamo sperare; perché le sorti della lingua sono le sorti della nazione che ne usa. L’unità del vocabolo unifica il sentire di dieci, di mille; le diversità del dire fanno quasi uomini di natura diversa [137].

Difendere la lingua nostra (maltrattata e gloriosa come la nazione che la creò) contro l’ignoranza superba che all’uso spurio s’inchina, e guasta l’uso legittimo; contro la perifrasi, morte dell’evidenza, della poesia, dell’affetto; contro l’iperbole che, le delicate idee soffocando, falsifica e il linguaggio e le menti; contro l’affettazione che sdegna chiamare le cose col proprio nome, e parla a modo d’enimma; contro la barbarie dotta, e la titolata, che da cinquanta e più anni s’infangano di francesismi e d’altre lordure: quest’è uno degl’intendimenti dell’opera mia. La perifrasi è il nostro Satana, che seduce gl’ingegni vani e gl’inetti, beati di facile e fiacca loquacità. Senonché, la modestia, la dottrina e il senno dalla perifrasi aborrono; perché la modestia e il senno e la dottrina amano, non il luccicante ma il luminoso, non il sorprendente ma il vero. E il sorprendente agli occhi de’ mediocri e de’ corrotti è l’insolito, l’ingegnosetto. Ma per dire non meno e non più di quel che l’uomo sente, e per saper quel ch’e’ dice, vuolsi ingegno e virtù.

In questa parte desidero che il mio qualsiasi lavoro non torni inutile. L’opera del Napione ha giovato, forse quanto l’esempio dell’Alfieri, a diffondere nel Piemonte l’amore del bene scrivere italiano. Non solo la forza dell’ingegno creatore, non sole le ricchezze della meditata dottrina giungono a meritare riconoscenza, ma anco la coltura modesta di verità menome in apparenza, purché allo scrivente sia lume l’amore della patria e dell’onesto; purch’egli prenda a soggetto de’ suoi studii una di quelle tante parti del sapere, ove sia cosa buona o da scoprire o da determinare o da diffondere almeno. Ed è notabile indizio del tacito, ma non insensibile, progresso della verità, questo insinuarsi che fa un nuovo spirito fecondatore sin negli studii i quali da’ generosi sensi parevano più disgiunti.

XXXVIII. Usi più speciali

A’ Toscani il lavoro mio tornerà men proficuo che ad altri, a loro che gran parte di queste notizie succiano col latte materno; ma gioverà a rammentare a loro stessi quello che sanno, e a che, scrivendo, non tutti pensano; gl’invoglierà, spero, a custodire con più religione e far meglio fruttare il tesoro dell’uso alle lor mani affidato. Che s’e’ lo lasciano sotterra, o con pravi usi lo falsificano, ne avranno terribile, più che non credano, il danno, e vituperosa, nel giudizio de’ posteri, la vergogna.

Parecchi de’ lettori toscani che sortì ’l mio lavoro (ed è gran ventura, e quasi prodigio, che un dizionario abbia lettori), trovarono da lodare le distinzioni di vocaboli che appartengono a idee morali, quelle distinzioni che meno io reputo necessarie al bisogno degli scriventi odierno. Altrove piuttosto, il libro fu letto con le intenzioni con le quali io lo scrissi: non già ch’io potessi ubbidire al signor Paride Zaiotti, al quale, ogni accenno a cose morali e civili pareva digressione importuna; così come pareva alla Censura regia di Napoli, che le ladre ristampe, fatte all’ombra di lei, faceva più ladre con le sue forbici. Gran parte dunque delle voci ch’io prendo a dichiarare, o riguardano oggetti corporei (come quelle che sono men note, e pur necessarie perché lo scrittore dica di sapere davvero la lingua), o appartengono allo stile famigliare, ch’è altra cosa dal triviale e furbesco. Se alcune di quelle voci paiono a qualche grave uomo indegne della letteraria maestà, io non saprei né dolermene né sdegnarmene: a tale censura ero già preparato.

Non però ch’io sbandisca dal mio lavoro i vocaboli denotanti affezioni morali; ma sempre ho badato che qualche nuova particolarità dell’uso vivente fosse in quelle distinzioni notata. Da certe osservazioncelle morali non mi seppi astenere, perché di tali vorrei fecondato ogni tema. «E lo studio de’ sinonimi, dice la signora Faure, con la moralità si collega, per la potenza ch’hanno le idee cogli affetti. Molte false e incerte opinioni che girano nel consorzio sociale circa quelle voci in cui si compendiano gli umani doveri e diritti, non possono non nuocere all’esercizio potente di que’ diritti, di que’ doveri all’osservanza potente. Ma, imprimendo ne’ giovani cuori la distinzione de’ vocaboli per via di qualch’utile verità, di qualche memorabile esempio, si viene dall’insegnamento a dedurre raddoppiato il vantaggio».

Il direttore d’un lodevole istituto d’educazione mi domandava del modo di rendere à giovanetti proficuo l’uso del libro mio. Pochi cred’io essere i libri che un fanciullo sappia leggere e usare; i più de’ libri d’educazione sono per i maestri. Conviene, pertanto, che il maestro, notate da sé le differenze di que’ vocaboli, o con esempii d’autori le faccia evidenti al fanciullo, o gli dia un tema tale che i due vocaboli cadano da dover adoprare ciascuno nel senso proprio, e poi lo corregga, s’e’ sbaglia. E’ può talvolta proporre a modo di dubbio, o per soggetto di famigliare colloquio, la differenza di due vocaboli affini, cioè delle cose da loro significate: può tal altra mostrare quali equivoci, dubbii e liti provengano dal confonderli: insomma, l’insegnamento variare al bisogno. Quando il giovane ingegno sia bene avviato per queste indagini, saprà da sé interrogare i libri opportuni e correggerli se bisogna; saprà a nuove cose applicare l’appresa norma.

Io vorrei che questo lavoro cominciasse, in parte almeno, a soddisfare ai bisogni di lingua sì varia com’è la nostra. E son due: determinare il significato di ciascuna voce viva, e togliere dall’uso le voci che non significano idea né gradazione d’idea la quale non sia più chiaramente da altre voci più note significata. Doppio dunque l’uffizio di tali lavori: dare le differenze delle voci e locuzioni ancor vive; e additare le morte affatto o viventi languida vita e inutile. Perché, quella noiosa incertezza in cui sono e comincianti e provetti di gran parte d’Italia, se tale modo ch’e’ trovano negli antichi sia eleganza da usarla a’ dì nostri, o quisquilia; se l’astenersi da un modo che pare inusitato sia evitare l’affettazione, o piuttosto privarsi di viva ricchezza, sì che ne scapiti la proprietà e la grazia del dire; questa incertezza, tenendo in sospeso l’ingegno e freddando l’affetto, non può alla civiltà nostra non essere impedimento.

Determinato che fosse il significato di ciascun vocabolo nella lingua comune, sarebbe più facile ne’ dizionarii de’ dialetti la voce vernacola recare alla comune che a lei corrisponde; e una sola e medesima voce, e viva, tradurrebbe le varie dei dialetti, senza che intorno a ciascuna di queste s’accumulino quattro o cinque; il che non segue senza improprietà e senza sbaglio.

Il detto inconveniente da un dizionario universale della lingua sarebbe ancor più potentemente sanato. Ma il dizionario dei sinonimi (perfezionato da altri e corretto) può alla compilazione appunto del grande dizionario giovare, sia per le definizioni, o piuttosto dichiarazioni, de’ vocaboli; sia per la distinzione de’ vocaboli in ben ordinati paragrafi; sia per l’aggiunta de’ significati nuovi, che dal distinguere i già noti risultano con maggiore evidenza. La sinonimia addita qual sia il significato più ovvio, che dev’essere il primo; quale il più antico, da cui, come da ceppo, gli altri tutti si vennero diramando; addita quali gli usi proprii del verso o d’altro speciale linguaggio, quali i comuni (necessaria certezza al lettore inesperto); testifica ai posteri quale, nel secolo in cui il dizionario fu fatto, fosse la parte viva della lingua, e quale la morta. L’utilità ideologica di tali lavori, e la storica, sono d’importanza perenne; e quel che a taluno de’ presenti par frivolo e minuto, diventa, per le nuove applicazioni che se ne fanno, notabile agli avvenire. Se a noi (dice il Beauzée, del quale e degli altri predecessori miei ho qui fuse, citando, le prefazioni), se a noi fosse giunto un dizionario tale della lingua di Senofonte o della lingua di Cesare, molte cose sapremmo che né la grammatica né i lessici possono al certo insegnare. Così queste ch’ora paiono compilazioni filologiche, diventano storici monumenti. Giova da certe affinità dedurre documenti alla storia delle lingue, alla storia delle schiatte. Giova notare quali proprietà, quali relazioni ciascun popolo particolarmente osservasse nelle cose, e nel linguaggio significasse.

XXXIX. Lavori che rimangono a fare in questa materia

Per fare compiuto un dizionario de’ sinonimi, converrebbe notare, più per minuto che io e i miei predecessori non abbiam fatto, non solamente in che differiscano i modi della lingua, ma in che si convengano, come il Diderot accennava [138]. A questo io forse, un po’ più che gli altri (salvo la modestia), posi mente.

Gioverebbe ancora, con la norma delle intrinseche differenze de’ vocaboli, giudicare e i moderni scrittori e gli antichi; e vedere a prova come li rispettino i più caldi e i più veri, come gli artifiziosi e i parolai se ne facciano giuoco.

Distinguere i sensi e gli usi de’ quali è capace un verbo, e le frasi a esso verbo corrispondenti, o dove e’ s’accoppia con altri vocaboli; [139] distinguere le varietà che vengono dagli epiteti, e dalla loro collocazione, e dalla collocazione di voce qualsiasi; dalla varietà dei tempi e dei modi e del numero; dal prescegliere la parola più famigliare alla più recondita, o questa a quella: son lavori de’ quali i’ mi sono ingegnato di dare qualche piccolo saggio, ma che potrebbero fornire ciascuno un buon trattato da sé; senza dire de’ sinonimi scientifici, il cui studio è alla storia della scienza stessa intimamente congiunto. Che se di ciascuna pianta o animale, o oggetto reale o ideale che sia, noi potessimo esaminare tutte le denominazioni dategli in tutti i tempi e gl’idiomi, ciascun vocabolo darebbe materia ad opera maravigliosa.

Ma, per iscendere da queste altezze al dizionario de’ sinonimi usuale, gioverebbe gli articoli suoi ordinare secondo l’ordine delle idee. A questo modo, ciascuna scienza avrebbe col tempo il suo dizionario dei sinonimi; e le voci del dizionario della lingua sarebbero i titoli e i germi d’un grande dizionario enciclopedico, che con le generazioni formerebbesi a poco a poco.

Così potrebbersi dirimpetto alle voci, filosoficamente ordinate, dell’un dialetto o idioma, collocare le voci degli altri idiomi, e vedere quali idee siano nell’uno significate, che nell’altro non sono; dove stia la ricchezza, e di qual sorta ricchezza; se di locuzioni concernenti oggetti corporei o intellettuali o morali.

E tutte queste voci potrebbersi numerare; e potrebbe il medesimo numero rappresentare la voce corrispondente in tutte le lingue (alle voci che corrispondente non hanno apponendo un segno di frazione o un segno composto); il qual numero da ciascun lettore sarebbe tradotto nella lingua propria; e se ne avrebbe una lingua universale di cifre. Questo pensiero fu messo in parte ad effetto da un uomo di raro ingegno e sapere, il già ministro del re di Portogallo Silvestro Pinheiro. Il quale le voci denotanti idee morali dispose in ordine, e numerò, e a ciascuna di loro pensa porre di contro la corrispondente portoghese, italiana, latina, greca; lavoro che pare di poco momento, ma la posterità potrà bene per esperienza conoscerne i frutti.

Un altro lavoro mostrava a me l’egregio uomo potersi fare intorno a’ sinonimi: numerare le idee ch’entrano in ciascun dei vocaboli affini, ciascuna idea segnare con un numero, e a numeri le sinonimie ridurre. Allora vedrebbesi ancora più chiaramente, in che le voci s’accostino, in che si disgiungano. Poniamo: amore, affezione, affetto, benevolenza, amorevolezza, dilezione; nell’una o nell’altra delle quali parole s’inchiudono le idee: 1. Desiderio o odio; 2. Desiderio solo; 3. Desiderio invincibile di natura; 4. Intellettuale; 5. De’ bruti; 6. Turpe; 7. Desiderio del bene altrui; 8. Del bene de’ nemici; 9. Desiderio abituale; 10. Vivo; 11. Men vivo; 12. Interno; 13. Significato di fuori; 14. Di minore a maggiore; 15. Di maggiore a minore.

Or ecco come definire con cifre i notati sinonimi. L’affetto, essendo e desiderio del bene e odio del male, comprendendo e il desiderio interno e i segni di quello, essendo per l’ordinario non vivissimo, e così di maggiore a minore come di minore a maggiore, l’affetto porterà i numeri 1, 10, 12, 13, 14, 15. L’affezione, siccome quella ch’è desiderio del bene, e può essere abituale; desiderio interno; non vivo; e così di minore a maggiore, come di questo a quello, ma piuttosto di maggiore a minore, appunto perché non molto vivo; ch’è intellettuale, e per estensione si dice anco de’ bruti; lo segneremo co’ numeri 2, 4, 5, 9, 10, 11, 12, 14, 15 (15 più che 14). L’amore, come desiderio ora dell’oggetto, ora del bene dell’oggetto (ma di questo non sempre); ora abituale, ora no; ora interno tutto, ora manifestato con segni; per lo più vivo; che non bada a disuguaglianze di grado; talvolta desiderio invincibile di natura; ora spirituale, ora turpe, ora proprio de’ bruti; sarà distinto da’ numeri 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9, 10, 12, 13, 14, 15; vale a dire che or l’una or l’altra di quelle cifre, indicanti idee contrarie, gli verrà appropriata. La benevolenza, per essere desiderio interno del bene altrui, desiderio abituale, non fortissimo, e di minore e di maggiore, e intellettuale più che animale; avrà i numeri 2, 4, 7, 9, 11, 12, 14, 15. L’amorevolezza, ch’è segno di desiderio, non vivo, del bene altrui, e per lo più di maggiore a minore, avrà i numeri 2, 7, 11, 13, 15. La dilezione, desiderio del bene de’ nemici, tutto spirituale, ora interno, ora manifestato con segni, abituale per lo più, ci darà i numeri 2, 4, 8, 9, 12, 13.

Il qual modo non si potrebbe, è vero, tenere sempre con effetto buono, né facilmente, o da pochi; ma provarcisi gioverebbe per un soprappiù; e ne uscirebbero, anco incompiuto ch’e’ fosse, vantaggi parecchi. L’ordine stesso de’ numeri variamente trasposti, mostrerebbe quali le idee principali in ciascun vocabolo, quali le dipendenti, quali le più rilevanti, e quali le più leggermente adombrate.

XL. Memorie di riconoscenza e d’affetto

E qui sento il debito di rammentare con senso di riconoscenza coloro a cui quest’opera deve la sua non infelicissima riuscita. Innanzi di pubblicarla consultai, per significati e per differenze de’ vocaboli, G. B. Zannoni, Gaetano Cioni, e il padre Mauro Bernardini, censore delle stampe, arguto e mite, ornatissimo di latine eleganze. L’ab. Zannoni, immaturamente rapito alla scienza archeologica, autore di commedie popolari che sono tuttora con diletto ascoltate dall’ingegnosa plebe fiorentina, uomo cortese a molti, fu cortesissimo a me, giovane sconosciuto o mal conosciuto, e da buoni giudici e da tristi, or con giusta or con crudele severità, giudicato. Possano gli amici di lui (se amici restano ad uomo morto) leggere queste parole commemoranti il suo nome, con quella dolcezza con ch’io (infelice uomo, ma lieto degli ispirati e de’ provati affetti) le scrivo.

Egli, lo Zannoni, e i due valentuomini nominati, additandomi con rara perizia le proprietà e le ricchezze dell’uso, m’agevolarono la difficile via. E qui, se la religione dell’affetto non me lo vietasse, dovrei, tra’ benemeriti del mio lavoro, nominare una donna, una donna povera e ignota, ne’ cui colloquii attinsi dolcezza e di nobili sentimenti e d’elegante linguaggio. Suo, nella milior parte, è il presente lavoro.

Stampatolo, ebbi correzioni ed avvisi amorevoli da Cesare Cantù; giunte con esempii opportuni dai signori avvocato Mancurti d’Imola, Filippo Polidori di Fano, e da Lorenzo Neri di Empoli. Il signor Francesco Antolini la mia prima edizione di Firenze fornì d’un indice diligente, stampato a Milano, che le mancava. Le querele di lui circa i vizii tipografici di quella edizione, son vere; ma non sapeva l’egregio uomo che quell’edizione fu dovuta compire a spese del povero autore, il quale in poco più di due anni (senza contare gli studii di preparazione, durati quattr’anni circa), in poco più di due anni scrisse il libro, lo stampò, lo vendé. Aveva l’autore a parecchi librai d’Italia offerto il lavoro, e n’ebbe, al solito, dure ripulse, e da taluno sleali; poi, messosi a stampare di suo, provò (pagando a contanti e anticipato) gl’indugi superbi dello stampatore, e dovette, a un terzo del lavoro, mutare tipografia; provò le angherie dei librai. Quindi, uscito il libro, uscirono annunzii di ristampa, uscirono ristampe scorrette e monche, ultimo compenso alle sostenute fatiche e durezze. Né il flagello delle ristampe cessa sotto la legge che dicesi proteggere la proprietà dell’ingegno; e certi ministri del governo italiano, invocati a fare che la paresse meno derisoria e meno ridevole, risposero malamente. Questo sia detto non a scorare gli scrittori amici del bene (che da nessuna noia o pericolo si lasceranno scorare mai), ma sì a togliere dalla mente loro certe fallaci speranze, che l’esperienza delle cose fanno essere più amara.

Alla ristampa fiorentina molti invocai, la onorassero d’alcuna giunta; e da parecchi uomini cortesi e di chiara fama ne ottenni. Paziente e amoroso censore, anzi cooperatore (se la parola non è superba) mi fu Gaetano Cioni, uomo di varia dottrina, la quale non portò, per la miseria dei luoghi e de’ tempi, i suoi frutti. A fornirmi giunte pregevolissime prestarono sé infaticabili il rammentato signor Polidori e il signor Giuseppe Meini. Cortesi di giunte e d’osservazioni mi furono ancora l’avvocato Aubert di Nantes, Giovita Scalvini, Angelo Frignani, Pietro Leopardi; ed altri parecchi. Possa la nuova ristampa fruttarmi nuove obbligazioni, delle quali io non ho cosa più cara.

A me, questo della lingua è studio da molt’anni diletto. Fin dal 1826, non compiuti i ventiquattr’anni, io disegnavo un giornale di mera filologia italiana, dove esaminare, rispetto alla lingua, le opere principali che uscissero; esaminare le edizioni de’ classici, i nuovi testi, i comenti, le grammatiche, i dizionarii, le opere trattanti filosoficamente la lingua, italiane o no; stampare testi inediti, ristampare i malconci; illustrare i luoghi oscuri degli scrittori vecchi; proporre al dizionario nostro correzioni e giunte; preparare materia per un dizionario de’ sinonimi, e uno etimologico; accumulare osservazioni intorno alla lingua delle scienze e delle arti; studiare i dialetti; agitar le questioni allora viventi intorno alla lingua cortigiana, e chiamare ad esame i libri antichi e moderni che ne trattavano; raccogliere notizie per la storia della lingua comune, e de’ dialetti; cercare le affinità delle antiche con la nostra; tradurre dal latino e dal greco con l’intendimento di trasportare nell’italiano le greche e le latine eleganze; ingegnarsi di diffondere la conoscenza dell’uso buono; a’ filosofici sottoporre gli studii grammaticali. Certo, un giornale di lingua può riuscire importante; e, a proposito di parole, discorrere di molte utili cose. Ma il giornale ideato da me, non si fece; né io a quell’età ero da tanto.

Quattr’anni dopo, intendevo percorrere la Toscana, e fare il dizionario di tutti i suoi dialetti, ne’ quali vedrebbesi essere tuttavia molta parte di lingua che chiamasi morta, e senza il sussidio de’ quali non si avrà mai buon dizionario universale; incoare un dizionario, veramente toscano, delle arti e de’ mestieri (opera senza la quale è vano sperare che si diffonda equabile e chiara la cognizione delle arti medesime); raccogliere quella parte di lingua ch’è vivo documento de’ costumi di popolo così singolare, costumi che il tempo viene a poco a poco disperdendo: questo io ’ntendeva di fare; ma la mia proposta andò a vuoto.

Per ritornare ai sinonimi, il suffragio de’ buoni mi è soprabbondante premio d’ogni e passata e presente fatica. E a tutti coloro che questo dizionario degnarono di lode, giusto è ch’io manifesti il piacere che ricevei dalle loro parole; perché, l’intendimento del libro essendo un po’ più che filologico, chiunque concorre a favorirlo, diventa, agli occhi miei, cooperatore a quel fine al quale i’ ho consacrati l’ingegno e la vita.

Finisco con le parole dell’autore dei Sinonimi rammentato, il vescovo Plantevigne: «Volumen hoc, quod multis lucubrationibus a iuvenilibus annis mente concepi, aetate crescente subsecivis horis absolvi, et senescente iam corpore, animo vero virescente, parturii, eo lubentius, lector, accipe, quo ex interiori meo affectu manavit».

Niccolò Tommaseo


[Note]

  1. Serie dei testi di lingua. [Torna al testo]
  2. Berni. [Torna al testo]
  3. Nouv. Hél., I. [Torna al testo]
  4. Nelle prime trenta ottave abbiamo ripetute le rime -ato, -agna, -aldo, -ata, -ei, -ia, -iva, -oco, -oi, -olse, -one, -orse, -osse; -era tre volte, -ano quattro. E vuol dire, una ripetizione a ogni coppia d’ottave. Se i pedanti recano autorità per ristringere i confini dell’arte, e a noi sia lecito all’autorità ricorrere per ampliarli. [Torna al testo]
  5. St. 3: «E darvi sol può l’umil servo vostro», «Né, che poco io vi dia, da imputar sono; Ché quanto io posso dar, tutto vi dono». St. 13: «E per la selva a tutta briglia il caccia», «Di su, di giù, per l’alta selva fiera». Ivi: «La più sicura e miglior via procaccia», «Lascia cura al destrier che la via faccia». [Torna al testo]
  6. Instit. X. E II. 3. [Torna al testo]
  7. Som. I, 1, 1, 3. - «Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi; giacché assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi de’ sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri che difficilmente s’osservano, se non da’ più sagaci osservatori, e pur si sentono dal comune degli uomini, i quali s’accorgono unanimi se nell’uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà dei parlare, né però sanno dire con distinzione che cosa manchi; e, se voglion dirlo, talora sbagliano; e, se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano, fra gli altri, quest’ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti; la qual pluralità, non essendo un reale, ha bisogno d’un segno reale per essere ritenuta e denotata». - Rosmini. [Torna al testo]
  8. Note alle proprie poesie, ripubblicate dal sig. Orelli per i tipi del Ruggia. [Torna al testo]
  9. Cantù, «Indicatore Lombardo», T. II, f. 3. [Torna al testo]
  10. La Bruyère. [Torna al testo]
  11. Nizard, Études, II, 343. [Torna al testo]
  12. Vedi, per esempio, nella Riccardiana di Firenze, Ms. 807, i Sinonimi di Simone da Genova. Tali sarebbero quelli che un medico m’indicava: Abdome, Pancia, Ventre, Bassoventre. Angina, Schinanzia, Laringite, Flogosi laringea. Anodino, Calmante, Leniente, Sedativo, Antiflogistico, Refrigerante, Rinfrescante, Controstimolante, Debilitante. [Torna al testo]
  13. De homine et ratione deflente, et de homine et ratione consolante. [Torna al testo]
  14. Riccardiana, Cod. 994. [Torna al testo]
  15. Bellezze della lingua italiana, di G. Pasquale, Torino. [Torna al testo]
  16. «Ateneo», VI. [Torna al testo]
  17. Protagora. [Torna al testo]
  18. Περὶ ὁμοίων καὶ διαφόρων λέξεων. [Torna al testo]
  19. Suida. [Torna al testo]
  20. Walkenaer, Praef. in Amm. [Torna al testo]
  21. Top. VIII. [Torna al testo]
  22. Delle formole solenni del popolo romano, 1739. Delle parole che al Diritto appartengono, 1743. [Torna al testo]
  23. «Antologia» di Firenze, 1830, dicembre. [Torna al testo]
  24. La prima edizione è del 1718, col titolo: Justesses de la langue française. [Torna al testo]
  25. Secolo di Luigi XIV. [Torna al testo]
  26. Ed. 1796. Préf. de l’éd. [Torna al testo]
  27. Ed. 1822. [Torna al testo]
  28. Ed. 1828. [Torna al testo]
  29. Ed. 1826. [Torna al testo]
  30. Trad. del Blair, Istituzioni di logica e metafisica. [Torna al testo]
  31. Proem. all’anno 1819. [Torna al testo]
  32. Fornaciari, Disc. della trasposizione. [Torna al testo]
  33. Romani, Teorica. L’intero trattato compendiasi in questa pagina. [Torna al testo]
  34. Quintiliano: "Alia quae, etiamsi propria rerum aliquarum sint nomina, τροπικῶς tamen ad eundem intellectum feruntur, ut ferrum et mucro. Plurima vero mutatione figuramus: ut scio, et non ignoro; et non me fugit, non me praeterit; et quis nescit? nemini dubium est». [Torna al testo]
  35. Jean de Meung, Roman de la Rose. [Torna al testo]
  36. Di qui l’importanza del coordinare convenientemente le serie dei vocaboli da distinguere, conosciuta da un vecchio autore di un tesoro di sinonimi ebraico-caldaico-rabbinici-talmudici-cabalistici, pubblicato nel 1644; dico, il vescovo Giovanni de Plantevigne de la Bause: «E pluribus vocibus sectionem unam componentibus, capitaliorem ac latius patentem in caput eius electam fuisse: ... in quo summum studium adhibere mihi necesse fuit». Io che miravo segnatamente ai bisogni dell’uso, e a quelle parti della lingua che fuor di Toscana sono rnen note, non mi attenni all’ordine ragionato, come in un’opera meramente scientifica si converrebbe; non però ch’io creda inconciliabili le due cose, e non isperi che i miei successori non provveggano a questo. [Torna al testo]
  37. Avea, dovea, ambasciadore, de’ per dei, be’ per belli; e altri mille. [Torna al testo]
  38. «Bibl. Italiana». [Torna al testo]
  39. Compagnoni, Dell’arte della parola, considerata nei varii modi della sua espressione, sia che si legga, sia che in qualunque modo si reciti. [Torna al testo]
  40. Apol. di Dante. [Torna al testo]
  41. Napione. [Torna al testo]
  42. G. B. Niccolini, Discorso in cui si ricerca qual parte aver possa il popolo nella formazione di una lingua. Non a tutte le affermazioni di quel discorso, però, consentiamo. [Torna al testo]
  43. Voci e modi toscani, raccolti da V. Alfieri, Torino 1827. [Torna al testo]
  44. Cibrario, Pref. al citato opuscolo Voci e modi. [Torna al testo]
  45. Cic., Brut. [Torna al testo]
  46. Taverna, Novelle morali e racconti storici ad istruzione de’ fanciulli. [Torna al testo]
  47. 1837. [Torna al testo]
  48. Lettera al signor Lissoni, in fronte alla Frasologia da lui stampata nel 1827. [Torna al testo]
  49. Al Cesari, fra le altre disgrazie, toccarono lodi più terribili d’ogni scherno. Uno de’ suoi amatori: «Ma se personalmente il valente Cesari io mai non vidi, affermar tuttavia io posso e debbo che da un ritratto di lui, che m’occorse di vedere in un frontispizio d’un’opera sua, ben potei conoscere che ventidue be’ pollici di circonferenza aveva il suo cranio. Due ampi e scintillanti occhi abbellivano oltracciò il suo sereno volto, e mostravano quanto mai fosse grande la possa e la fervenza del suo magno cerebro». (Esortazioni di L. Angeloni, p. 466). [Torna al testo]
  50. Ognun vede l’equivoco tra sei sano e sta bene. [Torna al testo]
  51. Metello dice animo. Dalla lettera si comprende che amore non c’entra. [Torna al testo]
  52. Laesum iri non è strazio. [Torna al testo]
  53. Metello, fratel mio, convien dire, per dare al costrutto la forza e il senso legittimo. [Torna al testo]
  54. Sua c’è di più. Aggiungere parole inutili toglie famigliarità, e dà allo stile il tono d’un comento, o di cosa più noiosa, se c’è. [Torna al testo]
  55. Potevasi a fortune prescegliere un modo più famigliare al linguaggio italiano. [Torna al testo]
  56. Pudor qui non vale bontà. [Torna al testo]
  57. Scudo: perché questa figura che sì mal si conviene con poco? Perché non difendere?[Torna al testo]
  58. Certo scema la forza di quello che segue. [Torna al testo]
  59. Studium è altra cosa. [Torna al testo]
  60. Non te, ma voi. [Torna al testo]
  61. Il latino ha sublevare. Mettere in buon riguardo è frase languida. [Torna al testo]
  62. Antiquato. [Torna al testo]
  63. Dunque sa d’argomentazione. [Torna al testo]
  64. Squallore non è tristezza; e tristezza è men di lutto. [Torna al testo]
  65. Tuttavia, soverchio. [Torna al testo]
  66. Ambiguo. [Torna al testo]
  67. Non erit mirandum, qui vale: non paia strano. [Torna al testo]
  68. Ve ne pentirete, dice Metello. [Torna al testo]
  69. Volubile verso, modo non proprio. [Torna al testo]
  70. Storrà dalla repubblica, non è bello. [Torna al testo]
  71. Segnatamente, così, diviso non s’addice a scrittore pagano. [Torna al testo]
  72. Degli scrittori del trecento. [Torna al testo]
  73. Dell’Aldobrandi. [Torna al testo]
  74. Teorica, p. 998, ed. di Milano. [Torna al testo]
  75. Vedi anco le desinenze -esimo e -ismo. [Torna al testo]
  76. Senso simile hanno talvolta le desinenze -eto, -ito, -uto, -otto, -itto, se participii sostantivati. [Torna al testo]
  77. Talvolta denota non la possibilità o la dignità, ma l’atto o stato presente; per l’indivisibilità del possibile dal reale: ma quasi sempre simili desinenze accennano la disposizione al moltiplicarsi degli atti, cioè trasportano all’idea di potenza. -evole, in antico, faceva anco -evile, che s’approssima ad -ebile. [Torna al testo]
  78. Nell’appartenenza comprendesi ogni cosa: pure, per più chiarezza, suddividiamo. [Torna al testo]
  79. Cornacchia da cornicula. Non è diminutivo adesso; ma era. E i verbi in -acchiare sono attenuanti l’azione. [Torna al testo]
  80. Il peggiorativo attenuato, e quasi ingentilito. Dieci vocaboli ammontati non saprebbero dire altrettanto. [Torna al testo]
  81. Le voci disusate indico con carattere diverso; alle forme meno usate prepongo un asterisco. [Torna al testo]
  82. Noto da sé, come varietà di forme diminutive, le desinenze dove qualche lettera è levata o aggiunta alla forma ordinaria. Qui l’ordinaria sarebbe -ella (sommella); o -erella, ch’è più gentile, perché l’e è più leggiero dell’a. Quella tenue varietà porta dunque nel sentimento una differenza sottile, sì, ma notabile. E così dicasi di vanarello e vanarella, che a taluno potrebbe suonare più dispregiativo di vanerello, vanerella. [Torna al testo]
  83. Qui ripeto l’osservazione della nota precedente: ché il comune sarebbe fossella. E così pescello, non già pesciatello. [Torna al testo]
  84. Signora di poca rendita, più ricca di memorie che d’altro. Che sia una specie di diminutivo (sebbene poco rispettoso), lo prova malazzato. [Torna al testo]
  85. Alle forme note in -ello, -etto, -ino, aggiunge agilità e risuonanza la c che rimbalza soave sulla n, e, per così dire, scatta. Aggiungi -cetto, -cino: bocconcetto, cordoncino. [Torna al testo]
  86. Varietà di cerchio, diminutivo anch’esso di circus, padre di circulus. [Torna al testo]
  87. Così pulviscolo, e simili. Aggiungi -coletto, -colino, -coluccio: libercoletto, libercolino, libercoluccio. [Torna al testo]
  88. Auricula. Diminutivo l’attestano sonnecchiare, e simili. Potrei aggiungere cogli esempi dei derivati di vecchio, -ecchiccio, -ecchicciuolo, -ecchino, -ecchiotto, -ecchiuccio, -ecchiarello, -ecchietto; ma altri potrebbe opporre che vecchio non è a noi così diminutivo com’era a’ Latini: onde basti avere accennata quella forma, la quale ha forse altri esempi, che ora non mi vengono a mente; e certo con lo svolgersi della lingua ne avrà. Dico ilsimile di secchiellino e di secchiolina, a’ quali potrebbesi opporre che secchio e secchia non sono diminutivi, sebbene situla paia avere tal forma. [Torna al testo]
  89. I Latini vulpecula. [Torna al testo]
  90. Potrei aggiungere uccellinuzzo, disusato. Ma direbbero che uccello, sebben derivato da avicella, non è nella lingua nostra così evidente diminutivo, com’è nella madre. [Torna al testo]
  91. Quest’-er-, aggiunto, dà leggerezza, ed è come un tenue superlativo al diminutivo. [Torna al testo]
  92.  Da frigidiusculus, tronco come rossigno, raperonzo, e simili; contratto, come freddo da frigidus, come gensore da generosiore. Avrei da notare i sottodiminutivi freschetto, freschettino, frescolino, freschino, frescuccio, frescuccino; ma il cenno basti. [Torna al testo]
  93. Non sarebb’egli quasi lo stesso che auretta come amarezzare e amaricare? Domando. [Torna al testo]
  94. Spiculum da spicum. Che sia diminutivo lo dice nasicchio; ma per generosità non noterò spicchiettino, che pur si dice. [Torna al testo]
  95. Distinguo -icciattola da -iciattola, ch’è altra forma, e può essere meno spregiativa. [Torna al testo]
  96. Potrei aggiungere briccichino, briccicuccia. [Torna al testo]
  97. Pare che corrisponda a micula diminutivo di mica. [Torna al testo]
  98. Fumicante, nericante e simili lo dimostrano diminutivo. [Torna al testo]
  99. Ripeto la voce recata ad esempio d’-attolo, perché triplice in essa è la forma diminutiva: buco farebbe bucatto e bucattolo, se non avesse che le due -atto ed -olo. Ma la -gi- inserta, gli viene dall’uso di bugio. [Torna al testo]
  100. Mutato il c in g, come in gabbia. [Torna al testo]
  101. Dal diminutivo latino articulus. Poi l’artiglio spagnuolo ci regalò il peccadiglio. [Torna al testo]
  102.  Da vermiculus. Potrei aggiungere vermigliuzzo, che nella lingua scritta sarebbe più comportabile di vermiglietto. [Torna al testo]
  103. Culmen: quasi colmignolo. [Torna al testo]
  104. Pupilla è diminutivo di pupa. [Torna al testo]
  105. Come spicchio da spiculum. [Torna al testo]
  106. Da arens. Così diciamo secco, asciutto, adusto. C’è anche spillino. [Torna al testo]
  107. Aggiungasi la desinenza in -ina nel plurale, varietà gentile assai: ossicina, braccina. [Torna al testo]
  108. Ripeto la voce recata a -ellinuzzo, perch’altra non me ne sovviene: non è però men buona la prova, dal più al meno. [Torna al testo]
  109. Desinenza greca; come Basilisco, Regulus ai Latini. [Torna al testo]
  110. Il comune sarebbe ramicello o ramoscello. [Torna al testo]
  111. Corrotto d’-icino: come camisia, e simili. [Torna al testo]
  112. Idiotismo. Quindi cincistiare. E Barbistio, terra toscana. [Torna al testo]
  113. Glomus, glomulus. [Torna al testo]
  114. Varietà d’-iccio. La c trasmutarsi nella z, è notissimo. [Torna al testo]
  115. Pinocchio: dimostrano diminutivo gli affini usati in varii dialetti toscani: pinuolo, pinuoli. [Torna al testo]
  116. Da nodo, nocchio, nocciolo, nocciolino: gli è un diminutivo tergemino. [Torna al testo]
  117. Sull’accrescitivo annestato il diminutivo. Così violoncello. [Torna al testo]
  118. Aggiungi -oncetto, -onciotto: cannoncetto, cannonciotto. [Torna al testo]
  119. Così carbonchio, da carbunculus; centonchio da centunculus. [Torna al testo]
  120. Nome di paese, per Groppoli. Così Capannori per Capannoli. [Torna al testo]
  121. Il comparativo col diminutivo; e s’aggiunga maggiorino, o l’inusitato oggidì, maggiorello. [Torna al testo]
  122. Il comune sarebbe vasello. Aggiungasi vascelIetto e vascellino. [Torna al testo]
  123. Sinc. di can... ucciuolo. Aggiungasi cuccioletto e cucciolino. [Torna al testo]
  124. Risponde a cardello, cardellino, e la forma -er- indica il diminutivo. [Torna al testo]
  125. Quasi cespucuIus, come da acus, acucula; e i nostri aguglia. [Torna al testo]
  126. Per lo scambio delle lettere, l’a-, sia in senso di ad- sia d’ab-, diventa abb-, acc-, add-, aff-, agg-, all-, amm-, ann-, app-, arr-, ass-, att-, avv-, azz-; e il simile, con le varietà debite, dicasi d’altre particelle parecchie. [Torna al testo]
  127. Perché molte particelle s’usano avverbialmente, e gli avverbi acquistano forza di particelle, per questo alcuno di tali avverbi aggiungo alla nota. [Torna al testo]
  128. Rosmini, Note alla vita di san Girolamo, Rovereto 1825. Questo grande ingegno che, ovunque gli fosse piaciuto indirizzare gli studii, v’avrebbe portata alta luce; in quel luogo notava modestamente, la condanna dal Monti, pensatore e filologo leggiero assai, data alla Crusca, dell’avere al vocabolo attribuiti due sensi contrarii, quando non essa ma gli scrittori e l’uso glieli attribuivano. [Torna al testo]
  129. Gram. e Com. di Dante. [Torna al testo]
  130. Scrivo in caratteri greci non tutte le voci derivate dal greco, ma sole quelle che non hanno l’immediato corrispondente latino. [Torna al testo]
  131. Notate che posse è derivato di esse, e pensate all’immensa famiglia d’idee che da questo verbo si genera. [Torna al testo]
  132. Da sto, sisto, padre anch’esso di famiglia ricchissima. I Francesi non hanno più il verbo stare. Oh perché? Ma, quand’e’ non dicevano bienfaisance, erano, se non più, non meno benefici, che quand’ebbero la parola. [Torna al testo]
  133. Aggiungete: amor, anima, ἀρχή, bene, χάρις, caedere, cor, crescere, crux, currere, domus, ducere, fari, fides, finis, flare, fluere, gratia, γράφειν, lex, lux, male, manus, mori, movere, nasci, oculus, parere, pati, pellere, petere, ponere, prehendere, premere, putare, rumpere, sacer, σάος, scandere, scribere, serere, simulare, spirare, tempus, θεός, terra, velle, vis, vivere, vox, e altri siffatti, e in dugento vocaboli circa avrete la chiave delle più tra le idee d’un popolo, e della civiltà di più secoli. [Torna al testo]
  134. «Nuovo Ricoglitore», 1830. [Torna al testo]
  135. Monti, Proposta, vol. I, pag. XXVII, ediz. di Milano. [Torna al testo]
  136. «Diverses expressions ayant passé dans cet ouvrage à la pluralité des voix, non de quarante Académiciens mais de ceux qui étaient présents ce jour là aux assemblées de l’Académie, il est arrivé quelques fois que les autres étaient d’un avis contraire...» Bouhours. [Torna al testo]
  137. «Ho dati sicuri per affermare, che chi volesse raccogliere nel regno di Napoli tutti i nomi e le differenze de’ pesi e delle misure, raccoglierebbe qualche migliaio di voci, molte delle quali hanno più centinaia di significati di diverso valore. Chi poi volesse in tavole comparative registrare le differenze, e il ragguaglio correspettivo di tutti i pesi e di tutte le misure, io penso che più volumi ne verrebbe componendo, e più anni occorrerebbero per apprenderne la nomenclatura ed il valore integrale e differenziale... Quindi confusione e difficoltà d’intendersi in tutti gli affari, nella compra e nella vendita delle minime cose, di quelle delle quali tutti hanno bisogno, ed in tutti i giorni», Matteo de Augustinis, Progresso, 1835. Peggio dunque in Italia che nella China! Ahi terra non mai d’un cuore e d’un labbro! La tua grandezza, del pari che la sventura, è un miracolo. [Torna al testo]
  138. Art. Encyclopédie. [Torna al testo]
  139. Amare; essere, diventare amante; essere innamorato, in amore; innamorarsi; sentir amore, l’amore, dell’amore, un amore, e simili in infinito. [Torna al testo]
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