[Traduzione in italiano dell’Hymnus in Romam pubblicata dal Pascoli nel 1911]
INNO A ROMA |
Gl’Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome, |
IL NOME MISTERIOSOO ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi,dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo che si riveli, poi ch’è il tempo sacro. Risuoni il nome che nessun profano | |
sapea qual fosse, e solo nei misteri | 5 |
segretamente s’inalzò tra gl’inni: mentre sull’ombra attonita una strana alba appariva, un miro sole, e i cavi cembali intorno si scotean bombendo | |
Amor! oh! l’invincibile in battaglia! | 10 |
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti! oh! tu che corri l’infinito mare! Vennero in prima schiere a te, per l’onde, d’esuli armati, ed una stella d’oro | |
reggea le navi incerte del cammino; | 15 |
a te noi genti italiche la stella d’allora tra le fiamme e tra le morti col raggio addusse che giammai non muta. IL PRIMO EROEChi per te primo, immensamente amata, | |
cercò la morte? Fu nella penombra | 20 |
dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto. L’eroe Pallante era caduto. Offerse | |
l’àlbatro il bianco de’ suoi fiori, il rosso delle sue bacche e le immortali fronde. | |
Gli fu tessuto il letto di quei rami | 25 |
de’ tre colori, e furono compagni mille al fanciullo nel ritorno a casa. E fisi in quella bara tricolore i mille eroi con le possenti mani | |
premean le spade; ed era in esse il fato. | 30 |
Oh! ma che pianto fu cosí tornando al vecchio padre! Era suo padre un vecchio povero re, dalla silvestra reggia. Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi | |
del Palatino, tra le antiche selve | 35 |
misteriose. E tu non eri, o Roma. Anzi per il rupestre Campidoglio eran macerie già muscose, e bianchi ruderi sparsi si vedean tra i folti | |
cespugli del Gianicolo: rovine | 40 |
di due città vinte dal tempo; ed ora quelle rovine trite e sonnolente empiva a volte del suo rauco augurio lo stuol de’ corvi. E Fauno avea per reggia | |
una capanna piccola, coperta | 45 |
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia avea due cani, che correndo innanzi bandían, lieti abbaiando, il suo ritorno. Al re non tromba dividea la notte | |
buia in vigilie: gli diceva È l’alba | 50 |
di sul colmigno il passero, e la rondine, anche piú presso, gliel garría dal trave. E quindi il tempo portò via quel Fauno e il suo dolore, e la caduca reggia; | |
e sul Palazio ignare le giovenche | 55 |
pascevano, e la valle posta al piede si mescolava d’un belar d’agnelli. E se il pastore aveva udito un qualche urlo di lupi, egli, racchiuso il gregge | |
in uno speco, s’addormía tranquillo. | 60 |
Veniva allora, per le tenebre, una lupa, e fiutava il chiuso lupercale. E Fauno, il buono, nelle selve ombrose cantava il canto delle foglie ai venti, | |
invisibile. E sulle antiche quercie | 65 |
picchierellando senza fine il picchio sacro contava gli anni tanti, gli anni tardi a venire. LUPI ED AQUILEAprile, che s’aprivail fiore, venne, e il Tevere piú gonfio | |
portava l’onde con un grande rombo: | 70 |
e d’ogni parte sulle piane e i colli arsero fuochi nella notte sacra. Tutto splendé. Fiamme correva il fiume. Però che, intorno, alle selvaggio stanze | |
fuoco i pastori davano, mutando | 75 |
già le capanne, d’erbe e frasche, in case. E poi, saltando sulle fiamme, un canto diceano, sacro: «Fuoco puro, Fuoco grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi, | |
portati via queste capanne, portati | 80 |
via questi nidi! Noi non siamo uccelli, lupi noi siamo. Addio, cose d’un’ora! Siamo per fare una città ch’eterna duri, ed un proprio focolare, in mezzo, | |
sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!» | 85 |
Ed una torma giovanil piú fiera diceva: «Oh! bello andare al vento! È bella È l’ora che fugge, e sempre un altro il sole! La terra sempre nuova sotto quelle | |
antiche stelle! Voi da voi ponete | 90 |
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava: sia senza fine a noi la via, la terra senza confine! Lupi, sí; ma ora... dateci l’ale, o aquile!» L’ARATOREUno arava. | |
Egli segnava, sull’aurora, un solco | 95 |
quadrato intorno al colle Palatino. Sentian le zolle il primo aratro allora. E sotto il giogo era una vacca bianca e un rosso toro, che di quando in quando | |
il rauco fiato si gemean sul collo, | 100 |
molto anelando. E la città futura stava e mirava, coi vincastri in mano e con indosso pelli irte di capre. Ma gli altri fieri, a chi piacea l’andare | |
col gregge errante, e l’erba che piú bella | 105 |
rinasce sempre sotto il dente al gregge, ridean dei semi che dovean sotterra marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi aveano gli occhi, e l’ansito ondeggiante. | |
Stava il fratello, qua, del Capo, anch’esso, | 110 |
con lui, lattonzo della lupa; ed ora schifiva, lui villano, egli pastore. Taciti i buoi tiravano nel cupo tacer di tutti; che fuggiano il grande | |
bifolco orrendo ch’era loro a tergo. | 115 |
E qui, con l’ale largamente aperte al sole, apparve un’aquila, che ferma mirava a lungo quel lavoro in terra. Poi, fisa sempre, s’affondò nel cielo. LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE | |
Il pazïente aratro col suo coltro, | 120 |
allora, piú splendente della spada, prendeva a forza, con ferite a fondo, la terra; e il Tebro che lambiva il colle con l’acque torbe, vie piú alto un suono | |
mettea chiamando l’anima dei forti: | 125 |
«Oh! voi, che aprite con un rostro adunco la terra, omai la prora che toglieste alla mia nave, a lei rendete, o figli; ed ora in me, con quella ch’è il mio coltro, | |
segnate un lungo solco sino al mare, | 130 |
sino al gran mare, azzurro e piano; e oltre! Bene avverrà!» Cosí diceva il Tebro con l’incessante murmure; ma il vento di primavera dal lontano lido, | |
sempre piú forte, le narici aperte | 135 |
a lor bagnando de’ suoi salsi spruzzi, «Oh! voi che fate una città pastori,» diceva «eccovi l’atrio, ecco le porte color di cielo, e il limitar che tuona | |
sparso di schiuma dalle larghe ondate. | 140 |
O cittadini, ecco la via già fatta, labile, piana, e ne son pietre i flutti. Dall’urbe uscite: avanti voi c’è l’orbe!» Allor li prese un vago amor dell’onde | |
che sempre vanno a modo de’ pastori; | 145 |
di sempre andare e pascolare il mondo.
LA RISSAPales, o grande e buona Iddia, di latte,munto d’allora, ti facean l’offerta. Nella città non nata la giovenca | |
cimava steli e fiori; a lunghi sorsi | 150 |
beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto suona di grida. Rissano i pastori proprio nel solco, un passo dall’aratro, che riposava. Gli uni avean lo spiedo | |
da caccia, gli altri aveano l’ascia in mano. | 155 |
Questi già pietre, qua e là, da terra traean tagliando e scalpellando; e quelli piangean la terra duramente offesa. «Non era assai picchiarla con la zappa, | |
fenderla poi col vomere! Ecco, l’ossa | 160 |
vogliono ancora frangere alla madre!» Vennero all’armi, e l’ascia del lavoro sentí la morte, e tu nell’aria rosa tremavi, o stella d’oro della sera, | |
vedendo in cielo nuvole suffuse | 165 |
del sangue ch’era sparso in terra.L’ASCIARomapurificata balzò su dal solco rosso di sangue, che alla Terra Madre consacrò l’ascia onde l’avea ferita, | |
onde l’avrebbe per le genti tutte | 170 |
ferita ancora. O ascia, in ogni plaga ti dedicò, per questa grande Italia, ti seminò, ti sotterrò nel mondo. Tu sotto i templi e sotto l’are e sotto | |
gli anfiteatri semiruinati | 175 |
ti trovi e sotto l’ardue terme, infrante presso le nubi. Te nel cor le sponde sentirono del Reno e del Danubio, t’ebbero le foreste invïolate | |
e le sabbie arse che il leon sue rugge. | 180 |
Tu sei presso le moli, ove sepolti sono i giganti; sotto gli occhi fissi eternamente della muta Sfinge; tu sotto accampamenti che nessuno | |
piú troverà. Tu scalpellasti i massi | 185 |
per le infinite pompe del trionfo. E per te l’Arco trionfal si prese l’arco del cielo, e sulle vie la Gloria aprí tra due colonne le sue porte senza battenti. LE STRADE | |
Era vicino al tempio | 190 |
del dio Saturno, dio seminatore e falciatore, un grande cippo, d’oro. Di lí per l’orbe tutto lanciò Roma le strade sue di duro sasso e duro | |
suono. Di lí, dal cippo d’oro, sette | 195 |
vie quattro volte si lanciarono oltre, ai quattro venti, e prima tra sepolcri moveano, a piè di tumuli e cipressi, sotto la tacita ombra funerale; | |
poi via per verdi campi e per deserti | 200 |
diritte come solchi, e via tra rupi tagliate da scalpelli, e via per selve profonde, mute, solo allor ferite dal ferro ignoto, e via sopra veloci | |
fiumi aggiogati con eterni ponti, | 205 |
e via per l’Alpi, che vincean con giri blandi, le irate. Da quel sasso, a forza ruppero un tempo tante vie sul mondo. Parea che un luminoso Sagittario | |
via via volgesse a tutti i venti il grande | 210 |
arco fatale, e saettasse intorno intorno, stante nel bel mezzo, il cielo. LA LEGIONELe dure suole e i cerchi delle ruotefecero i solchi in queste vie, battute | |
dalle coorti che movean, le insegne | 215 |
contro i terrestri. Andavano, e la schiera villesca alzava per insegna un fascio d’erba. Prima la falce e poi la spada. Mai non mancava fra le spighe il rosso | |
di qualche fiore. Fissa, poi, sull’asta | 220 |
era una mano, ch’è una pianta sola con piú rampolli. Della via fu guida poscia la lupa; e si vedean passare cignali e smisurati liofanti. | |
E fausta, infine, di tra un baglior d’oro | 225 |
l’aquila uscí: le ignare terre e l’onde remote corse un brivido ed un fremito al ventilare delle sue grandi ale. E le legioni col lor pilo grave | |
per quelle vie senza la meta e il fine, | 230 |
mossero intorno. Ed assembrava allora tutte le genti e i popoli l’antica búccina, che al pastore fuor di mano sul far di notte avea mandato un segno. | |
E dominava sotto giusto impero, | 235 |
tutti, il sottile tralcio d’una vite.
I MESSAGGERIAlle battaglie, in mezzo ad una nube,eran presenti i due gemelli Dei. E niuno mai li vide; ma soltanto | |
tra squilli gravi delle trombe, acuti | 240 |
de’ litui, e grida ed ansimar feroce, s’udiano al vento alti selvaggi ringhi. L’uno era chiaro come l’aureo sole; l’altro parea la notte opaca, ed era | |
avviluppato in ombra di dolore. | 245 |
Ivano a paro avanti le coorti di bronzo, i forti giovinetti in fiore, erti su gl’immortali lor cavalli. Ma in mezzo al mare, quando sulle lievi | |
liburne erano le aquile, ondeggianti | 250 |
per la fortuna, e l’armi contro l’armi cozzanti, allora divenian due stelle, che rifulgeano fisse tra il brandire degli alberi e l’oscillar delle antenne. | |
Erano questi i tuoi corrieri, al cenno | 255 |
pronti, o Vittoria. All’apparir del vespro, volgean del pari il corso de’ cavalli, e per le strade andava il colpo e il tonfo dei risonanti zoccoli; e i cavalli, | |
ecco, anelanti, essi adduceano all’acqua: | 260 |
o dea Iuturna, all’acqua tua perenne: né già cadean le stelle né le nubi dalla prima alba erano ancora orlate. Vegliava un solo focolare in Roma, | |
v’era una sola casa, che mandasse | 265 |
baglior di luce dalle sue transenne. Vesta attendeva i reduci seduta al fuoco inestinguibile. I DUE GEMELLIFratelli!O in pace alfine (come voi chiamasse | |
il tempo antico) ora; non già, fratelli, | 270 |
allora, anche pugnaci sotto il ventre della nutrice vostra lupa fosca: tante pendean le poppe, e tra voi d’una sorgea contesa, per averla entrambi: | |
voi che la lupa con la scabra lingua | 275 |
non ammansava, ed ammansò la morte: che stretti poi con infrangibil patto, come la notte è giunta al dí, celesti cavalcatori, componete il tempo, | |
non interrotto, con la luce e l’ombra; | 280 |
su! le criniere v’attorcete in mano, saltate su, lanciateli: da tanto hanno i cavalli l’émpito nel cuore! Al lor ritorno avvinti per le briglie | |
alle colonne vostre, dagli augusti | 285 |
ruderi il loglio antico pasceranno. Ma ora andate a rivedere i campi delle legioni, a riveder le terre onde v’avvenne riportare il nunzio | |
della vittoria. Si combatte ancora | 290 |
con ferro e fuoco. Sono le coorti d’allora; al cielo va la polvere, alto suona il fragore. Colmano bassure, piantano i valli, sfanno i colli, occulte | |
forano vie per entro le montagne. | 295 |
Sono picconi l’armi nostre. Andate propiziando! il Popolo pilumno pensi i trionfi che menò, le leggi che fece, il dritto che impartí, la pace | |
che diede e allievi il suo lungo lavoro | 300 |
d’oggi con la sua gloria veterana.
LA VERGINE MASSIMAOra ascoltando le sorsate al fontesacro, e il bussar dell’unghie alterne in terra, nel tempio augusto pallida taceva, | |
fisa con gli occhi, la sacerdotessa; | 305 |
poi, nell’alto silenzio risonando una voce mirabile: Vittoria! ella premea nel cuore quella voce e quel portento e s’avviava all’arce | |
del Campidoglio. E il popolo mirava | 310 |
tacitamente ascendere il pontefice e la vergine massima. IL PASSO DI ROMADivinacosí con passo sempre ugual, di gloria, andava Roma verso il grande imperio. | |
E monti e valli e fiumi e selve al passo | 315 |
fremean sonanti sotto il piè di Roma, della Immortale sempre piú lontana. E mille passi delle sue legioni fulgureggianti di metallo al sole, | |
ella chiudeva in uno dei suoi passi. | 320 |
Ed una pietra ne segnava l’orma tutte le volte, e i popoli, a quell’orme cosi distanti, abbrividian nel cuore. I DUE IMPERATORIOh! ben temeano i popoli le scuri. | |
Che per il mondo si vedea passare | 325 |
un uomo grande piú che l’uomo, un grande che dava a tutto, il freno o l’urto, ei solo, della sua mano. Egli partía la terra con la sua spada e il cielo col suo lituo, | |
augure circondato dalle rote | 330 |
degli avvoltoi. Lanciava egli all’assalto con un suo cenno l’aquile, e le lievi turme al galoppo, e l’ululo di morte ravvolto nella polvere veloce. | |
Eppur mostrava placido alle genti | 335 |
placate il volto, e calmo i cavalloni, ancora irati dopo la tempesta, con quella mano che impugnò la spada, calmava, e dal belligero cavallo | |
dicea le leggi e l’arti della pace. | 340 |
Salve, o possente Roma! Tu le terre hai dissodate col tuo duro coltro; la macchia hai franta perché desse il grano placido. Il grande imperio era il tuo fato. | |
Quando a te fu dagli ampi omeri tolta | 345 |
la porpora, ecco il re de’ sacrifizi uscí da templi novi e da miti are. E poi levò di terra la corona e ne cinse la lunga chioma bionda | |
d’un re che avea la fràmea per lancia; | 350 |
e poi, volgendo i secoli, battaglia mosse, egli re dei riti, al re dell’armi. E tempo venne che dall’alto soglio, con la corona sulla fronte eretta, | |
con nella mano la stellante spada | 355 |
(stettero i messi attoniti nell’aula, e reprimeano i secoli la corsa infrenabile, come visto un cenno rapido di far sosta e di dar volta), | |
«Che domandate?» addimandò. «Ciò ch’egli, | 360 |
il vostro re, domanda, è mio. Son io il Cesare, son io l’Imperatore! Andate!» E il re sacrífico si prese i fasci albani; e l’ara vide al lume | |
dei sacri ceri scintillar le scuri. | 365 |
Fu la tua parte. Era il tuo fato, o Roma. | |
a darti inizio; e i profughi tu sempre | 370 |
prendesti a bordo della tua gran nave. Tu sei, d’antico, un santo limitare d’asilo ai popoli esuli, tu sacra fossa cavata, in cui le genti i semi | |
posero, e zolle della patria, e cose | 375 |
sacre, e le lor memorie ed i lor Mani. Fosti l’altare per gl’iddii fuggiaschi; pur solo ad uno implacida, ad un solo, povero, un dio sí umilmente dio! | |
Altri alla luce aperta gli stranieri | 380 |
numi adorando, i lore pingui altari facean vermigli di taurino sangue; altri in cortei, per la città, solenni, batteano i cupi timpani e le strade | |
tutte accendean di queruli ululati. | 385 |
Ma quelli per le volte e per le ambagi d’un nero sotterraneo laberinto seguivano una fiaccola, e con voce segreta, là, benedicean cantando, | |
ignoti a tutti, il loro ignoto Dio. | 390 |
Per tempio avean, per i lucenti altari di Roma, alcun muffito sepolcreto, e la lor vita era coi lor sepolti. Avanti l’arche, fiale rugginose | |
di sangue, e lumi dall’esigua fiamma. | 395 |
Dicea quel lume che la vita scorsa era col sangue, sí, ma invano. Il morto dormiva. E il sonno era leggero e breve. Una colomba col suo roseo becco | |
svellea da un canto un ramicel d’ulivo, | 400 |
e si levava, con la frasca, a volo. Ed un pastore s’era messo in collo l’agnello stanco, e andava con la verga sua pastorale e col secchiello in mano. | |
C’era la croce, e dubbio era, se croce | 405 |
fosse od àncora. Sbalzata dal vento, percossa dalla folgore, la nave era al sicuro, alfine in pace: aveva gettata l’àncora nel cielo. LE FAVISSE | |
Intanto, quali in una torba sera | 410 |
fuggon le nubi d’ogni parte e vanno, gemendo, spinte qua e là dai venti, tali gli dei cacciati dai lor templi empían notturni il cielo di querele. | |
E di quei templi l’umide cisterne, | 415 |
sin le favisse sotto il Campidoglio, fervean d’un cupo murmure. Che i molti idoli sacri, l’uno dopo l’altro, vi discendeano. E Venere, la vita, | |
vedea la prima volta ora i vetusti | 420 |
lupi e cignali, e là pur mo’ gettata schifía Minerva i rozzi cippi e il vano dio, ch’era un legno putrido, ed ansante non ravvisava, nel Mamurio irsuto, | |
Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo | 425 |
dell’arce, dietro gli altri dei consenti, Giove pieno di nubi il sopracciglio. «O già potenti in cielo, sulla terra, nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo | |
altri dal soglio, ed altri noi discaccia. | 430 |
Ma non è vano l’aspettar vicenda. Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro cuore, fuggiasco povero deforme il cui soglio è la croce, ed il cui serto | |
sono le spine dei roveti...» Ed altro | 435 |
egli diceva, ma seguí con voce piena d’orrore la Carmenta antica vaticinante, a nessun dio piú nota, ch’ella da molti secoli nell’ombra | |
era discesa, tutta rughe e muffa: | 440 |
«...non cadrà piú, poi ch’è il dolore umano! Gli uomini eretto i templi hanno al dolore! il dio sol esso, il solo dio fra tutti, che non può mai morire!» L’ESECRAZIONE | |
Cadean gli dei; restava il Campidoglio, | 445 |
inviolato; e immobile la rupe pendea sull’urbe. E il Barbaro selvaggio invase l’urbe, e la guastò col ferro e con la fiamma, e l’unghia de’ cavalli, | |
grave, pestò le sue ceneri: invano. | 450 |
Fin ch’un di loro decretò che lento mortal languore la struggesse. Vinta, egli poteva anche spianarla al suolo. «Ma no» diss’egli: «la sommuova il verno, | |
la inondino le pioggie, e disdegnando | 455 |
da sé la scuota e gitti via la terra: la frangano le folgori tonanti: sia sacra a Dio, precipitino i cieli sulla lor cosa.» Tanto ei volle, e tutti | |
al suo comando, partono, e le madri | 460 |
sono strappate all’are, ed i fanciulli vanno e le indarno verginette in fiore. Poi, per le vie del duro suono, i plaustri Goti e i cavalli e le Àmale coorti, | |
piene di preda, andarono sull’orme | 465 |
degli antichi manipoli, e lontano il vincitore in sua lorica d’oro svaní lasciando gli edifici soli, già balenanti, già meditabondi | |
tra sé e sé, del crollo ultimo, e Roma, | 470 |
Roma, sotto il suo sole almo, deserta.
IL GRANDE SEPOLCROE fu silenzio dentro le muragliesacre, e il pomerio grande ora cingeva grande un sepolcro. E il sole che la vide | |
tacita, a poco a poco calò, lento | 475 |
sfiorando con un alito di luce le cupole e i lunghissimi obelischi; e poi nel trarre fuori il dí, tentando invano di svegliarla dal gran sonno, | |
stupiva di vederla altra e la stessa. | 480 |
Suono non v’era se non d’improvviso crollo di muro o il tonfo di finestre, cui si provava di serrare il vento. Talvolta andando e riandando i corvi, | |
gracchianti, a stormo, quel letargo strano | 485 |
scotean, nell’ira, d’uomini e di cose. E molti discendean dall’Aventino foschi avvoltoi, che ripetean l’augurio natale, in alto, sulla città morta. | |
E poi notturna i cuccioli la volpe | 490 |
guidava, e le basiliche del Foro cauta girava e le colonne antiche. E dopo i lunghi secoli le lupe del tempo primo vennero, cercando | |
gli antri per l’alte sedi imperiali. | 495 |
Parean, destati dal lor sonno i templi, aperti stare, stare ed aspettare i sacerdoti immemori. Giaceva, abbandonata per i sette monti, | |
Roma. E le acquate assidue la battono | 500 |
e le raffiche rapide del vento, e la fiammante folgore del cielo ormai fa divampare il rogo. IL NOME CELESTEAprileera vicino, era, con lui, vicino | |
il dí natale della città morta. | 505 |
E di narcIssi dalla chioma d’oro, di crochi dagli stami d’oro rise la solitudine, e dalle rovine dei templi il rosso smílace comparve; | |
e le vïole al fonte di Iuturna, | 510 |
caste, s’abbeveravano, e gli sparsi ruderi si gremíano di giacinti; e tutti i bronchi e pruni aspri, nel Foro Romano, in cima avevano una rosa, | |
e sopra i marmi antichi era l’antica | 515 |
porpora. Per nessuno, dal sepolcro, dal suo sepolcro, ch’era anch’esso infranto, spargea, versava senza fine al cielo, nel tempo dolce ch’è il suo tempo, i fiori | |
che sono suoi, quella che in cielo è Flora. | 520 |
A FLORAFlora! madre dei fiori, o tu cui sempreè primavera, o tu che per le genti immense hai sparso il nuvolo dei semi, la Terra aiuta! Questa pia saturnia | |
terra produca in maggior copia i frutti | 525 |
che già versava dal fecondo grembo. Nutra di sé quelli che già nutriva, armenti e greggi, e tornino gli uccelli, ormai spariti, a liberare i campi, | |
e per i campi floridi echeggiare | 530 |
facciano la dolcezza del lor canto. Alle mammelle opime della Terra sugga una prole piú gagliarda il latte e insiem col latte la virtú romana; | |
ed ogni mare solchi ed ogni terra | 535 |
calchi, anche il cielo navighi, sembrando candidi stormi di canori cigni. La tua città non lasciar piú che cinta sia di deserti e verdi acque muggenti | |
del torvo bue selvaggio che vi guazza. | 540 |
Riguarda quei villaggi di capanne, quelle capanne squallide di stoppia, o Flora! Dunque non distrusse il fuoco de’ primi dí tutti i tuguri? Dunque | |
non toccò tutti gli uomini il Diritto | 545 |
con la sua verga? Guarda: sono schiavi, sotto le bestie! Rendi a quei meschini, o Flora, il suo; liberatrice abbraccia quelli spogliati; e per sé solo, o Flora, | |
raccolga chi le seminò, le messi, | 550 |
come allorquando si lasciava a mezzo solco l’aratro e s’assumeano i fasci. Rinnova l’arte antica, cingi al capo l’antico serto e fa che mai non cada | |
l’inno di gloria che beò l’Italia. | 555 |
Sian, per i colli, glauchi olivi e verdi viti, e di spighe rigogliose ondeggi la valle immensa. E fiacchino la forza del vento e il nembo struggitor le selve | |
veglianti a guardia sul cigliar dei monti. | 560 |
Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira enormi tori. Egli che vede andare per la campagna tante paia e vede da dieci bovi tratto un solo aratro, | |
egli che già non obliò nel sonno | 565 |
le bronzee file della forte Alauda, pensa all’imperio, a Cesare, ai trionfi. Noi non l’imperio, non i cortei lunghi di quei trionfi a te chiediamo. Un’Ara | |
abbiamo, e noi, di Pace, eretta, o Flora. | 570 |
I fiori dà color di sangue ogni anno (solo nei fiori tu il color di sangue lodi e nel casto viso di fanciulle: miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue), | |
dà le memori foglie dell’acanto | 575 |
per adornar quest’ara. Alto nel mezzo noi collocammo in una vampa d’oro chi la portò, questa concordia augusta. E quanti ancora col lor sangue, eccelsi | |
spiriti, questa pace e questa patria | 580 |
fecero a noi, là stanno. E sono, o Flora, la messe tua che cade sí, ma sempre nuova nei lunghi secoli germoglia. IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORICerto è che vive in questa terra occulto | |
qualche portento, e sí, nel monte, dove | 585 |
Roma quadrata germinò dal solco. Pastori un tempo (luce ed ombra incerte vi si spargean sotto la falce d’oro) erano là coi rastri. Era la gloria | |
vanita già di Roma, era d’Apollo | 590 |
sparito il tempio. Tutto il sacro colle tenean le infrante vecchie pietre ingombro. Cespi d’acanto, nuove polle uscenti da qualche ceppa d’albero che appena | |
sapea sé stesso s’opponeano al piede. | 595 |
Giacean rottami candidi di marmo tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo i capitelli ai cardi ispidi e duri. Muri con archi, cui copriva il musco, | |
pendean crollanti, si scoteano al vento | 600 |
ad ogni crepa le parietarie come ciarpame pendulo a finestre d’un abituro. Qua le acquate al tutto finían gli dei dipinti nella calce, | |
qua le ventate stridule uno straccio | 605 |
sempre rapían da tende non piú fisse. Scabbia di pietre, lue di sassi verdi per tutto, ed archi che teneano ancora sol per l’abbraccio d’edere contorte. | |
Credean gl’ignari di veder spelonche | 610 |
di giganti che dopo un’ardua rissa con massi enormi, ora, cocendo l’ira, lontani e soli errassero sui monti. IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROEEd i pastori, come un tempo, in cerca | |
di preda, una spelonca aprono, un sasso | 615 |
movendo, immenso, e vedono nel fondo della spelonca balenare un lume. E quindi era un sepolcro gigantesche membra d’un uomo vedono, che il petto | |
aveva aperto da una lunga piaga. | 620 |
Stupor li prese di quel corpo cinto d’armi cangianti, di quel capo ignoto dentro l’irsuta gàlea. Ché tutte l’arme egli avea, fuor della spada, e il petto | |
non gli cingeva il balteo d’oro, vario | 625 |
di spesse borchie. Sull’ignoto capo, alto, vegliava un fuoco e gli sfiorava l’antica piaga con l’assidua fiamma. Un dei pastori, simile ad un Fauno, | |
vide fra tanto impallidire il cielo, | 630 |
languire insiem le tenebre e le stelle.
LA LAMPADA INESTINGUIBILEOgni maceria gorgheggiava. I nidis’erano desti delle rondinelle in fila sotto i capitelli neri. | |
E si vedean le macchie, e tremolando | 635 |
splendean le cime delle selve, e i pini alti sopra la vetta Pallantea. Ed il pastore trasse fuori all’alba la lampada e l’oppose al mattutino | |
vento. E il suo lume si sbatté, ma visse. | 640 |
E vi soffiò con le selvaggie labbra, e la tuffò nell’acqua d’una pozza; ma il lume visse. Ed e’ la rese ardente al suo sepolcro e l’appendé dov’era, | |
e col suo masso chiuse la spelonca. | 645 |
Dove ancor pende e raggia ancor la luce su te, giovine eroe primo, che fosti di tanta gloria e tanta lotta e tanto dolore e amore la primizia santa. | |
Son tre millenni ch’ella dal sepolcro | 650 |
veglia su Roma con l’eterna luce.
A ROMA ETERNASpirito eterno, eterna forza, o Roma!Dopo il gran sangue, dopo l’oblío lungo, e il fragor fiero e il pallido silenzio, | |
e tanti crolli e tante fiamme accese | 655 |
da tutti i venti, tu col piè calcando le tue ceneri, tu le tue macerie, sempre piú alta, celebri il piú grande dei tuoi trionfi; che la morte hai vinta. | |
Tu in faccia a tutti i popoli che a parte | 660 |
chiamasti del tuo dritto, ora apparisci nel primo fior di giovinezza ancora, meravigliosa, simile a Pallate, difesa intorno dal fulgor dell’armi, | |
e con la spada; e pende sopra il mondo | 665 |
quella al cui lume accesero le genti tutte il lor lume, quella che a noi rompe l’ombra: o Roma possente, la possente tua piú che il tempo lampada di vita. Trad. GIOVANNI PASCOLI |
v. 1. Sui tre nomi di Roma cfr. Gregorovius I, pag. 453; Graf, Roma nel Medio Evo I, pag. 13 [vedi anche la nota al v. 131 del poemetto Post occasum urbis, parte I (Solitudo)].
v. 10 sg. Cfr. Sofocle, Antigone 781, 785.
v. 22 sgg. Il letto funebre di Pallante fu intessuto arbuteis virgis: cfr. Virgilio, Eneide XI 65, e in generale tutto il passo.
v. 166 sgg. Sull’ascia vedi l’art. di G. Boni in Nuova Antologia, 16 aprile 1911, pag. 21.
v. 350. Frameati da framea: Tacito, Germania 6.
v. 416. Chiamavano favisae i luoghi intorno ai templi, in cui vi era acqua stagnante. Altri credono che le favisae fossero una sorta di cisterne o cantine nel Campidoglio, e che vi si riponessero gli oggetti sacri resi inutilizzabili dal tempo (Festo p. 78 Lindsay).
vv. 454 sgg. Su Roma abbandonata cfr. Gregorovius I, pag. 306, 309.
v. 614 sgg. Sul sepolcro di Pallante cfr. Guglielmo di Malmesbury (Migne, CLXXIX p. 1191), 357.