6 Ottobre 2000    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

Personaggi più o meno sconosciuti della linguistica


Una tragedia linguistica

Riccardo Venturi ha scritto su it.cultura.linguistica un articolo che mi ha cortesemente autorizzato a pubblicare:

Il prof. Nocentini, autore del volume Le lingue d’Europa (Firenze, 1983) nonché, all’epoca, assistente del prof. Carlo Alberto Mastrelli presso la cattedra di Glottologia della facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, mi ebbe una volta a dire di aver effettuato, non so quanto per scherzo, quella che lui chiamava la «Statistica generale dei decifratori dell’etrusco» dal 1900 fino all’anno allora corrente.

(Qui nacque una divertente discussione sul termine «decifratore»; se, infatti, per «decifrare» si intende il dare un esatto valore fonemico a dei determinati segni grafici, allora l’etrusco, che si serve praticamente di un alfabeto greco, è già «decifrato» da quell’oddìo – come si dice dalle mie parti. Autentici «decifratori» sono stati lo Champollion con i geroglifici egiziani e Michael Ventris con la Lineare B; Si dovrebbe quindi più propriamente parlare di «interpretazione» della lingua etrusca; ma il prof. Nocenti insistette sui «decifratori» perché questo è il termine usato vulgo, e che, quindi, ha fatto maggiormente «presa» sull’immaginazione popolare).

La statistica del prof. Nocentini, effettuata su basi rigorosamente aritmetiche, diede il risultato di 1,75 «decifratori» dell’etrusco all’anno. Non sto a dirvi le risate che da allora mi faccio su quel «virgola settantacinque»; risate, tuttavia, stemperate da un caso accaduto in Italia negli anni ’30, che assunse le proporzioni di una tragedia personale.

Nel 1930, un professore di greco e latino presso un liceo napoletano, tale Alberto Pironti, appassionato di etruscologia, dopo anni di preparazione riuscì a pubblicare un volume assai «corposo» dove, a suo dire, veniva irrefutabilmente dimostrato che l’etrusco era un dialetto greco. Come la maggior parte dei «decifratori» di quell’antica lingua, il prof. Pironti si basò quasi esclusivamente su delle assonanze di parole; questo, naturalmente, non esclude che nell’etrusco siano stati effettivamente individuati numerosi prestiti greci, particolarmente nell’onomastica, ma anche nella terminologia comune (ad es., patna «scodella, patera», gr. patáne, lat. patina; purthne «magistrato, dittatore», gr. prýtanis – ma si tratta di una parola quasi sicuramente di origine preindoeuropea – ; cupe «vaso; capanna», gr. kýpe ecc.; tutti i termini, etimologie comprese, sono ripresi dal Dizionario della lingua Etrusca di Arnaldo d’Aversa, Paideia Editrice, Brescia 1994).

Il prof. Pironti riempì quasi cinquecento pagine di elucubrazioni e di esempi, fino ad «interpretare» sulla base del greco praticamente tutte le iscrizioni allora note; quelle la cui interpretazione era oramai assodata (non bisogna scordarsi che l’etrusco ci è noto quasi esclusivamente da iscrizioni funerarie, come se un ipotetico archeologo marziano del 40° secolo dovesse ricostruire la lingua italiana con a disposizione solo una ventina di cimiteri) furono, per così dire, «rivoltate» con la ricerca di termini greci dialettali, glosse di Esichio ecc. che potessero adattarsi al significato già appurato. Al termine dell’opera, direi quasi ovviamente, il prof. Pironti inserì una «grammatica» della lingua etrusca.

(Anche qui è doveroso dire che certi fatti morfologici dell’etrusco sono stati abbastanza ben chiariti, come la celebre «rideterminazione del genitivo» o «genitivo del genitivo»: Larth-al «di Larth» > Larth-al-s, forse «di quello di Larth»)

Qui accadde quel che, ancor oggi, è una caratteristica della ricezione dell’improvvisazione e del dilettantismo (sebbene il prof. Pironti, per la sua qualifica, non potesse essere propriamente definito un dilettante): il volume fu accolto con entusiasmo, stanti anche alcuni «agganci» altolocati del docente, specialmente negli ambienti Vaticani; dato anche il clima politico dell’epoca, ci fu chi, ovviamente, cominciò con le patriotiche pappardelle dell’«italico genio». Negli ambienti accademici, il volume del Pironti fu accolto con ovvio scetticismo; ma tutto sarebbe rimasto forse lì, se, dalle colonne dell’Archivio Glottologico Italiano, il celebre prof. Carlo Battisti, esimio linguista che si fece un po’ perdonare la sua spregiudicata italianizzazione dei termini sudtirolesi con la sua indimenticabile interpretazione del povero pensionato Umberto D. nell’omonimo film di Vittorio de Sica, non avesse attaccato pesantemente il Pironti con argomenti irrefutabili dal punto di vista linguistico, anche se espressi in modo decisamente sarcastico e violento. Ne nacque la solita diatriba sulla «scienza ufficiale» che non riconosce il «genio alternativo» (e qui mi sembra che ci siano delle attualissime analogie, seppure in altro campo; si veda ad esempio il caso della «cura Di Bella»...).

La storia andò avanti per un bel po’; il Battisti attaccava periodicamente, sostenuto dalla «glottologia ufficiale», mentre il Pironti ribatteva affidandosi a riviste varie, anche di ambiente ecclesiastico; del caso si occupò ad un certo punto anche l’Osservatore Romano, con un articolo in cui si invitava ovviamente a fare la pace. Ma il prof. Battisti insistette, ed alla fine riuscì a stroncare definitivamente le ipotesi del Pironti. Un’autentica sbugiardatura, della quale, forse, non c’era eccessivo bisogno; le elucubrazioni del professore napoletano erano talmente prive di fondamento che anche un liceale avrebbe potuto controbatterle con efficacia. Il volume del Pironti fu comunque ritirato dal commercio, e sulla vicenda cadde il silenzio più totale; sono stato abbastanza fortunato ad averne potuto vedere e consultare una copia presso la Biblioteca dell’Istituto di Glottologia della Facoltà di Lettere di Firenze, assieme a tutta la serie di articoli del Battisti sull’AGI.

Abbiamo parlato di silenzio; termine quantomai appropriato in questo caso. Perché la storia ha una sua conclusione inaspettata e terribile. Nel 1935, dopo la stroncatura definitiva del Battisti, il prof. Pironti si ritrovò completamente squalificato e, come si suol dire, finì letteralmente dagli altari nella polvere. Dovette dimettersi dall’insegnamento a poco tempo dalla pensione, e si deve comunque tenere presente che era un buon classicista «impastoiatosi» per passione in questioni linguistiche che non gli competevano.

Il 6 ottobre di quello stesso anno il prof. Pironti si chiuse a chiave nel suo studio e si impiccò. Esattamente 65 anni fa. Non aveva saputo sopravvivere alla vergogna di essere stato distrutto in una cosa alla quale aveva comunque dedicato una parte importante della sua vita. Non è nota la reazione di Carlo Battisti; e così il professore napoletano entrò nel novero dei dimenticati, categoria sbugiardati.

Ho fatto dell’indagine linguistica storica una delle ragioni più importanti della mia vita, perché è scaturita da un’autentica passione; un’indagine che, nei limiti del mio possibile, vorrebbe essere sempre rigorosamente uniformata a criteri di scientificità e di prudente esattezza. La «cialtroneria» di questa e di altre epoche, le facili infatuazioni «alternative» e compagnia bella son cose che non mi appartengono. Eppure tutto questo non riesce a farmi scordare il prof. Pironti e la sua storia; c’è modo e modo di discutere e di confrontarsi, anche, perché no, su un newsgroup. Siamo sempre davanti a persone umane e non dovremmo mai scordarcelo.

6 ottobre 2000

Nota

7 marzo 2003

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