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Lingua e dialetto

Lingua e dialetto nella storia

Tra lingua e dialetto non vi è una differenza di tipo linguistico, ma di status; o per lo meno così è all’inizio. La lingua ha un carattere di ufficialità che invece viene negato al dialetto; e questo nasce da cause puramente storiche e sociali.

Infatti una medesima forma di espressione può essere, a seconda delle epoche e delle zone, classificata come lingua o come dialetto.

Il portoghese è la lingua ufficiale del Portogallo; ma in Galizia, il gallego, che è la stessa cosa, è (o era fino a poco fa) un dialetto locale.

Emblematico il caso dell’occitano: dal XII secolo agli inizi del XIV fu una delle principali lingue di cultura d’Europa, tanto da essere correntemente usato anche al di fuori della sua zona d’origine, dalla Catalogna al nord Italia. Improvvisamente, per vari motivi storici, fu relegato a forma di espressione locale, popolare. Nell’800 si tentò di farlo rivivere come lingua letteraria, tentativo che dura tuttora, ma che non è riuscito a frenare la sua decadenza.

Qualcosa del genere è capitato in Italia con il siciliano.

Però questa differenza di status ha a sua volta un pesante riflesso di tipo linguistico.

Le lingue ufficiali, proprio in quanto tali, assumono una ricchezza lessicale e una formalizzazione grammaticale che invece i dialetti gradatamente perdono. È vero che all’inizio il toscano non aveva particolari caratteristiche che lo rendessero preferibile al siciliano, all’umbro, al lombardo, al veneto (solo per indicare parlate che, intorno al 1250-1300, ebbero importanti manifestazioni letterarie); ma ormai la trasformazione è irreversibile. Io non saprei tradurre la Divina Commedia o la Critica della ragion pratica in piemontese; forse Tòni Bodrìe ci riuscirebbe, ma risulterebbe incomprensibile alla stragrande maggioranza degli stessi piemontesi. (Tòni Bodrìe è uno dei più grandi poeti del ’900; purtroppo è l’unico in grado di capire le sue stesse poesie e di tradurle in italiano).

La standardizzazione della lingua ufficiale la rende più o meno uniforme su un’area geografica molto vasta; invece, uno dei caratteri più affascinanti (e più scomodi per l’uso pratico) dei dialetti è l’estrema varietà locale. Già Dante rilevava che nella città di Bologna si parlavano sei dialetti diversi, a seconda dei diversi borghi della città. La stessa situazione si verifica ancora adesso là dove il dialetto è vivo e vitale; vi sono paesini di montagna di poche centinaia di abitanti in cui la pronuncia permette di distinguere immediatamente quelli che vengono dalle borgate alte da quelli che vengono dal capoluogo. Certo, se si decidesse che il piemontese è la lingua ufficiale del Piemonte (cosa del tutto improbabile), occorrerebbe stabilire quale piemontese: se si scegliesse quello della tradizione letteraria scritta (ne abbiamo una, piccolina, anche noi) sicuramente nascerebbero movimenti autonomisti nelle Langhe, nel Canavese, nel Monferrato a rivendicare la nobiltà e la venustà della loro favella (per non parlare delle zone occitane, walser e franco-provenzali).


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