Martedì 26 gennaio 1999    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.
pappagallo

Il vecchio scocciatore

Un gentiluomo lombardo era pervenuto alla sordità e amava teneramente un suo pappagallo nonagenario, cioè poco più giovane di lui. Rimbrottava egli del continovo il suo cameriere. Questi, nel porgergli mantello, cappello e mazza, faceva ogniqualvolta un leggero inchino e con impeccabile distinzione dimandàvalo: «Quan l’è ké té crèpet?». Il gentiluomo, coccolando il suo loro, offerivagli con i labbri disseccati un’aràchide o una nocciuola parimente secca, che vi teneva nell’atto di chi dà il bacio: e il loro s’ingegnava, col rostro e con una zampa, a distoglier dai labbri del gentiluomo quell’aràchide (o nocciuola), senza far male: torcendo tutto, da un lato, il suo bellissimo e verde capo, e a tratti velando i due occhi, con le sue sei palpebre al centesimo di secondo, che pareva si morisse d’amore. Cincischiata e rimuginata a lungo l’aràchide (o nocciuola) e con il becco e con la lingua ancora inturpiti dalle bricciolette e pellicole, e anco un po’ di saliva, rognava di poi dolcemente: «Quan l’è ké té crèpet?». Il gentiluomo lombardo credeva che fosse: «À revoir, mon enfant!»: e al tutto beàvasi.

Carlo Emilio Gadda
Disegno di Mirko Vucetich

Sul pappagallo vedi il sonetto del Materdona


Torna su ^