Martedì 14 settembre 1999    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

[Traduzione in italiano dell’Hymnus in Romam pubblicata dal Pascoli nel 1911]

INNO A ROMA

Gl’Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome,
Roma, ti serbano: Roma era ne’ secoli, ed è.  
IL NOME MISTERIOSO
O – ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi,
dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch’è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri5
segretamente s’inalzò tra gl’inni:
mentre sull’ombra attonita una strana
alba appariva, un miro sole, e i cavi
cembali intorno si scotean bombendo –
Amor! oh! l’invincibile in battaglia! 10
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l’infinito mare!
Vennero in prima schiere a te, per l’onde,
d’esuli armati, ed una stella d’oro
reggea le navi incerte del cammino;15
a te noi genti italiche la stella
d’allora tra le fiamme e tra le morti
col raggio addusse che giammai non muta.
IL PRIMO EROE
     Chi per te primo, immensamente amata,
cercò la morte? Fu nella penombra20
dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.
L’eroe Pallante era caduto. Offerse
l’àlbatro il bianco de’ suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali fronde.
Gli fu tessuto il letto di quei rami25
de’ tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.30
Oh! ma che pianto fu cosí tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero re, dalla silvestra reggia.
Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
del Palatino, tra le antiche selve35
misteriose. E tu non eri, o Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscose, e bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine40
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de’ corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccola, coperta45
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due cani, che correndo innanzi
bandían, lieti abbaiando, il suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva – È l’alba –50
di sul colmigno il passero, e la rondine,
anche piú presso, gliel garría dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo dolore, e la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche55
pascevano, e la valle posta al piede
si mescolava d’un belar d’agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupi, egli, racchiuso il gregge
in uno speco, s’addormía tranquillo.60
Veniva allora, per le tenebre, una
lupa, e fiutava il chiuso lupercale.
E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti,
invisibile. E sulle antiche quercie65
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tanti, gli anni
tardi a venire.
LUPI ED AQUILE
                    Aprile, che s’apriva
il fiore, venne, e il Tevere piú gonfio
portava l’onde con un grande rombo:70
e d’ogni parte sulle piane e i colli
arsero fuochi nella notte sacra.
Tutto splendé. Fiamme correva il fiume.
Però che, intorno, alle selvaggio stanze
fuoco i pastori davano, mutando75
già le capanne, d’erbe e frasche, in case.
E poi, saltando sulle fiamme, un canto
diceano, sacro: «Fuoco puro, Fuoco
grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi,
portati via queste capanne, portati80
via questi nidi! Noi non siamo uccelli,
lupi noi siamo. Addio, cose d’un’ora!
Siamo per fare una città ch’eterna
duri, ed un proprio focolare, in mezzo,
sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!»85
Ed una torma giovanil piú fiera
diceva: «Oh! bello andare al vento! È bella
È l’ora che fugge, e sempre un altro il sole!
La terra sempre nuova sotto quelle
antiche stelle! Voi da voi ponete90
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
sia senza fine a noi la via, la terra
senza confine! Lupi, sí; ma ora...
dateci l’ale, o aquile!»
L’ARATORE
                                   Uno arava.
Egli segnava, sull’aurora, un solco95
quadrato intorno al colle Palatino.
Sentian le zolle il primo aratro allora.
E sotto il giogo era una vacca bianca
e un rosso toro, che di quando in quando
il rauco fiato si gemean sul collo,100
molto anelando. E la città futura
stava e mirava, coi vincastri in mano
e con indosso pelli irte di capre.
Ma gli altri fieri, a chi piacea l’andare
col gregge errante, e l’erba che piú bella105
rinasce sempre sotto il dente al gregge,
ridean dei semi che dovean sotterra
marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
aveano gli occhi, e l’ansito ondeggiante.
Stava il fratello, qua, del Capo, anch’esso,110
con lui, lattonzo della lupa; ed ora
schifiva, lui villano, egli pastore.
Taciti i buoi tiravano nel cupo
tacer di tutti; che fuggiano il grande
bifolco orrendo ch’era loro a tergo.115
E qui, con l’ale largamente aperte
al sole, apparve un’aquila, che ferma
mirava a lungo quel lavoro in terra.
Poi, fisa sempre, s’affondò nel cielo.
LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE
     Il pazïente aratro col suo coltro,120
allora, piú splendente della spada,
prendeva a forza, con ferite a fondo,
la terra; e il Tebro che lambiva il colle
con l’acque torbe, vie piú alto un suono
mettea chiamando l’anima dei forti:125
«Oh! voi, che aprite con un rostro adunco
la terra, omai la prora che toglieste
alla mia nave, a lei rendete, o figli;
ed ora in me, con quella ch’è il mio coltro,
segnate un lungo solco sino al mare,130
sino al gran mare, azzurro e piano; e oltre!
Bene avverrà!» Cosí diceva il Tebro
con l’incessante murmure; ma il vento
di primavera dal lontano lido,
sempre piú forte, le narici aperte135
a lor bagnando de’ suoi salsi spruzzi,
«Oh! voi che fate una città pastori,»
diceva «eccovi l’atrio, ecco le porte
color di cielo, e il limitar che tuona
sparso di schiuma dalle larghe ondate.140
O cittadini, ecco la via già fatta,
labile, piana, e ne son pietre i flutti.
Dall’urbe uscite: avanti voi c’è l’orbe!»
Allor li prese un vago amor dell’onde
che sempre vanno a modo de’ pastori;145
di sempre andare e pascolare il mondo.
LA RISSA
     Pales, o grande e buona Iddia, di latte,
munto d’allora, ti facean l’offerta.
Nella città non nata la giovenca
cimava steli e fiori; a lunghi sorsi150
beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto
suona di grida. Rissano i pastori
proprio nel solco, un passo dall’aratro,
che riposava. Gli uni avean lo spiedo
da caccia, gli altri aveano l’ascia in mano.155
Questi già pietre, qua e là, da terra
traean tagliando e scalpellando; e quelli
piangean la terra duramente offesa.
«Non era assai picchiarla con la zappa,
fenderla poi col vomere! Ecco, l’ossa160
vogliono ancora frangere alla madre!»
Vennero all’armi, e l’ascia del lavoro
sentí la morte, e tu nell’aria rosa
tremavi, o stella d’oro della sera,
vedendo in cielo nuvole suffuse165
del sangue ch’era sparso in terra.
L’ASCIA
                                                  Roma
purificata balzò su dal solco
rosso di sangue, che alla Terra Madre
consacrò l’ascia onde l’avea ferita,
onde l’avrebbe per le genti tutte170
ferita ancora. O ascia, in ogni plaga
ti dedicò, per questa grande Italia,
ti seminò, ti sotterrò nel mondo.
Tu sotto i templi e sotto l’are e sotto
gli anfiteatri semiruinati175
ti trovi e sotto l’ardue terme, infrante
presso le nubi. Te nel cor le sponde
sentirono del Reno e del Danubio,
t’ebbero le foreste invïolate
e le sabbie arse che il leon sue rugge.180
Tu sei presso le moli, ove sepolti
sono i giganti; sotto gli occhi fissi
eternamente della muta Sfinge;
tu sotto accampamenti che nessuno
piú troverà. Tu scalpellasti i massi185
per le infinite pompe del trionfo.
E per te l’Arco trionfal si prese
l’arco del cielo, e sulle vie la Gloria
aprí tra due colonne le sue porte
senza battenti.
LE STRADE
                         Era vicino al tempio190
del dio Saturno, dio seminatore
e falciatore, un grande cippo, d’oro.
Di lí per l’orbe tutto lanciò Roma
le strade sue di duro sasso e duro
suono. Di lí, dal cippo d’oro, sette195
vie quattro volte si lanciarono oltre,
ai quattro venti, e prima tra sepolcri
moveano, a piè di tumuli e cipressi,
sotto la tacita ombra funerale;
poi via per verdi campi e per deserti200
diritte come solchi, e via tra rupi
tagliate da scalpelli, e via per selve
profonde, mute, solo allor ferite
dal ferro ignoto, e via sopra veloci
fiumi aggiogati con eterni ponti,205
e via per l’Alpi, che vincean con giri
blandi, le irate. Da quel sasso, a forza
ruppero un tempo tante vie sul mondo.
Parea che un luminoso Sagittario
via via volgesse a tutti i venti il grande210
arco fatale, e saettasse intorno intorno,
stante nel bel mezzo, il cielo.
LA LEGIONE
     Le dure suole e i cerchi delle ruote
fecero i solchi in queste vie, battute
dalle coorti che movean, le insegne215
contro i terrestri. Andavano, e la schiera
villesca alzava per insegna un fascio
d’erba. Prima la falce e poi la spada.
Mai non mancava fra le spighe il rosso
di qualche fiore. Fissa, poi, sull’asta220
era una mano, ch’è una pianta sola
con piú rampolli. Della via fu
guida poscia la lupa; e si vedean passare
cignali e smisurati liofanti.
E fausta, infine, di tra un baglior d’oro225
l’aquila uscí: le ignare terre e l’onde
remote corse un brivido ed un fremito
al ventilare delle sue grandi ale.
E le legioni col lor pilo grave
per quelle vie senza la meta e il fine,230
mossero intorno. Ed assembrava allora
tutte le genti e i popoli l’antica
búccina, che al pastore fuor di mano
sul far di notte avea mandato un segno.
E dominava sotto giusto impero,235
tutti, il sottile tralcio d’una vite.
I MESSAGGERI
     Alle battaglie, in mezzo ad una nube,
eran presenti i due gemelli Dei.
E niuno mai li vide; ma soltanto
tra squilli gravi delle trombe, acuti240
de’ litui, e grida ed ansimar feroce,
s’udiano al vento alti selvaggi ringhi.
L’uno era chiaro come l’aureo sole;
l’altro parea la notte opaca, ed era
avviluppato in ombra di dolore.245
Ivano a paro avanti le coorti
di bronzo, i forti giovinetti in fiore,
erti su gl’immortali lor cavalli.
Ma in mezzo al mare, quando sulle lievi
liburne erano le aquile, ondeggianti250
per la fortuna, e l’armi contro l’armi
cozzanti, allora divenian due stelle,
che rifulgeano fisse tra il brandire
degli alberi e l’oscillar delle antenne.
Erano questi i tuoi corrieri, al cenno255
pronti, o Vittoria. All’apparir del vespro,
volgean del pari il corso de’ cavalli,
e per le strade andava il colpo e il tonfo
dei risonanti zoccoli; e i cavalli,
ecco, anelanti, essi adduceano all’acqua:260
o dea Iuturna, all’acqua tua perenne:
né già cadean le stelle né le nubi
dalla prima alba erano ancora orlate.
Vegliava un solo focolare in Roma,
v’era una sola casa, che mandasse265
baglior di luce dalle sue transenne.
Vesta attendeva i reduci seduta
al fuoco inestinguibile.
I DUE GEMELLI
                                   Fratelli!
O in pace alfine (come voi chiamasse
il tempo antico) ora; non già, fratelli,270
allora, anche pugnaci sotto il ventre
della nutrice vostra lupa fosca:
tante pendean le poppe, e tra voi d’una
sorgea contesa, per averla entrambi:
voi che la lupa con la scabra lingua275
non ammansava, ed ammansò la morte:
che stretti poi con infrangibil patto,
come la notte è giunta al dí, celesti
cavalcatori, componete il tempo,
non interrotto, con la luce e l’ombra;280
su! le criniere v’attorcete in mano,
saltate su, lanciateli: da tanto
hanno i cavalli l’émpito nel cuore!
Al lor ritorno avvinti per le briglie
alle colonne vostre, dagli augusti285
ruderi il loglio antico pasceranno.
Ma ora andate a rivedere i campi
delle legioni, a riveder le terre
onde v’avvenne riportare il nunzio
della vittoria. Si combatte ancora290
con ferro e fuoco. Sono le coorti
d’allora; al cielo va la polvere, alto
suona il fragore. Colmano bassure,
piantano i valli, sfanno i colli, occulte
forano vie per entro le montagne.295
Sono picconi l’armi nostre. Andate
propiziando! il Popolo pilumno
pensi i trionfi che menò, le leggi
che fece, il dritto che impartí, la pace
che diede e allievi il suo lungo lavoro300
d’oggi con la sua gloria veterana.
LA VERGINE MASSIMA
     Ora ascoltando le sorsate al fonte
sacro, e il bussar dell’unghie alterne in terra,
nel tempio augusto pallida taceva,
fisa con gli occhi, la sacerdotessa;305
poi, nell’alto silenzio risonando
una voce mirabile: Vittoria!
ella premea nel cuore quella voce
e quel portento e s’avviava all’arce
del Campidoglio. E il popolo mirava310
tacitamente ascendere il pontefice
e la vergine massima.
IL PASSO DI ROMA
                                 Divina
cosí con passo sempre ugual, di gloria,
andava Roma verso il grande imperio.
E monti e valli e fiumi e selve al passo315
fremean sonanti sotto il piè di Roma,
della Immortale sempre piú lontana.
E mille passi delle sue legioni
fulgureggianti di metallo al sole,
ella chiudeva in uno dei suoi passi.320
Ed una pietra ne segnava l’orma
tutte le volte, e i popoli, a quell’orme
cosi distanti, abbrividian nel cuore.
I DUE IMPERATORI
     Oh! ben temeano i popoli le scuri.
Che per il mondo si vedea passare325
un uomo grande piú che l’uomo, un grande
che dava a tutto, il freno o l’urto, ei solo,
della sua mano. Egli partía la terra
con la sua spada e il cielo col suo lituo,
augure circondato dalle rote330
degli avvoltoi. Lanciava egli all’assalto
con un suo cenno l’aquile, e le lievi
turme al galoppo, e l’ululo di morte
ravvolto nella polvere veloce.
Eppur mostrava placido alle genti335
placate il volto, e calmo i cavalloni,
ancora irati dopo la tempesta,
con quella mano che impugnò la spada,
calmava, e dal belligero cavallo
dicea le leggi e l’arti della pace.340
 
     Salve, o possente Roma! Tu le terre
hai dissodate col tuo duro coltro;
la macchia hai franta perché desse il grano
placido. Il grande imperio era il tuo fato.
Quando a te fu dagli ampi omeri tolta345
la porpora, ecco il re de’ sacrifizi
uscí da templi novi e da miti are.
E poi levò di terra la corona
e ne cinse la lunga chioma bionda
d’un re che avea la fràmea per lancia;350
e poi, volgendo i secoli, battaglia
mosse, egli re dei riti, al re dell’armi.
E tempo venne che dall’alto soglio,
con la corona sulla fronte eretta,
con nella mano la stellante spada355
(stettero i messi attoniti nell’aula,
e reprimeano i secoli la corsa
infrenabile, come visto un cenno
rapido di far sosta e di dar volta),
«Che domandate?» addimandò. «Ciò ch’egli,360
il vostro re, domanda, è mio. Son io
il Cesare, son io l’Imperatore!
Andate!» E il re sacrífico si prese
i fasci albani; e l’ara vide al lume
dei sacri ceri scintillar le scuri.365

GLI DEI
     Fu la tua parte. Era il tuo fato, o Roma.
Tu sulla poppa assisa, non volesti
per nessun vento abbandonar la barra.
Profughe genti vennero dal mare
a darti inizio; e i profughi tu sempre370
prendesti a bordo della tua gran nave.
Tu sei, d’antico, un santo limitare
d’asilo ai popoli esuli, tu sacra
fossa cavata, in cui le genti i semi
posero, e zolle della patria, e cose375
sacre, e le lor memorie ed i lor Mani.
Fosti l’altare per gl’iddii fuggiaschi;
pur solo ad uno implacida, ad un solo,
povero, un dio sí umilmente dio!
Altri alla luce aperta gli stranieri380
numi adorando, i lore pingui altari
facean vermigli di taurino sangue;
altri in cortei, per la città, solenni,
batteano i cupi timpani e le strade
tutte accendean di queruli ululati.385
Ma quelli per le volte e per le ambagi
d’un nero sotterraneo laberinto
seguivano una fiaccola, e con voce
segreta, là, benedicean cantando,
ignoti a tutti, il loro ignoto Dio.390
Per tempio avean, per i lucenti altari
di Roma, alcun muffito sepolcreto,
e la lor vita era coi lor sepolti.
Avanti l’arche, fiale rugginose
di sangue, e lumi dall’esigua fiamma.395
Dicea quel lume che la vita scorsa
era col sangue, sí, ma invano. Il morto
dormiva. E il sonno era leggero e breve.
Una colomba col suo roseo becco
svellea da un canto un ramicel d’ulivo,400
e si levava, con la frasca, a volo.
Ed un pastore s’era messo in collo
l’agnello stanco, e andava con la verga
sua pastorale e col secchiello in mano.
C’era la croce, e dubbio era, se croce405
fosse od àncora. Sbalzata dal vento,
percossa dalla folgore, la nave
era al sicuro, alfine in pace: aveva
     gettata l’àncora nel cielo.
LE FAVISSE
     Intanto, quali in una torba sera410
fuggon le nubi d’ogni parte e vanno,
gemendo, spinte qua e là dai venti,
tali gli dei cacciati dai lor templi
empían notturni il cielo di querele.
E di quei templi l’umide cisterne,415
sin le favisse sotto il Campidoglio,
fervean d’un cupo murmure. Che i molti
idoli sacri, l’uno dopo l’altro,
vi discendeano. E Venere, la vita,
vedea la prima volta ora i vetusti420
lupi e cignali, e là pur mo’ gettata
schifía Minerva i rozzi cippi e il vano
dio, ch’era un legno putrido, ed ansante
non ravvisava, nel Mamurio irsuto,
Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo425
dell’arce, dietro gli altri dei consenti,
Giove pieno di nubi il sopracciglio.
«O già potenti in cielo, sulla terra,
nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
altri dal soglio, ed altri noi discaccia.430
Ma non è vano l’aspettar vicenda.
Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro
cuore, fuggiasco povero deforme
il cui soglio è la croce, ed il cui serto
sono le spine dei roveti...» Ed altro435
egli diceva, ma seguí con voce
piena d’orrore la Carmenta antica
vaticinante, a nessun dio piú nota,
ch’ella da molti secoli nell’ombra
era discesa, tutta rughe e muffa:440
«...non cadrà piú, poi ch’è il dolore umano!
Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
il dio sol esso, il solo dio fra tutti,
     che non può mai morire!»
L’ESECRAZIONE
     Cadean gli dei; restava il Campidoglio,445
inviolato; e immobile la rupe
pendea sull’urbe. E il Barbaro selvaggio
invase l’urbe, e la guastò col ferro
e con la fiamma, e l’unghia de’ cavalli,
grave, pestò le sue ceneri: invano.450
Fin ch’un di loro decretò che lento
mortal languore la struggesse. Vinta,
egli poteva anche spianarla al suolo.
«Ma no» diss’egli: «la sommuova il verno,
la inondino le pioggie, e disdegnando455
da sé la scuota e gitti via la terra:
la frangano le folgori tonanti:
sia sacra a Dio, precipitino i cieli
sulla lor cosa.» Tanto ei volle, e tutti
al suo comando, partono, e le madri460
sono strappate all’are, ed i fanciulli
vanno e le indarno verginette in fiore.
Poi, per le vie del duro suono, i plaustri
Goti e i cavalli e le Àmale coorti,
piene di preda, andarono sull’orme465
degli antichi manipoli, e lontano
il vincitore in sua lorica d’oro
svaní lasciando gli edifici soli,
già balenanti, già meditabondi
tra sé e sé, del crollo ultimo, e Roma,470
Roma, sotto il suo sole almo, deserta.
IL GRANDE SEPOLCRO
     E fu silenzio dentro le muraglie
sacre, e il pomerio grande ora cingeva
grande un sepolcro. E il sole che la vide
tacita, a poco a poco calò, lento475
sfiorando con un alito di luce
le cupole e i lunghissimi obelischi;
e poi nel trarre fuori il dí, tentando
invano di svegliarla dal gran sonno,
stupiva di vederla altra e la stessa.480
Suono non v’era se non d’improvviso
crollo di muro o il tonfo di finestre,
cui si provava di serrare il vento.
Talvolta andando e riandando i corvi,
gracchianti, a stormo, quel letargo strano485
scotean, nell’ira, d’uomini e di cose.
E molti discendean dall’Aventino
foschi avvoltoi, che ripetean l’augurio
natale, in alto, sulla città morta.
E poi notturna i cuccioli la volpe490
guidava, e le basiliche del Foro
cauta girava e le colonne antiche.
E dopo i lunghi secoli le lupe
del tempo primo vennero, cercando
gli antri per l’alte sedi imperiali.495
Parean, destati dal lor sonno i templi,
aperti stare, stare ed aspettare
i sacerdoti immemori. Giaceva,
abbandonata per i sette monti,
Roma. E le acquate assidue la battono500
e le raffiche rapide del vento,
e la fiammante folgore del cielo
ormai fa divampare il rogo.
IL NOME CELESTE
                                        Aprile
era vicino, era, con lui, vicino
il dí natale della città morta.505
E di narcIssi dalla chioma d’oro,
di crochi dagli stami d’oro rise
la solitudine, e dalle rovine
dei templi il rosso smílace comparve;
e le vïole al fonte di Iuturna,510
caste, s’abbeveravano, e gli sparsi
ruderi si gremíano di giacinti;
e tutti i bronchi e pruni aspri, nel Foro
Romano, in cima avevano una rosa,
e sopra i marmi antichi era l’antica515
porpora. Per nessuno, dal sepolcro,
dal suo sepolcro, ch’era anch’esso infranto,
spargea, versava senza fine al cielo,
nel tempo dolce ch’è il suo tempo, i fiori
che sono suoi, quella che in cielo è Flora.520
A FLORA
     Flora! madre dei fiori, o tu cui sempre
è primavera, o tu che per le genti
immense hai sparso il nuvolo dei semi,
la Terra aiuta! Questa pia saturnia
terra produca in maggior copia i frutti525
che già versava dal fecondo grembo.
Nutra di sé quelli che già nutriva,
armenti e greggi, e tornino gli uccelli,
ormai spariti, a liberare i campi,
e per i campi floridi echeggiare530
facciano la dolcezza del lor canto.
Alle mammelle opime della Terra
sugga una prole piú gagliarda il latte
e insiem col latte la virtú romana;
ed ogni mare solchi ed ogni terra535
calchi, anche il cielo navighi, sembrando
candidi stormi di canori cigni.
La tua città non lasciar piú che cinta
sia di deserti e verdi acque muggenti
del torvo bue selvaggio che vi guazza.540
Riguarda quei villaggi di capanne,
quelle capanne squallide di stoppia,
o Flora! Dunque non distrusse il fuoco
de’ primi dí tutti i tuguri? Dunque
non toccò tutti gli uomini il Diritto545
con la sua verga? Guarda: sono schiavi,
sotto le bestie! Rendi a quei meschini,
o Flora, il suo; liberatrice abbraccia
quelli spogliati; e per sé solo, o Flora,
raccolga chi le seminò, le messi,550
come allorquando si lasciava a mezzo
solco l’aratro e s’assumeano i fasci.
Rinnova l’arte antica, cingi al capo
l’antico serto e fa che mai non cada
l’inno di gloria che beò l’Italia.555
Sian, per i colli, glauchi olivi e verdi
viti, e di spighe rigogliose ondeggi
la valle immensa. E fiacchino la forza
del vento e il nembo struggitor le selve
veglianti a guardia sul cigliar dei monti. 560
 
     Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira
enormi tori. Egli che vede andare
per la campagna tante paia e vede
da dieci bovi tratto un solo aratro,
egli che già non obliò nel sonno565
le bronzee file della forte Alauda,
pensa all’imperio, a Cesare, ai trionfi.
Noi non l’imperio, non i cortei lunghi
di quei trionfi a te chiediamo. Un’Ara
abbiamo, e noi, di Pace, eretta, o Flora.570
I fiori dà color di sangue ogni anno
(solo nei fiori tu il color di sangue
lodi e nel casto viso di fanciulle:
miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue),
dà le memori foglie dell’acanto575
per adornar quest’ara. Alto nel mezzo
noi collocammo in una vampa d’oro
chi la portò, questa concordia augusta.
E quanti ancora col lor sangue, eccelsi
spiriti, questa pace e questa patria580
fecero a noi, là stanno. E sono, o Flora,
la messe tua che cade sí, ma sempre
nuova nei lunghi secoli germoglia.
IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORI
     Certo è che vive in questa terra occulto
qualche portento, e sí, nel monte, dove585
Roma quadrata germinò dal solco.
Pastori un tempo (luce ed ombra incerte
vi si spargean sotto la falce d’oro)
erano là coi rastri. Era la gloria
vanita già di Roma, era d’Apollo590
sparito il tempio. Tutto il sacro colle
tenean le infrante vecchie pietre ingombro.
Cespi d’acanto, nuove polle uscenti
da qualche ceppa d’albero che appena
sapea sé stesso s’opponeano al piede.595
Giacean rottami candidi di marmo
tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo
i capitelli ai cardi ispidi e duri.
Muri con archi, cui copriva il musco,
pendean crollanti, si scoteano al vento600
ad ogni crepa le parietarie
come ciarpame pendulo a finestre
d’un abituro. Qua le acquate al tutto
finían gli dei dipinti nella calce,
qua le ventate stridule uno straccio605
sempre rapían da tende non piú fisse.
Scabbia di pietre, lue di sassi verdi
per tutto, ed archi che teneano ancora
sol per l’abbraccio d’edere contorte.
Credean gl’ignari di veder spelonche610
di giganti che dopo un’ardua rissa
con massi enormi, ora, cocendo l’ira,
lontani e soli errassero sui monti.
IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROE
     Ed i pastori, come un tempo, in cerca
di preda, una spelonca aprono, un sasso615
movendo, immenso, e vedono nel fondo
della spelonca balenare un lume.
E quindi – era un sepolcro – gigantesche
membra d’un uomo vedono, che il petto
aveva aperto da una lunga piaga.620
Stupor li prese di quel corpo cinto
d’armi cangianti, di quel capo ignoto
dentro l’irsuta gàlea. Ché tutte
l’arme egli avea, fuor della spada, e il petto
non gli cingeva il balteo d’oro, vario625
di spesse borchie. Sull’ignoto capo,
alto, vegliava un fuoco e gli sfiorava
l’antica piaga con l’assidua fiamma.
Un dei pastori, simile ad un Fauno,
vide fra tanto impallidire il cielo,630
languire insiem le tenebre e le stelle.
LA LAMPADA INESTINGUIBILE
     Ogni maceria gorgheggiava. I nidi
s’erano desti delle rondinelle
in fila sotto i capitelli neri.
E si vedean le macchie, e tremolando635
splendean le cime delle selve, e i pini
alti sopra la vetta Pallantea.
Ed il pastore trasse fuori all’alba
la lampada e l’oppose al mattutino
vento. E il suo lume si sbatté, ma visse.640
E vi soffiò con le selvaggie labbra,
e la tuffò nell’acqua d’una pozza;
ma il lume visse. Ed e’ la rese ardente
al suo sepolcro e l’appendé dov’era,
e col suo masso chiuse la spelonca.645
Dove ancor pende e raggia ancor la luce
su te, giovine eroe primo, che fosti
di tanta gloria e tanta lotta e tanto
dolore e amore la primizia santa.
Son tre millenni ch’ella dal sepolcro650
veglia su Roma con l’eterna luce.
A ROMA ETERNA
     Spirito eterno, eterna forza, o Roma!
Dopo il gran sangue, dopo l’oblío lungo,
e il fragor fiero e il pallido silenzio,
e tanti crolli e tante fiamme accese655
da tutti i venti, tu col piè calcando
le tue ceneri, tu le tue macerie,
sempre piú alta, celebri il piú grande
dei tuoi trionfi; che la morte hai vinta.
Tu in faccia a tutti i popoli che a parte660
chiamasti del tuo dritto, ora apparisci
nel primo fior di giovinezza ancora,
meravigliosa, simile a Pallate,
difesa intorno dal fulgor dell’armi,
e con la spada; e pende sopra il mondo665
quella al cui lume accesero le genti
tutte il lor lume, quella che a noi rompe
l’ombra: o Roma possente, la possente
tua piú che il tempo lampada di vita.

Trad. GIOVANNI PASCOLI


v. 1. Sui tre nomi di Roma cfr. Gregorovius I, pag. 453; Graf, Roma nel Medio Evo I, pag. 13 [vedi anche la nota al v. 131 del poemetto Post occasum urbis, parte I (Solitudo)].
v. 10 sg. Cfr. Sofocle, Antigone 781, 785.
v. 22 sgg. Il letto funebre di Pallante fu intessuto arbuteis virgis: cfr. Virgilio, Eneide XI 65, e in generale tutto il passo.
v. 166 sgg. Sull’ascia vedi l’art. di G. Boni in Nuova Antologia, 16 aprile 1911, pag. 21.
v. 350. Frameati da framea: Tacito, Germania 6.
v. 416. Chiamavano favisae i luoghi intorno ai templi, in cui vi era acqua stagnante. Altri credono che le favisae fossero una sorta di cisterne o cantine nel Campidoglio, e che vi si riponessero gli oggetti sacri resi inutilizzabili dal tempo (Festo p. 78 Lindsay).
vv. 454 sgg. Su Roma abbandonata cfr. Gregorovius I, pag. 306, 309.
v. 614 sgg. Sul sepolcro di Pallante cfr. Guglielmo di Malmesbury (Migne, CLXXIX p. 1191), 357.


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