Quella tessera del ’92

Sono iscritto al PD da 22 anni.

All’epoca si chiamava PDS, ho ancora la tessera con la data del 29 marzo 1992.

Tessera 1992

Chi c’era, ricorda quell’anno, uno dei più terribili della storia italiana recente. L’anno della grande offensiva di mafia, che ben presto avrebbe portato all’incubo delle stragi. Ma anche la criminalità comune raggiunse un picco assolutamente anomalo, come ricordano le statistiche del Ministero degli Interni.

Si era alla fine della “Prima Repubblica”, che finiva molto male, non solo perché stavano venendo alla luce i grandi casi di corruzione – cosa che in realtà suscitò ben poca sorpresa nell’opinione pubblica – ma soprattutto perché quel che rimaneva del vecchio ceto politico mostrava una clamorosa inadeguatezza di fronte ai problemi del Paese.

Si stava intanto inabissando il PSI; per la prima volta nella storia recente un grande partito si era totalmente identificato con la vicenda personale del suo leader, e tramontando quello, inevitabilmente ne seguiva la sorte, in un suicidio inglorioso che lasciò un vuoto incolmabile nella politica del Paese.

Ma la cosa che più mi spinse a quell’iscrizione, fu la petulante insistenza con la quale un Presidente della Repubblica, invece di tutelare la Costituzione, si adoperava per scardinarne le fondamenta. Francesco Cossiga fu il primo che tentò di trasformare il disagio della società e la diffusa diffidenza verso la politica in un “piccone” per abbattere le istituzioni nate dall’antifascismo.


La mia adesione al PDS fu più una testimonianza che una militanza; volli manifestare la mia opposizione al corso degli eventi entrando in un Partito che all’epoca mi sembrava quello che meglio custodiva l’eredità dei Costituenti. Non partecipai mai effettivamente all’attività politica, ma quella tessera, che rinnovavo ogni anno, mi dava la sicurezza che la rassegnazione non era inevitabile.

Poi mi devo essere distratto un momento, ed ora mi trovo iscritto ad un Partito che ha come obiettivo prioritario togliere ai cittadini il diritto di voto.


Sotto l’etichetta di “riforme”, termine che ormai può comprendere qualunque cosa, si sta discutendo la trasformazione del secondo ramo del Parlamento in una commissione di amministratori regionali di secondo piano, scelti da altri amministratori regionali.

Sappiamo benissimo che i partiti sono strumento essenziale della democrazia, che tra la sovranità popolare e la macchina dello Stato è necessaria una mediazione organizzata; siamo troppo vecchi per non sapere che la spinta della “democrazia diretta” non ha mai portato ad altro che alla delega plebiscitaria verso un Capo carismatico. Ma sappiamo anche che qui è il punto delicato del processo democratico, che i partiti tendono inevitabilmente a trasformarsi in un ceto autoreferenziale, e che questa tendenza deve essere attentamente monitorata a tenuta sotto controllo. Per questo, il costante richiamo al principio della Sovranità popolare è assolutamente indispensabile. La “riforma” in questione va esattamente nel senso opposto; la degenerazione viene addirittura costituzionalizzata, ed in una delle istituzioni chiave dello Stato!

Uomini dell’apparato scelti da altri uomini dell’apparato, un drappello di piccoli oligarchi che si autonominano e se la cantano e se la suonano. A questo si vuol ridurre il Senato della Repubblica.

La riforma della legge elettorale della Camera, pubblicizzata con un nome che sembra quello di un digestivo alle erbe, segue una logica analoga, ha il solo vantaggio che non sarà una norma inserita nella Costituzione. Ai cittadini viene lasciato il diritto di voto, ma è un diritto di voto per così dire all’ingrosso; si sceglie un pacchetto di parlamentari, poi chi vuole legge sulla confezione il contenuto, tanto non lo può cambiare. La Camera dei Deputati non è più quell’immagine della società che l’ha eletta, dove “ogni membro… rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”; è il Consiglio di Amministrazione dei grandi padroni delle liste, che usano pacchi di voti per misurare i loro equilibri di potere.

Certo, queste idee non sono farina del sacco democratico, ma finché a sostenerle erano uomini come Licio Gelli o Silvio Berlusconi, non c’era niente di strano. Ognuno fa il proprio mestiere, e da una destra autoritaria non può venire altro che un “Piano” per una trasformazione autoritaria dello Stato.

Ma che questo progetto, già bocciato clamorosamente nel referendum del 2006, sia ora ripreso da un Partito che si dice Democratico (anche se non è più “di Sinistra”, ma pazienza!) non può non suscitare sconcerto e indignazione.


Fra i tanti centenari del 2015 ne voglio ricordare uno, di cui non mi sembra si parli ancora in giro. Sono ottocento anni dalla Magna Charta, quel grande confuso documento della storia inglese da cui, forzando un pochino il testo, si può estrarre il primo germe di una di quelle grandi idee che nei secoli hanno reso l’Europa qualcosa di speciale. E l’idea è questa: è un paese libero quello in cui c’è un Parlamento che può controllare il Governo.

Si sta oggi affermando un principio diverso, quello di un sistema in cui il Governo controlla il Parlamento.

Mi vengono amare riflessioni da insegnante in pensione. Mi chiedo se nella scuola italiana si insegnano ancora certe cose. Nei libri di storia di una volta, c’era un capitoletto, “Confronto fra il Risorgimento italiano e l’Unificazione tedesca”. E la differenza fondamentale è che alla guida del nostro Risorgimento c’era un Governo il quale, dal 1849 in avanti, doveva rendere conto del proprio operato ad un Parlamento liberamente eletto. Invece l’Unificazione tedesca fu guidata da uno Stato autoritario, il cui leader fu il primo a contrapporre l’energico “fare” governativo agli inutili “discorsi” delle aule parlamentari.

Cavour, dunque, o Bismarck – senza togliere nulla ai meriti di quest’ultimo, il quale, va riconosciuto onestamente, almeno “faceva” effettivamente, e non si limitava a riempirsi la bocca con il “fare”.

E così, oggi abbiamo di fronte un’intera generazione alla quale sembra che nessuno abbia spiegato la differenza tra “potere legislativo” e “potere esecutivo”. Una generazione alla quale sembra normale che il Governo in carica detti il calendario dei lavori parlamentari, per di più in una materia, la riforma della Costituzione, che dovrebbe privilegio gelosamente custodito da coloro che rappresentano direttamente la sovranità popolare.


E quella vecchia tessera? La tengo.

Sta lì a ricordarmi che non bisogna rassegnarsi, che non bisogna stare zitti.


Aggiornamento del 31 luglio 2014. Visto l’evolversi della situazione, per i motivi qui esposti ho deciso di seguire l’indicazione del Segretario del mio Partito, il quale, rivolgendosi ai dissidenti, ha detto, con la squisita eleganza che gli è propria, “quella è la porta”.

A proposito di disparità di forze

L’11 dicembre 1941 Benito Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti d’America.

Si dice che il Senatore Agnelli abbia mormorato: “Ma gli avete fatto vedere la guida telefonica di New York?”

L’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo, con vaste aree di sottosviluppo a livelli di Terzo Mondo.

Tanto per dirne una, avevamo un’aviazione militare che era all’avanguardia nel mondo a metà degli anni ‘30, ma diventava immediatamente obsoleta quando, con lo scoppio della guerra, anche il progresso tecnologico cominciò a correre come un puledro impazzito.

Anche noi riuscimmo a mettere in campo qualche bell’aeroplanino, il Macchi 202 (produzione totale, un migliaio di esemplari) il Macchi 205 (circa 300 esemplari) il Fiat 55 (circa 200) il Reggiane 2005 (una trentina). Bellissimi, roba da competizione sportiva, ma in una guerra mondiale…

E con questo bell’apparecchio, siamo andati a stuzzicare un colosso capace di sfornare un quadrimotore B24 Liberator, fatto e finito, ogni 56 minuti, 24/24, 365/365.

Che cosa potevano fargli, agli americani? Ma neanche il solletico.

Per nostra sfortuna loro ci hanno presi sul serio, alla prima occasione ci hanno invasi, e ci hanno asfaltati da Capo Passero alla Valtellina.

E così il Duce concluse la sua carriera imperiale appeso per i piedi ad un distributore di benzina – e mai corda fu meglio usata, almeno nel XX secolo.

Elogio dell’inciucio

Vent’anni di berlusconismo ci hanno lasciato tanti frutti avvelenati, ma il peggiore di tutti è stato quello di di aver introdotto come logica normale della prassi politica la categoria amico/nemico.

Si tratta, com’è noto, della categoria base del → populismo. O sei con me, o sei contro di me, e se sei contro di me, ti distruggo. Io sono con il popolo, quindi se sei contro di me, sei contro il popolo, e coi nemici del popolo non si ragiona. Il popolo li schiaccerà! E rimarremo solo noi, gli amici del popolo.

Intendiamoci: la logica amico/nemico fa parte della politica. Ma è propria dei momenti di profonda crisi, di cambiamento traumatico di regime. Nel ‘43-’45, con la guerra in casa, la guerra civile, mezza Italia occupata dai tedeschi e l’altra mezza occupata dagli anglo-americani, non ci poteva essere mediazione tra fascismo e antifascismo. O l’uno, o l’altro. O l’antifascismo distrugge il fascismo, o il fascismo distrugge non solo l’antifascismo, ma tutta la Nazione.

Ed anche oggi, tra lo Stato di diritto e l’antistato mafioso, non ci può essere mediazione. O vince uno, o vince l’altro.

Ma fra forze politiche costituzionali, la logica deve essere un’altra. Ci può essere un confronto anche aspro, maggioranza ed opposizione devono essere nettamente distinte, ma non si può trattare l’avversario politico come un nemico da distruggere. E soprattutto, fra persone adulte, non c’è niente di strano se ci si mette a discutere, e si trova un accordo perché si decide che le cose che uniscono sono più importanti delle cose che dividono. Soprattutto quando non ci sono alternative.

La democrazia è il governo della maggioranza. Ma da nessuna parte sta scritto che quella maggioranza deve essere rappresentata da un solo partito.

Può capitare che il 51% voti per un partito, e allora governerà quel partito. Può capitare, anche se non è così frequente.

Ma se nessuno raggiunge il 51%; se il voto si frammenta fra diversi partiti, tutti sotto il 30%, come in Italia l’anno scorso, come oggi in quasi tutta l’Europa – compresa l’Inghilterra, che il bipartitismo l’ha inventato e, fino a ieri, sembrava l’avesse nel sangue – allora i casi sono due: o si arriva ad una coalizione, o si fa una legge elettorale farlocca che trasforma il 25~28% in un bel 51%.

Non riesco assolutamente a capire per quale ragione questa seconda soluzione sarebbe più democratica della prima. Non riesco assolutamente a riconoscermi in quelli che dicono che la democrazia è quel sistema in cui “c’è sempre uno che vince e l’altro che perde”.


I fanatici del “nessun inciucio”, poi, non sanno dare nessuna spiegazione su come arrivare a quel famoso 51%. Poiché o sei con me o sei contro di me, in caso di sconfitta elettorale non c’è altra spiegazione se non quella di considerare gli elettori stressi come dei nemici. “Gli italiani si sono venduti per 80 euro!” è l’unica chiave interpretativa della realtà a cui sanno affidarsi.

Naturalmente, essendo in minoranza, difendono il proporzionalismo – e farebbero bene, se non fosse che un sistema proporzionale porta quasi inevitabilmente a governi di coalizione. Se fossero loro ad avere il 40%, come farebbero a governare? O dovrebbero accordarsi con qualcuno che gli fornisca quell’11% che gli manca; oppure dovrebbero affidarsi ad una legge elettorale maggioritaria.

L’unica alternativa è una campagna elettorale permanente, tutti contro tutti. E allora sì, sarebbero “nemici”. O vincono gli altri, o loro distruggono il Paese.


Pubblicato originariamente il 4 luglio 2014 in news:it.politica.sinistra, dove non va mai nessuno; lo metto ora (5 agosto) qui, alla data di allora.
Tanto anche qui non viene mai nessuno.