Essere impiccati per una poesia

http://en.wikipedia.org/wiki/Hashem_Shabani

Mentre noi italiani da un quarto di secolo siamo seriamente impegnati a far ridere il mondo intero, altrove c’è chi mette in scena i peggiori incubi dell’umanità.

Per i poeti, per chi scrive cose sgradite, addirittura per chi scrive nella lingua sbagliata, ci sono la tortura e la forca.

La notizia arriva da noi con due settimane di ritardo, ed anche in questo non ci facciamo bella figura.

Neolingua

Abbiamo sempre saputo — ce l’ha spiegato molto bene Orwell, ma è sempre stato così — che ogni cambiamento di regime è segnato da un cambiamento nelle abitudini linguistiche.

Da parecchi anni (non da ieri, vent’anni e passa) questa trasformazione ha toccato perfino una delle basi della grammatica italiana, la differenza tra verbi transitivi e verbi intransitivi.

Il verbo “fare” è un tipico verbo che ha bisogno di un complemento oggetto: il bambino fa (che cosa?) i compiti, la mamma fa (che cosa?) i gnocchi…

Le maestre di una volta sconsigliavano l’uso di un verbo così generico, e indicavano alternative più precise: fare → costruire un muro, fare → comporre una poesia.

Da un quarto di secolo più o meno il verbo “fare” è diventato un verbo intransitivo.

L’importante è “fare”, non fare questo o quest’altro.

Non navigare volare poetare amare credere obbedire combattere: fare.

I filosofi troveranno collegamenti con le dottrine che mettevano all’origine del tutto l’“atto” o cose del genere; da pedante in pensione, posso solo esprimere il mio sconcerto nel vedere la progressiva invasione, come i rinoceronti di Jonescu, degli “uomini del fare”, che proprio perché “fanno” (o meglio: vorrebbero fare) si considerano esentati dall’obbligo di dichiarare “che cosa” intenderebbero fare.


Naturalmente, poiché “fare” è un verbo intransitivo, più si è impegnati nel “fare”, più si fa un bel cazzo di niente.


“i gnocchi”, e non mi rompete le palle, ché non è giornata.

Etiopia 1935-1936, i missionari alla guerra

…Le bombardement, écrit-il au P. Provincial le 4 avril, que les Italiens ont exécuté dimanche dernier contre la ville est un acte barbare qui mérite la malédiction du Ciel… Pour ceux qui connaissent l’histoire des pactes concernant l’Ethiopie, ils considèrent, comme une faiblesse impardonnable, le silence de l’Angleterre et de la France dans le bombardement de Harar et de la région tout entière. Car, en vertu du pacte tripartite de 1906, intervenu entre l’Angleterre, la France et l’Italie, il était interdit à l’une de ces trois puissances de toucher à la zone d’influence de sa voisine. Or Djidjiga était la zone anglaise et l’Angleterre en a supporté le bombardement; Harar était la zone de l’influence française et la France l’a laissé bombarder au mépris des plus formels engagements… Ici, du fond de notre Afrique, la vision que nous nous faisons du monde actuel, la voici: Deux sinistres ambitieux s’étant rendu compte que les peuples et leurs chefs sont atteints de la paralysie de la peur, ils en ont profité pour imposer leur domination, sachant bien qu’ils ne rencontreront aucune opposition, sinon celle de la paperasse et des discours, dont ils ne font pas plus cas que des hommes qui les écrivent ou les débitent. Je le répète: dix avions anglais à Djidjiga, et dix avions français à Harar auraient plus fait pour mater Mussolini que toutes les séances de la Société des Nations dont la décrépitude est devenue un fait humiliant. C’est accroupi sous le solide plafond de ma roche que je vous écris ces lignes, Très Révérend Père, n’ayant d’autre bureau que l’appui de mes deux vieux genoux…

Chi scrive queste parole è Mgr André Jarosseau (1858 – 1941), Vicario Apostolico dei Galla, testimone del bombardamento del 29 marzo 1936 su Harar, ufficialmente “città aperta”.

La “roche” cui allude è la grotta di Nazaro, a circa 7 km dal centro cittadino, adottata come rifugio antiaereo.

Il patto del 1906 era un trattato tripartito che, senza interpellare il legittimo governo etiopico, le tre potenze europee avevano stipulato per garantirsi il rispetto delle reciproche zone di influenza.

Gaëtan Bernoville, Monseigneur Jarosseau et la Mission des Gallas, Paris 1950


Questa la posizione dei missionari francesi.

La posizione dei missionari italiani era un po’ diversa.

Reginaldo Giuliani a Fiume

Padre Reginaldo Giuliani (1887-1936) fu frate domenicano, predicatore focoso ed ammiratore del Savonarola, cappellano militare di fanteria e poi del corpo degli arditi durante la I guerra mondiale (due medaglie di bronzo e una d’argento al valor militare). Fu poi fiumano, e cappellano della compagnia La Disperata di d’Annunzio; energico sostenitore in patria e all’estero del fascismo (1); infine cappellano militare delle Camicie Nere nella guerra d’Abissinia, dove morì nel combattimento di Passo Uarieu (medaglia d’oro al valor militare).

Di lui si scrisse molto, in tono altamente celebrativo, in vita e soprattutto negli anni immediatamente seguenti alla sua morte; la sua figura è stata in seguito quasi completamente dimenticata, e non mi risulta che vi siano studi critici recenti. (1bis)

Un volume abbastanza dettagliato, per lo meno su alcuni punti della sua vicenda, è quello di Arrigo Pozzi (2), Il Cappellano degli Arditi e delle Camicie Nere, II ed. 1939 G. Gasparini Editore Milano.

In questo volume è particolarmente dettagliato il resoconto della sua partecipazione all’avventura fiumana.

Tra il 25 e il 27 agosto le truppe d’occupazione italiane lasciano Fiume; quello stesso 27 agosto esce il primo numero del quotidiano Vedetta d’Italia, che pubblica in prima pagina una lettera di D’Annunzio al capitano Host-Venturi preannunciante un suo intervento. Il 31 agosto Giuliani partecipa ad un’assemblea nella Filarmonica di Fiume, vi pronuncia un acceso ed applauditissimo discorso, in cui “assicura che gli arditi e gran parte dei soldati che hanno vinto la guerra non permetteranno che la loro vittoria venga mutilata, e come i Fiumani hanno gridato: ‘O Italia o morte!’, essi hanno giurato: ‘O Fiume o morte!’”

Lo storico fa qui due osservazioni: anche se non ci sono prove in proposito, è molto probabile che la sua missione nella città sia stata preventivamente concordata con il Comandante; e che in quei giorni Giuliani era ancora cappellano del 55° Fanteria di stanza a Treviso, e quindi ufficiale dell’esercito italiano.

Subito dopo Giuliani si congeda dall’esercito; il 12 settembre rientra a Fiume con la colonna dannunziana. Il 15 è a Torino; nel frattempo è stato eletto nuovo provinciale dei Domenicani padre Benedetto Berro, che era stato maestro del Giuliani al tempo del suo noviziato. Tutto fa pensare che il frate abbia chiesto, ed ottenuto, dal suo nuovo superiore il permesso di partecipare all’impresa. Giuliani rientra quindi a Fiume, dove viene accolto con entusiasmo dai legionari, molti dei quali erano arditi di sua vecchia conoscenza.

Il biografo qui sottolinea che P. Giuliani è stato spinto all’impresa non solo da sentimenti patriottici, ma anche dal desiderio di contrastare, all’interno del composito movimento fiumano, le tendenze antireligiose ed anticlericali. Si dilunga quindi a parlare della sua azione come predicatore, confessore e moralizzatore dei costumi.

Fin dall’inizio però la presenza di Giuliani si scontra con la comprensibile ostilità del clero croato. Quasi tutti i preti slavi hanno preferito emigrare; don Kukanic (che in certi casi il Pozzi chiama “monsignor Kukanic”) è il parroco della chiesa dell’Assunta (detta anche Duomo), all’epoca l’unica parrocchia di tutta la città; ma spesso è in Jugoslavia, e si ostina a parlare e celebrare in croato, anche se conosce perfettamente l’italiano avendo studiato a Firenze. I preti italiani capeggiati da Giuliani (non si dice il loro nome né il loro numero) fanno di tutto per soppiantare gli slavi; la tensione arriva al punto che le autorità civili italiane chiudono le porte del Duomo e sequestrano le chiavi. (3)

Un episodio clamoroso che coinvolge il Giuliani è quello del dono del pugnale a D’Annunzio. La versione fornita dal Pozzi vuole essere il più possibile favorevole al frate, ma è ugualmente inquietante.

Un comitato di circa 600 donne fiumane decide di donare al Comandante un artistico pugnale col manico d’oro. La cerimonia è accuratamente studiata. Nella chiesa di San Vito (che in seguito alla costituzione della diocesi di Fiume diventerà cattedrale) Reginaldo Giuliani celebra la Messa, nel corso della quale benedice il dono. A questo punto, secondo la versione del Pozzi, Giuliani termina la celebrazione, spegne le candele e depone i paramenti sacri. Quello che segue dovrebbe essere quindi una cerimonia non religiosa, per quanto si svolga in una chiesa. Una rappresentante delle donne si rivolge a D’Annunzio, ringraziandolo per quanto sta facendo, e gli consegna una pergamena con i nomi di tutte le donatrici (che una donna parli in chiesa oggi non fa specie, ma all’epoca pare fosse rigorosamente proibito). Il comandante pronuncia un discorso, in cui chiama il pugnale “sacramento del ferro”.

La vicenda suscita naturalmente scalpore, e lo stesso Giuliani ha dovuto difendersi, sostenendo che:

1. il pugnale, proprio per la sua preziosità, non era destinato a “scopi cruenti”: “come la spada degli antichi cavalieri, può essere ritenuto quale simbolo di difesa della giustizia”;

2. il resto della cerimonia, terminata la funzione religiosa, non era stato concordato, né tanto meno autorizzato da lui.

A differenza di quanto si è spesso sostenuto, sempre secondo il Pozzi, non dovrebbe essere stata questa la causa dell’allontanamento del Giuliani da Fiume.

Passò un paio di mesi, nel corso del quale vi fu un altro grave motivo di tensione.

Si diceva che nel convento dei Cappuccini di Fiume si tenevano liturgie secondo il rito glagolitico, l’antica lingua sacra dei popoli slavi. In realtà pare che i frati si limitassero a predicare alternando l’italiano con il croato, per venire incontro ai bisogni della parte slava della popolazione. Ciononostante a Padre Giuliani “venne dato l’ordine” (da chi?) di fare pressioni perché nella città di Fiume si abbandonassero “forme superate e in ogni modo non coordinate alla liturgia latina”, cosa che il buon Frate fece con il calore e l’entusiasmo che possiamo immaginare.

A questo punto le cose precipitano; la presenza del Giuliani a Fiume è sempre più imbarazzante, e giunge l’ordine di partire. Di nuovo, ci mancano documenti precisi; sappiamo solo che il 23 marzo 1920 Giuliani lascia Fiume, cercando di non dare nell’occhio per timore di suscitare disordini, e il 25 marzo è già nel suo convento di Torino.


(1) la notizia della sua partecipazione alla Marcia su Roma compare solo nel volume di aggiornamento 1938 dell’Enciclopedia Treccani; ma non l’ho trovata in nessun’altra fonte.

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(1bis) Solo recentemente mi è stata segnalata una tesi di laurea: Giovanni Cavagnini, Un apostolo per «La più grande Italia». Padre Reginaldo Giuliani tra mito e storia, Pisa 2008.

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(2) dell’autore so solo che era giornalista dell’Avvenire d’Italia, e che è sospettato d’essere stato informatore della polizia su vere o presunte attività antifasciste.

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(3) su questi fatti si veda anche qui →

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