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Polemiche scolastiche


Didattichese

Sulla Repubblica di lunedì 6 marzo 2000 è stato pubblicato un articolo di Mario Pirani dal titolo Berlinguer ci salvi dal "didattichese".

Ciò che mi ha colpito in quell’articolo non è ciò che si dice sulla situazione della nostra scuola: osservazioni, più o meno condivisibili, che qualunque persona di buon senso e di una certa età potrebbe fare. Dio ci salvi da un nuovo esperto o saggio che parla di cose che conosce solo per sentito dire.

Quello che mi interessa è proprio la denuncia del didattichese.

E non certo perché le parole di Pirani siano nuove o particolarmente illuminanti. Chiunque viva nella scuola conosce fin troppo bene quell’insopportabile gergo, triste retaggio della peggior cultura degli anni ’70, che traduce in strampalate formule burocratiche alcune esperienze educative vecchie e superate. Ma a mia memoria era la prima volta che una simile espressione compariva, e con una certa evidenza, su un giornale a grande tiratura.

Non mi sembra cosa da poco conto. Fra tutti i motivi del disagio manifestato da tempo dagli insegnanti, credo che questo sa non dei minori, ma sicuramente quello meno noto all’opinione pubblica. È il didattichese che dà spirito vitale a quella soffocante cappa burocratica che, dopo aver caricato di inutili adempimenti e di ridondanti organismi di governo la struttura organizzativa della scuola, dilaga nella didattica, pretende di dare indirizzi all’insegnamento vivo, vuole regolare il rapporto quotidiano fra insegnanti e allievi.

Il fastidioso peso di un linguaggio inventato da pretenziosi scribacchini affligge ogni ambito professionale. Ma mentre negli altri settori la lingua è questione puramente formale, nella scuola è sostanziale. La lingua è la vita della scuola, e non solo per gli insegnanti di lettere. Qual è l’insegnante che non dice ai suoi allievi se non ti sai esprimere chiaramente, è perché non hai le idee chiare? Qual è la materia scolastica nella quale non si pone tra le finalità principali quella di insegnare a presentare in modo chiaro, organico, logico, il proprio pensiero e le proprie conoscenze? La questione della lingua a scuola è questione culturale, politica, direi perfino etica. Sì, sì, no, no: il resto viene dal demonio.

Il didattichese vive di una vita propria, slegata completamente dalla vera vita della scuola. Ogni tanto si innamora di qualche parola: fino all’altro ieri era bene tutto quello che era trasversale. Oggi la parola magica è modulo: la didattica modulare, l’orario modulare, le classi divise in moduli, il modulo integrato, il modulo curvato, il modulo passerella. E gli insegnanti a inghiottire, a sbuffare, ad aspettare che passi la nottata.

È una cosa ignobile. È ignobile che la scuola italiana sia amministrata da persone che o non sanno esprimersi in un italiano piano e comprensibile, o deliberatamente adottano un idioma che fa scempio della nostra lingua. Dallo svolazzare di circolari che troviamo ogni mattina ad attenderci a scuola viene un unico, strafottente messaggio: Voi dovete fare questo e quest’altro. Come lo farete, non lo sappiamo neanche noi; ma non ce ne potrebbe fregare di meno: tant’è vero che non ci curiamo neanche di spiegarlo in modo comprensibile.

Dichiariamo guerra al didattichese. Faremo un gran bene alla lingua italiana e alla scuola italiana.

11 marzo 2000

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