Maggio - Giugno 1997 scrivimi@mauriziopistone.it strenua nos exercet inertia Hor.

La nostra lingua: questioni di gusto

Come si mangia, si parla 1

Tempo fa in una trattoria ho ordinato una pasta col pesto. Mi sono visto arrivare una melma unticcia e verdolina, nella quale galleggiavano alcuni spaghetti.
Alle mie rimostranze, il trattore ha risposto che lui il pesto alla genovese lo fa con la panna, perché ai suoi clienti piace così.
Ragionamento ineccepibile. A tavola, sovrano è il gusto, e ognuno nella pastasciutta può mettere quello che vuole. Anche la Nutella o mezza pinta di Guinness, se gli piace.

Tuttavia qualcosa in me si ribellava. Nel pesto alla genovese la panna non si mette, e basta!

Sì, va beh, ma in nome di che cosa?

Qualcosa del genere avviene nei problemi di lingua.
«Io parlo come mi pare». «Aboliamo la grammatica». «Basta con la tirannide dei dizionari».
Non è una novità. Lo diceva già Filippo Tommaso Marinetti.
E certo se uno dice «nel frattaglio di tempo», «scannerizzare», «trascinamento di conoscenze», non fa né peccato né reato; e che autorità ho io per dire «è sbagliato»?
Non dovrei limitarmi ad un più modesto «non mi piace, io non direi così»?

Questo ragionamento discende dall’idea che la lingua sia un fatto naturale, spontaneo; che la grammatica sia una creazione a posteriori, una gabbia libresca che limita la libera creatività linguistica.
Ma nisciuno nasce ‘mparato. Non esiste la scienza infusa.
Noi impariamo a parlare, a cucinare, perfino a mangiare, perché qualcuno ce lo insegna.
Senza cultura, la natura non esiste.
Ciò che noi diciamo e scriviamo, discende da una lunga educazione, da una grammatica domestica e da una retorica quotidiana che assorbiamo dalla prima infanzia, dalla fanciullezza, dall’adolescenza.
È l’educazione dell’esempio, dell’ambiente, della vita; è una grammatica che prima mostra, poi prescrive.
Tutti i gusti sono gusti, ma anche il gusto viene educato.
C’è chi è stato tirato su a merendine e sofficini; allora non c’è da stupirsi se, di fronte a un piatto di pesto alla genovese, mette mano al cartoccio della pannachef.
C’è chi ha avuto la fortuna di una mammina che gli faceva i bei piattini, la pasta fatta in casa, gli gnocchi col pomodoro e basilico ... Allora diventa attento; magari poi mangia di tutto, perché nella vita bisogna adattarsi ed è inutile fare gli schizzinosi; ma sa cos’è il buono e cos’è il cattivo.


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Come si mangia, si parla 2

Per chiarezza, espongo schematicamente alcuni punti.
  1. La lingua è un fatto collettivo
  2. Come tale essa non è soggetta all’arbitrio del singolo parlante («io parlo come mi pare»)...
  3. ... né del singolo grammatico («la regola è così e basta»).
  4. La lingua va incontro ad una costante evoluzione.
  5. Quest’evoluzione tuttavia non è casuale, ma segue una sua logica interna.
  6. Poiché la lingua è una stratificazione molto complessa di registri, varianti locali, fasi diacroniche...
  7. ... ogni fase dell’evoluzione deve tener conto di questa complessità e armonizzarsi con essa.

Quel prof. di lettere che, milleseicento anni fa, si disperava perché i ragazzi si ostinavano a dire oclus vetlus specluminvece di oculus vetulus speculum, non sapeva - né lo sapevano i suoi allievi ignorantelli - che stava nascendo una nuova lingua: non era ancora l’italiano, ma ormai non era più il latino.
Ciò che colpisce in questa lista di «errori» è la rigorosa, per quanto del tutto inconsapevole, regolarità con cui si susseguono alterazioni grammaticali e fonetiche. Infatti una nuova lingua non nasce per caso, attraverso un accumulo di strafalcioni, ma attraverso una trasformazione interna di tutte le sue strutture fonetiche, grammaticali, lessicali.
Quei ragazzi parlavano come mangiavano; non sapevano nulla di vocalismo, palatalizzazione, assimilazione regressiva; ma erano inseriti in un processo di trasformazione perfettamente coerente.

Esiste non solo una grammatica della lingua, ma anche una grammatica dell’evoluzione linguistica; e forse questa è più importante di quella.
Per poter valutare se una forma (nuova, o anche vecchia, ma fino ad ora non riconosciuta o codificata) possa essere accettata come un momento legittimo dell’evoluzione della lingua, bisogna vedere se questa forma si inserisce all’interno di questo sviluppo armonico e funzionale, o se invece è un corpo estraneo che fa a pugni con il resto.

Come esempi mi limito a citare due casi estremi e (credo) evidentissimi:

Ma pensa tu, il destino. Uno dà la vita alla scuola, e passa alla storia per gli errori di ortografia dei suoi allievi.


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Come si mangia, si parla 3

Narravano gli antichi che un soldato americano, trovandosi a passare per Napoli, rovesciò il suo eggs and bacon in un piatto di spaghetti.
Nacque così la carbonara.
Questa è senz’altro un’ottima ricetta (attenzione: è in agguato il cretino con il suo cartoccio di panna); ma è un piatto della cucina italiana?
Non gridate così forte. Ho sentito benissimo: Sì!
Tant’è vero che capita di sentire discussioni sul modo autentico e corretto di prepararlo.
Invece gli hamburger (i vecchi macellai di Torino li chiamano le «svizzerine»), che pure sono abbastanza buoni, ma soprattutto comodi quando si ha fretta, vengono ancora sentiti come un’invenzione forestiera.
Nessuno che sia sano di mente si metterebbe a discutere sulla corretta e autentica confezione di un hamburger.

Che posto hanno nell’evoluzione di una lingua le forme provenienti dall’esterno?
Per gli Americani, non c’è nessuna difficoltà. Hanno innalzato la pizza agli onori di piatto nazionale per eccellenza, e ridono in faccia a chi gli dice che è italiana, anzi, italianissima, come dimostrano il tricolore di pomodoro, mozzarella e basilico, e il nome della regina Margherita (almeno così ho letto; io non sono mai stato negli Stati).
Addirittura si inventano con disinvoltura la cucina forestiera: la specialità cinese più diffusa è il chop suey, che non è un piatto cinese, ma un ritrovato dei ristoranti cinesi della costa californiana (allo stesso modo gli Italiani per decenni han detto footing, prima di scoprire che si dice jogging).
Francesi e Tedeschi invece sono più diffidenti. Ordinateur, souris, Speicher.

Certo, nessuna lingua vive nell’isolamento. Abbiamo dovuto digerire Goti e Longobardi, e dovevano essere ben duri da mandare giù, con la spatha, il sax e tutto il resto. Ma anche verso le lingue germaniche c’è stata una forte selezione.

Inter eils goticum scapia matzia ia drincan
non audet quisquam dignos educere uersus

lamentava un poeta del V secolo; la storia gli ha dato (capita raramente) ragione, infatti nessuna delle parole che nei barbarici convivi urtavano le sue delicate orecchie latine è rimasta: a parte il trincare (drincan con rotazione consonantica longobarda), che però non è un vero bere.

Ben prima che i puristi infilzassero le parole con le loro piume d’oca, la lingua italiana aveva avuto ragione di gran parte del vocabolario germanico, e aveva mantenuto per lo più quei termini veramente funzionali, che corrispondevano cioè a oggetti e idee sconosciuti alla cultura latina; come le scarpe, i calzoni e i marescialli, di cui fino ad allora avevamo fatto senza.
(È vero, sono anche rimasti: guerra, bianco, stronzo; ognuno per le sue buone ragioni).

Innovazione della lingua non significa registrare - e una volta registrate, usare senza criterio - tutte le parole che mode forestiere ci portano. Così come è morto «nella misura in cui», inutile calco del tedesco «in dem Maße wie», presumibilmente parecchie delle forme attualmente registrate spariranno.
Ma qual è il criterio di selezione?

Purtroppo la grammatica della lingua del futuro non è ancora stata scritta. Possiamo solo affidarci al buon senso e al buon gusto.


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Come si mangia, si parla 4

Magari potessi dire: «Parla come mangi!»
Ma il ragazzino di fronte a me sta masticando una gomma, e ha lo zainetto pieno di patatine; e io devo tacere.
L’educazione alimentare è la base dell’educazione linguistica. Per questo si dice «alunno», da alere, nutrire.
Magari potessi dire a Samantha, a Michael: «Parla nel modo più semplice, piano, naturale». È una richiesta incomprensibile per chi ha come unico modello la koinè televisiva.
Magari potessi far capire la bruttezza di «usufruire» ad Antonio, che ha quattro in inglese ma firma le cartoline «By Tony».
E per uscire dalle tetre aule scolastiche, mi chiedo quale idioletto usi il frequentatore abituale della «Pizzeria Pub Vecchia Londra». Non ho mai avuto lo stomaco di entrare per accertarmene.

L’italiano è sempre stato per tutti una lingua straniera. Si imparava il dialetto; lo si succhiava con il latte materno. Il dialetto era una forma di espressione limitata, locale; ma, nel suo ambito, rispondeva perfettamente ai bisogni della comunicazione. Soprattutto educava al gusto della parola efficace, puntuale, icastica, elegante: bella.
Poi, lentamente e con fatica, si imparava l’italiano. All’inizio come una vera lingua straniera: io possiedo un libretto di Esercizi di traduzione dal dialetto piemontese datato 1925, per la classe V elementare, In conformità con i Programmi Ufficiali del 1. Ottobre 1923.
La versione in italiano, come si farebbe la versione in latino.
Non tutti imparavano questa seconda lingua con la medesima competenza e scioltezza, ma il gusto era formato. Chi conosce, in dialetto, dieci vocaboli diversi per indicare dieci diversi tipi di castagne, non si adatta, in lingua, a prendere la prima parola che passa per lì.

Ora ci troviamo nella situazione peggiore: si impara l’italiano come una lingua straniera, senza più avere una propria lingua materna, come immigrati in patria. Perfino per avere modelli di lingua parlata dobbiamo far ricorso ai Promessi Sposi.
Purtroppo una scuola di lingua non può ormai che partire da uno studio libresco. Uno studio faticoso, disinteressato, volto soltanto ad imparare la bellezza della parola. Uno studio soprattutto lungo.

Il buon gusto vien mangiando. E non abbiamo ricette per la trattoria dell’avvenire.

O sbaglio?


Note:

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