26 Febbraio 1999    scrivimi@mauriziopistone.it    strenua nos exercet inertia    Hor.

La lingua alla moda

Bambole kokeshi (A proposito di moda e tendenza)

Martedì scorso (23 febbraio 1999) portarsi a casa La Repubblica è stata un’impresa mica da poco. I fogli delle notizie avviluppavano pesanti inserti, fra cui spiccava un voluminoso fascicolo pubblicitario della Benetton intitolato alle «bambole kokeshi».

Che cosa sia una bambola kokeshi non lo so, e vedere quell’inserto non mi ha fatto venir voglia di saperlo. Le foto ritraevano giovani giapponesi di ambo i sessi addobbati secondo quella che dovrebbe essere la moda - la tendenza - giovanile alla sua più pura espressione.

Curiosa esperienza: ciò che sembrava ad un primo sguardo era esattamente il contrario di ciò che si vedeva guardando attentamente.

Subito subito si vedevano abbigliamenti sgargianti, quasi sempre sgradevoli, ma diversissimi e coloratissimi.

Ad uno sguardo più attento, non si notava altro che l’ossessiva ripetizione di pochissimi elementi standardizzati, variamente combinati fra di loro. Pochi capi d’abbigliamento, banali e di scarsa qualità, mescolati a quello che non si può chiamare in altro modo che spazzatura industriale. Fili metallici ricoperti da guaine trasparenti. Spille da balia. Fogli di plastica. Fra questi, alcuni capi d’abbigliamento Benetton indicati minuziosamente dalle didascalie - ed in questo almeno vi era coerenza: in mezzo alla spazzatura, dei prodotti che nascono già alla fabbrica come spazzatura.

(Fra le pagine, qualche rara, straziante immagine di oggetti dell’artigianato tradizionale giapponese. Modesti, poco vistosi - una parrucca di stoppa, un paio di sandali di paglia - ma straordinari: ogni particolare inatteso, le linee essenziali, rigorose.)

Naturalmente non sto scrivendo queste cose per parlare di abiti, né tantomeno per prendermela con il signor Benetton. Se uno si fa i miliardi vendendo cotonine di scarto, o sistemi operativi traballanti, fa benissimo - la colpa è del pubblico, che prende i primi come il massimo dell’eleganza, ed i secondi come il massimo della tecnologia.

La novità riguarda le parole. Da tempo, moda non è più di moda. È tendenza che fa tendenza. Adesso ho capito perché.
Come tutte le grandi trasformazione linguistiche, anche questa riflette un profondo cambiamento (epocale?)
Tanto per cominciare, torniamo al verbo che accompagna i due vocaboli. Una cosa è di moda. Una cosa fa tendenza.
La moda ormai è una sopravvivenza patetica. Si vendono abiti «di moda» solo sulle bancarelle dei mercatini di periferia.
La moda serviva all’essere (parola che, come ognun sa, significa «apparire»). Ci si vestiva alla moda per fare le belle statuine, per sembrare come gli altri. La moda era un tipico vezzo borghese, ma di quella nostra vecchia borghesia italiana, molliccia e meschinuccia; per questo rifiutare la moda faceva essere (faceva apparire) anticonformisti, ma di un anticonformismo poco impegnativo, alla buona (i capelli lunghi che facevano tanto disperare le mamme).
Per dirla in sintesi: moda era parola di destra - della nostra vecchia destra italiana, provinciale e paurosa di tutto.

La tendenza invece appartiene al fare, all’agire. Meglio se in inglese, trend. È il mondo in marcia verso un nuovo ordine radioso. Spazzatura? Ma quale spazzatura, è trash. Se non segui la corrente, sei fuori, povero coglione. Sei vecchio. Non ha capito niente.
Per dirla in breve: tendenza è parola di sinistra - con tutti i peggiori difetti della nostra vecchia sinistra italiana, progessista e paternalista, arrogante e moralista, dogmatica e intimidatoria.
Una sinistra che si porta dietro questi antichi difetti anche (soprattutto) quando diventa di destra.

Ripeto, tutto questo per parlare di lingua, non di politica.


Nota


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