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Lingue classiche

A che cosa serve lo studio della metrica greca e latina?

La poesia nasce come parola in musica. La conoscenza del ritmo del verso è essenziale per la comprensione del testo poetico. Leggere il testo di una canzone di Lucio Dalla, o il libretto della Bohème, senza aver mai ascoltato l’esecuzione musicale, dà un’impressione completamente diversa, e sicuramente impoverita.

Noi sappiamo che Saffo cantava le sue poesie, e che il teatro greco classico era un complesso spettacolo musicale. Purtroppo la musica greca è irrimediabilmente perduta, a parte scarsissimi frammenti. Di essa resta soltanto una specie di scheletro: la struttura del verso poetico, l’alternanza delle sillabe brevi e lunghe. È un fossile, come la mandibola di un australopiteco. Certamente sarebbe più interessante avere un australopiteco vivo e vegeto; ma in mancanza di questo, dobbiamo accontentarci.

Un discorso a parte va fatto per la metrica latina. I Romani importarono le forme poetiche della tradizione greca, adattandole a un contesto culturale e linguistico completamente diverso. Sicuramente Virgilio non cantava sulla lira i suoi esametri, né Orazio cantava le sue strofe saffiche; anzi, è molto probabile che già ai loro tempi la musica greca dell’età arcaica e classica fosse caduta completamente in disuso. La metrica latina è quindi la copia di un fossile. Tuttavia, questo processo imitativo ha profondamente influenzato la letteratura e la lingua latina; i poeti latini dell’età classica avevano formato il loro gusto sull’imitazione della poesia greca, e per loro scrivere versi significava applicare le regole della metrica greca. Allo stesso modo Dante e Petrarca scrivevano «canzoni» sul modello provenzale, ma non le cantavano, come invece facevano i trovadori.

Noi ora usiamo nelle scuole una pronuncia del latino e del greco (e a maggior ragione del verso poetico latino e greco) convenzionale, arbitraria e diversissima da quella originaria: la brutta copia di una copia di un fossile. Una lettura del tipo:

TI-ty-re-TU-pa-tu-LAE-re-cu-BANS-sub-TEG-mi-ne-FA-gi

avrebbe fatto venire una crisi di nervi al povero Virgilio; invece il buon Omero non si sarebbe scomposto, semplicemente perché non avrebbe assolutamente riconosciuto in questo balbettio un tentativo di riprodurre il ritmo dell’esametro.

In conclusione, lo studio della metrica è indispensabile per la comprensione approfondita di ogni civiltà letteraria; ma è uno studio difficile e specialistico, che, se introdotto prematuramente, e senza un’adeguata motivazione, può provocare una definitiva reazione di rifiuto.

P. S. Termino con una citazione da G. Devoto, a proposito dei rapporti fra l’esamentro greco e quello latino:

Alla base di tutti i problemi di prosodia e di metrica sta una sensibilità per la «quantità» che affonda le sue radici nella preistoria più remota. Tuttavia, distinguere vocali brevi e lunghe non vuol dire ancora stabilire un rapporto costante fra una quantità e l’altra, o anche ammettere la possibilità di vocali iperlunghe. La valutazione prosodica della lunga equivalente a due brevi, che sembra ovvia ai nostri occhi quale è attuata nell’esametro, rappresenta non una situazione primitiva ma una conquista ionica relativamente recente. In tempi più antichi, pur essendo sensibili alla differenza delle due quantità, non era stata ancora raggiunta una formulazione aritmetica: così in Grecia nella metrica eolica, così nei tipi fondamentali della metrica indiana, così e soprattutto nei canti (o gathas) della raccolta dei testi della religione iranica di Zoroastro, l’Avesta.
Per questo problema il confronto col latino è poco istruttivo, perché, per i problemi prosodici e metrici, non siamo in grado di arrivare a una fase anteriore ai primi influssi greci. Difatti, non solo l’esametro latino dipende strettamente da quello greco ma anche il verso latino originario, quello saturnio, contiene fra i suoi elementi costitutivi, elementi greci giunti in Roma agli inizi del V secolo a. C. [La lingua omerica e il dialetto miceneo, pp. 56-57]

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