Guerra di lunga durata

Da quando esistono eserciti organizzati, esistono guerre asimmetriche.

Le modalità di queste guerre sono diverse a seconda delle epoche storiche, ma una caratteristica fondamentale dell’asimmetria riguarda il fattore tempo.

Gli eserciti organizzati hanno fretta. Il Generale che parte per la guerra promette che avrà ragione del nemico in un batter d’occhio. Andrò, vedrò, vincerò.

Poi, è sempre lo stesso: le guerre si sa come cominciano, non si sa mai come finiscono. La vittoria pronta e definitiva si allontana nel tempo, i rapporti inviati dal Generale al Sovrano — che può essere un Re per diritto divino, o l’Opinione Pubblica, non fa differenza — diventano sempre più vaghi. Abbiamo raggiunto risultati importanti… abbiamo un controllo completo della situazione… il nemico è sempre più in difficoltà… si profila una vittoria definitiva a breve scadenza… Il Sovrano comincia a dare segni di nervosismo, la casse dello Stato si svuotano, il Generale comincia a temere per la propria testa.

Invece, dall’altra parte, sanno che il tempo è dalla loro parte. Qualunque esercito, per quanto potente, può essere sconfitto. Basta non avere fretta. Bisogna attaccare alla minima occasione, ed immediatamente ritirarsi. Aggirarsi intorno alle basi nemiche, ma senza mai esporsi. Nascondersi sotto la superficie dell’acqua per tempi indefiniti, ma facendo capire che si è sempre pronti ad emergere. Logorare, senza lasciarsi logorare. Non lasciarsi mai prendere dalla tentazione di un attacco definitivo, di uno scontro finale: quello è il mestiere degli eserciti organizzati. Alla fine — dopo anni, decenni, generazioni — arriverà la vittoria, quando i tempi saranno maturi.

Questo vale non solo nelle guerre asimmetriche classiche — l’esercito organizzato contro i guerriglieri. Può valere anche tra Stati organizzati. Il regno dei Parti/Persiani nel 53 a.C. vinse una battaglia contro l’Impero Romano, e perse tutte le successive. Per secoli. Ma alla fine, a crollare è stato l’Impero Romano, ed i Persiani erano ancora lì, ad aspettare che arrivassero gli Arabi.

Altre cose sono utili alla guerra asimmetrica. Nell’età dell’informazione, è diventata di importanza fondamentale una diversa considerazione del valore della vita umana. Dalla guerra del Vietnam in avanti, nel campo degli eserciti organizzati fa più danno la foto di un soldato morto che una battaglia perduta. Ma la cosa più frustrante per un esercito, il cui mestiere è uccidere, è trovarsi di fronte ad un nemico che usa il suicidio come normale modalità di combattimento; affrontare combattenti che lanciano razzi dai tetti delle case di una delle località più affollate del mondo, considerando la morte dei civili — dei propri civili — come tanti punti a proprio favore.

Se le cose stanno così, la guerriglia palestinese è invincibile, e l’esercito israeliano destinato alla sconfitta. I Palestinesi, che continuano a combattere una guerra persa nel 1948, sembrano intenzionati a battere il record di durata dei Parti/Persiani. Gli Israeliani, dopo ogni battaglia vinta, contano i morti, propri e altrui, e si chiedono sconsolati quando dovranno ricominciare da capo.

Ma forse c’è qualche altro fattore da tenere in considerazione.

Un esercito invasore, se non riesce ad avere ragione di un nemico invincibile perché imprendibile, può sempre decidere saggiamente di ritirarsi. L’esercito israeliano non può ritirarsi, semplicemente perché non ha un posto dove ritirarsi. I nazirotfl di casa nostra fanno battutine sul deserto del Nevada, o sulla Siberia, dove si potrebbero trasferire gli Ebrei, perché non facciano più danni; ma il fatto è che gli Israeliani alle spalle hanno il mare; ed oltre il mare, nessun posto dove andare. Gli Israeliani possono lasciare il Sinai e tornare in Israele; possono lasciare Gaza e tornare in Israele; prima o poi dovranno decidersi a lasciare i Territori e tornare in Israele. Ma non possono lasciare Israele.

Questo può modificare la percezione del fattore tempo da parte dell’esercito israeliano. Gli Inglesi ci hanno messo molto, molto meno di sessant’anni per decidersi ad abbandonare le Colonie americane, o l’India. Ma gli Inglesi stavano in Inghilterra, non stavano in America o in India. Gli Israeliani non si lasceranno convincere molto facilmente ad abbandonare Israele, semplicemente perché loro stanno in Israele.

Sotto questo punto di vista, la contrapposizione tra Israeliani e Palestinesi riacquista una notevole simmetria. La posizione israeliana nel conflitto è molto più scomoda di quella degli Inglesi in India, o dei Francesi in Algeria; ma proprio per questo, è molto più solida. Il soldato inglese che, dopo un lungo ed estenuante servizio sulle rive del Gange, tornava in licenza a godersi il fresco sulle rive del Tamigi, poteva essere portato a pensare “ma che ci stiamo a fare laggiù?” Il soldato israeliano, che va in licenza a Tel Aviv, e sente i razzi di Hamas fischiargli sulla testa, è chiaramente esente da questi pacifici pensieri.

In questo senso, i Palestinesi hanno commesso un errore che può essere loro fatale. Dice il proverbio, ponti d’oro al nemico che fugge. Ed il buon senso insegna che non devi mettere mai l’avversario con le spalle al muro, devi sempre lasciargli una possibilità di ritirata — se il tuo obiettivo è che si ritiri. Ma i Palestinesi, con i loro patetici razzi, con i loro adolescenti imbottiti di esplosivo, hanno da sempre dichiarato che il loro obiettivo, irrinunciabile, è uno solo: cancellare Israele dalla carta geografica. E non hanno mai lasciato al loro nemico altra opzione che continuare la guerra.

Ma anche sotto altri punti di vista le cose si complicano.

I Palestinesi, come nazione, sono una costruzione moderna, nata da una sconfitta. I palestinesi sono figli della nakba, così come i Serbi sono figli di Kosovo Polje. Ed essere figli di una sconfitta è scomodo, crea un senso di frustrazione che può portare a comportamenti distorti (anche gli Ebrei sono figli di una sconfitta, anzi, di due, la distruzione del Primo e del Secondo Tempio: non della shoà, come semplicisticamente si dice. Ed anche questo ha il suo peso.)

Nel mondo arabo e mussulmano le questioni di nazionalità sono molto più complicate che nel mondo europeo. In Europa ci sono i francesi e i tedeschi. Nel mondo arabo, ci sono gli Arabi. Che poi possono dividersi e combattersi, anche ferocemente, ma sono sempre, in primo luogo, Arabi. E così i mussulmani. Che possono dividersi, e combattersi: e difatti, noi continuiamo ad assistere ad una feroce guerra di distruzione fra sunniti e sciiti, una guerra cominciata quattordici secoli fa, e mai terminata, perché in questo caso entrambi i contendenti sono conviti (e sotto un certo punto di vista, entrambi a ragione) che il tempo sia dalla loro parte. Ma anche se si combattono e si uccidono, sono, in primo luogo, mussulmani.

Per il modo arabo e mussulmano, la questione palestinese è una gravissima questione simbolica. Inutile stare a dire ad un Arabo, ad un mussulmano che Israele è uno staterello grande come la Puglia, o come il New Jersey; che di fronte a decine di altri tremendi conflitti regionali — molti dei quali coinvolgono anche arabi, e mussulmani, con costi umani spaventosamente superiori — la questione palestinese è una cacca di mosca sull’atlante. No, la nakba è cosa che li riguarda tutti; quella guerra persa è la loro guerra persa. La questione del Kashmir riguarda il Kasmir; la questione dello Xinjiang riguarda lo Xinjiang; la questione di Cipro riguarda Cipro; la questione del Kossovo riguarda il Kossovo; la questione del Kurdistan riguarda i curdi. Ma la questione palestinese riguarda tutti gli Arabi, tutti i musulmani.

Questo, per i Palestinesi, è una maledizione. Dal 1948 si sono trovati a portare sulle spalle il peso delle frustrazioni di un miliardo di esseri umani. Quando, in seguito ad una guerra persa contro una popolazione di poco più di mezzo milione di ebrei, settecentomila arabi abbandonarono le loro case, a nessuno è venuto in mente che quei profughi avrebbero potuto trovare una collocazione nell’insieme di quei paesi arabi che avevano condiviso con loro la guerra e la sconfitta. Dovevano rimanere lì, a ridosso della nuova frontiera, ad alimentare con i loro corpi e la loro miseria il risentimento di tutti gli Arabi contro i discendenti di quegli Ebrei che, per la prima volta nella storia, rifiutavano il cliché dell’eterno perseguitato.

Questa è stata la condanna dei Palestinesi, anche se, per 60 anni, si sono illusi che fosse invece la loro forza. Perché un altro aspetto essenziale della guerra asimmetrica è che l’esercito guerrigliero deve avere un retroterra, il più ampio possibile. Un deserto, una giungla, una foresta solcata da risaie, un arcipelago di migliaia di isolette, caverne nelle montagne in cui nascondersi, e poi una popolazione sparsa in un’infinità di villaggi per nascondersi, trarre sostentamento, rimanere in attesa del prossimo attacco. I Palestinesi avevano, o credevano di avere, un retroterra di questo genere, anche se più politico e mediatico che geografico: l’immensa massa dei popoli arabi che guardava a loro come le avanguardie di un riscatto secolare. Immense masse che potevano mobilitarsi, premere sulle diplomazie mondiali; Stati che potevano chiudere all’Occidente i rubinetti del petrolio, se necessario mandare i loro carri armati ed i loro aerei a combattere in guerre che — anche se terminavano con delle sconfitte rovinose — facevano ugualmente sentire ad Israele che non sarebbe mai finita.

Oggi non è più così. Chiusi in condomini straripanti di popolazione, senza nessun posto dove andare, dove ritirarsi, da cui avere aiuto, i guerriglieri di Hamas hanno cominciato a lanciare i loro razzi, ed hanno atteso la risposta, sicuri che alla vista dei primi bombardamenti, delle prime vittime civili, dei primi bambini morti, il modo arabo si sarebbe sollevato come un sol uomo a reclamare la distruzione dell’infame aggressore. Ma — posso sbagliarmi, siamo appena all’inizio — mai come questa volta i Palestinesi si sono trovati soli. L’Iran chiama alla guerra contro gli infedeli — ma tanto lo fa sempre, e quindi non conta. Obama telefona a Morsi, e Morsi — pensate un po’! — telefona a Mario Monti. In Siria sono occupati a massacrarsi tra di loro. Gli Emirati fanno contratti con l’Italia, investiranno un miliardo per il turismo in Sardegna. In Libia devono ancora decidere chi ha vinto la guerra civile, poi vedranno. La Giordania — la Giordania? chissà se in Giordania c’è ancora qualcuno che si ricorda che i famosi Territori Occupati una volta erano regno del “petit roi de Giordanie” (→ Brassens), responsabile del più grande massacro di Palestinesi suoi sudditi.

I combattenti di Hamas hanno aperto le cataratte dell’Inferno, sperando di mettere in moto una valanga, invece si sono trovati soli, chiusi nei loro condomini pieni di gente, ad aspettare che la pioggia di bombe cessi, a chiedere un cessate il fuoco — una tregua — strana richiesta, da parte di chi ha sempre detto di avere un’unica ragione di esistenza, la guerra senza tregua.

Occorrerà del tempo, ma prima o poi i Palestinesi si renderanno conto di essere vittime da sessant’anni di un grande inganno, di essere strumenti di un gioco in cui non hanno nulla da vincere. Allora cominceranno i guai.

Maurizio Pistone
19 Novembre 2012

1 commento su “Guerra di lunga durata”

  1. Noto con piacere che la realtà può “anche” essere osservata oggettivamente, peccato che succeda di rado.
    Complimenti per il post.

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