21 Dicembre 1997    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

Storia della lingua italiana

In Sicilia è nata la letteratura italiana, ma non la lingua italiana, che invece è nata in Toscana.

I poeti della cosiddetta corte sveva, verso la metà del XIII secolo, componevano poesie secondo il modello trovadorico, ma non in occitano, bensì nella loro lingua, il siciliano.

Dunque, i poeti siciliani scrivevano in siciliano. Com’era questo siciliano? Più o meno così:

Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joi d’amuri è statu,
mi ritornu in cantari ...

Questo è l’inizio di una canzone di Stefano Protonotaro da Messina, uno dei pochissimi testi di questa scuola poetica che ci sia arrivato nel dettato originale.
Infatti i poeti toscani raccoglievano e studiavano con autentica devozione i manoscritti della poesia siciliana, ma poiché a loro questo dialetto (lingua?) sembrava troppo strano, copia oggi, copia domani, correggevano il testo, rendendolo sempre più simile alla favella (ecco!) toscana.
Ecco dunque che la lingua di Giacomo da Lentini divenne, nel giro di una sola generazione:

Meravigliosa-mente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn’ora ...

Cioè qualcosa che assomiglia decisamente di più al toscano che al siciliano.

La poesia siciliana fu quindi imitata nei contenuti, nelle forme metriche (la canzone e il sonetto, in primo luogo), nei temi dominanti, ma non nella lingua. Già Dante era convinto che i poeti siciliani usassero non la loro parlata (ehm!) isolana, ma un «volgare illustre», che in sostanza è il toscano.

Quest’equivoco ha lasciato nella poesia italiana dei secoli successivi un curioso fossile.
I toscani trovavano in molti testi siciliani parole con vocale tonica o rimare con u, e parole con la e rimare con la i. Non sapevano che in realtà questi testi erano stati modificati, e che nell’originale si avevano due u o due i; per esempio, nel testo di Giacomo da Lentini vediamo, pochi versi dopo quelli citati, taciri rimare con diri. Essi pensarono dunque che tacere potesse rimare con dire; e chiamarono questo fenomeno «rima siciliana».

Per questo Dante scrisse:

                                        .... Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fere gli occhi suoi lo dolce lume?

con una rima come - lume che copisti ignoranti corressero introducendo un improbabile lome, e che il Petrocchi ha brillantemente ristabilito nella sua edizione del Poema.
È infine per l’ignoranza di questa curiosa regola che il Manzoni sparò l’atroce rima nui - Lui nel Cinque Maggio - e lì c’è poco da correggere.


Nota


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